Ryan Murphy: il re dell’eccesso
Ryan Murphy con Nip/Tuck si è imposto come il genio del male della televisione. Ed è tornato a far tremare il pubblico con American Horror Story
Se c’è una cifra che contraddistingue il lavoro dei 14 anni di Ryan Murphy come autore televisivo, quella è l’eccesso. Il troppo non stroppia, anzi, è l’esatta misura di quanto va mostrato secondo l’inesauribile provocatore di Indianapolis. Che dal 1999 persegue l’obiettivo di far deflagrare la scatola televisione e i suoi meccanismi, mostrare con pervicace, crudele ironia la nostra pulsione di voyeur e consumatori di narrazione a buon mercato. Autore apparentemente eclettico fino alla schizofrenia, ha all’attivo cinque serie (due ancora in pieno svolgimento, visto che The New Normal è stata appena cancellata al termine della prima stagione) e un pilota abortito, che spaziano tra comedy, drama, horror, spesso combinati insieme. Se un fruitore occasionale potrebbe stentare a individuare il nesso tra una serie sui chirurghi plastici, una incentrata su adolescenti canterini e una ambientata in una casa infestata dai fantasmi, la presenza di Murphy nelle sue creazioni è tutt’altro che sottile e a tratti ostentata. Un po’ come gli accaparratori patologici ammucchiano oggetti, lui impila linee narrative, colpi di scena, personaggi sopra le righe e momenti shock; il tutto con grande consapevolezza e spiccato gusto metatelevisivo.
Demiurgo sornione, è odiato da moltitudini di fan che lo ritengono colpevole di rovinare i suoi stessi show con la tendenza al crescendo rossiniano di esagerazioni e implausibilità (senza contare la spensierata attitudine a far morire i suoi personaggi o a tagliarli fuori dai giochi da una stagione all’altra), ma lui ne ha fatto il suo marchio di fabbrica: esplorare i limiti della materia narrativa, tirare la corda della scrittura, rendere scoperto il ruolo dell’autore. Il gioco, tutto postmoderno, di Ryan Murphy consiste nel confezionare prodotti curatissimi che siano efficaci come opere di genere e al tempo stesso efficacissime decostruzioni parodiche di quel genere. Un equilibrio sottile, raffinato eppure ardito, che ha lasciato un segno inequivocabile sul piccolo schermo: almeno due delle sue creature, Nip/Tuck e Glee, sono diventate oggetti di culto per larghe fette di audience. Sottolineando una caratteristica che fa di Murphy una figura abbastanza insolita nel panorama della serialità d’autore: le sue creazioni stratificate e multilivello hanno attirato l’attenzione di fasce di pubblico divergenti e quasi inconciliabili tra loro. Nip/Tuck ha incollato allo schermo sia il fruitore abituale di soap opera sia il geek cinefilo; forza di una scrittura audace e ammiccante, ma che attinge ai più basilari desideri dello spettatore nei confronti di un prodotto seriale. In pieno stile camp, la bellezza del Brutto è esposta in tutto il suo lampante appeal sul piccolo schermo, irresistibile, innegabile, abbastanza da farcene vergognare. Forse proprio per questo, come sottolinea la critica del The New Yorker Emily Nussbaum, Murphy non è mai stato investito di quell’aura da Autore che è spettata a colleghi altrettanto iconoclasti (pensiamo a Joss Whedon o a David Simon); la sua pervicace resistenza al realismo lo ha spesso fatto etichettare come buffone.
Eppure, dietro la variopinta e truculenta cortina di personaggi politicamente scorretti, l’estetica sopra le righe di Murphy ha fatto filtrare uno sguardo impietoso sull’America di oggi, forse ancor più indigesto della sua galleria di figurine camp. Gay dichiarato, cresciuto in una famiglia cattolica, ha fatto delle tematiche queer e della demistificazione di certe sovrastrutture culturali i suoi punti cardine, trasversali e comuni a tutte le sue serie. Non si tratta solo della presenza di personaggi omosessuali (un po’ ovunque, dalla parentesi saffica di Joely Richardson e Portia DeRossi in Nip/Tuck, a Blaine&Kurt o Santana&Brittany in Glee, fino agli sfortunati Zachary Quinto e Teddy Sears di American Horror Story), ma dell’esplorazione costante di ogni orientamento sessuale in contrasto con un’ipocrisia soffocante e avariata; se Nip/Tuck ha una nutrita galleria di transgender, il pilot della serie mai nata Pretty/Handsome vedeva Joseph Fiennes nei panni di padre altoborghese col vizietto di mettersi en travesti; la seconda stagione di AHS dedica ampio spazio alla lotta per l’equità dei diritti simboleggiata dal personaggio di Sarah Paulson, lesbica “curata” a suon di elettroshock. La più recente creazione di Murphy, The New Normal, ha il pregio di mostrare, finalmente, una coppia omosessuale tutt’altro che tormentata, vessata o nascosta, quasi un tabù per il piccolo schermo (la serie, per altro, è fortemente autobiografica: come i due protagonisti, anche Murphy e il suo compagno hanno avuto un bimbo da madre surrogata).
La famiglia intesa in senso classico è, d’altronde, una delle istituzioni più volentieri dissacrate da Murphy, nonché una delle grandi bugie americane messe alla berlina, sia nella sua composizione sia nei suoi rituali posticci (l’odio dell’autore per le festività ha dato vita ad alcuni dei più terrificanti episodi natalizi nella storia della tv: il barbone/Babbo Natale squartato dalla ladra d’organi Jacqueline Bisset in Nip/Tuck e il folle sterminatore di famiglie in costume da Santa Claus di AHS); la stessa fine ha fatto la psicanalisi, con una serie di strizzacervelli tra il ridicolo e il letale (la stalker Brooke Shields di Nip/Tuck; il pessimo analista Dylan McDermott della prima stagione di AHS, superato solo dal folle Zachary Quinto della seconda); per non parlare della religione (le tonache demoniache, opportuniste, ambiziose e crudeli di AHS) e della stessa tv (lo psicotico ambiente dell’industria del piccolo schermo è smascherato nelle stagioni losangeline di Nip/Tuck; in The New Normal, invece, Murphy arriva a prendere per i fondelli se stesso e Glee, parodiato nello show che il personaggio vagamente autobiografico di Bryan sceneggia…). Se è vero, come proclama Jessica Lange in AHS, che “tutti i mostri sono umani”, Murphy non ha scoperto nulla di nuovo: ha solo scelto di piazzare la mostruosità in bella vista, sotto luci glamour, e di farne una star.