The Wolf of Wall Street
La coerenza di Martin Scorsese
Pellicola che narra dell’ascesa prematura e della rovinosa caduta del broker newyorkese Jordan Belfort, The Wolf of Wall Street (2013) viene etichettato – dal suo stesso padre Martin Scorsese – come «fratello più giovane» di Goodfellas (1990): coincidono in molti aspetti narrativi, scenografici e in scelte registico-stilistiche. Principalmente The Wolf of Wall Street si fonda sulla generazione reciproca tra la follia del capitalismo estremo e la follia nata dal consumismo incontrollato, che permette l’affermarsi di forti dipendenze, come quelle della droga e della prostituzione. Più dettagliatamente, l’idea drammatica corrisponde al particolare conflitto che evolve in avanti la storia, la cupidigia per i soldi, che conduce Jordan alla disfatta. Il conflitto, in parole più povere, si basa sul rapporto tra individuo e denaro; una lotta fra il bene e il male, che si traduce presto in lotta tra FBI e protagonista. Sul piano costruttivo la pellicola segue linearmente la struttura restaurativa in tre atti, quindi una schematizzazione fatta di colpi di scena e punti di svolta, portata avanti da un personaggio centrale e da uno sviluppo narrativo e conflittuale.
Il film rispecchia pienamente lo stile inconfondibile di Scorsese, a partire dal set-up, in cui la ripresa si arresta in un fotogramma e permette l’inizio del racconto in voice-over di Jordan. Egli è un narratore eterodiegetico solo nel primo atto, finalizzato a stendere il meccanismo sintattico dei salti temporali; dopodiché, diverrà omodiegetico per mezzo di una metalessi dello schermo – sguardo in camera, con la quale attraverserà la parete cinematografica per attirare l’attenzione dello spettatore. Coerente al suo stile, Scorsese inserisce i fuori campo reali (che conosciamo o stiamo per conoscere) e le citazioni ad altre arti (qui, su Popeye e Miami Vice); utilizza la kubrickiana one-perspective, l’oggettiva, l’interpellazione e i personaggi attanti – scompaiono a fine atto, ma è necessario inserirli per mandare avanti la storia (qui, Mark Hanna e la zia inglese di Naomi).
Elemento basilare per il regista italo-americano è, infine, il tempo filmico che, anche in The Wolf of Wall Street, viene manipolato da chiari salti temporali, i quali dilatano il tempo del racconto e permettono di parlare di tempo ciclico: il finale rimanda chiaramente all’apertura. Questa alterazione, è permessa dall’utilizzo sapiente degli espedienti periodici, vale a dire il flashback, l’ellissi, lo slow-motion e il fotogramma d’apertura. Si parla di finale analogo al principio, proprio perché la dissoluzione finale del protagonista e il contemporaneo trionfo del peccato – denaro, droga e prostituzione, rimandano alla premessa iniziale, nonché quella della relazione fra oggetto e personaggio, fra soldi e Jordan. Il loro rapporto è reso nello spazio della storia attraverso gli ornamenti che creano il dramma, primariamente l’onnipotenza della banconota, binario sul quale il film viaggia, per giungere all’arresto e alla fine del lupo di Wall Street.