True Blood. Nel nome del sangue
Provate a domandarlo a un adepto di True Blood: è la serie più eccitante, divertente e fuori di testa della televisione. Ma allora, come mai la consideriamo un horror?
L’incipit di True Blood parla chiaro: qui si scopa. Anzi, per la precisione, sono i vampiri a scopare, tanto e volentieri, con movimenti supersonici e voracità sovrannaturale. Cacciatori insaziabili che grazie a una scoperta scientifica, possono finalmente venire allo scoperto, dichiarare la propria natura e lasciarla libera di esprimersi: «I wanna do bad things with you», fare cose zozze. Non è un caso che questa volontà vampiresca sia proprio la sigla di serie, scritta da Jace Everett, su cui scorrono immagini di repertorio di una Louisiana bigotta e repressa, mixate a cibo mangiato, corpi in putrefazione, battesimi, scritte razziste, serpenti e richiami sessuali.
Da qui la dichiarazione di intenti di Alan Ball, creatore della serie e showrunner per le prime cinque stagioni, ovvero scandagliare la natura umana per portare a galla le nostre paure più ataviche e metterle alla berlina attraverso la metafora di un mondo popolato da esseri sovrannaturali. Non è forse questo il senso dell’horror? Esorcizzare sullo schermo quello che ci terrorizza. E True Blood lo fa attraverso il grottesco, l’esagerazione, il camp, così da rendere ancora più ridicola la razza umana e la sua paura di evolversi.
Alan Ball mette le mani sulla materia adolescenziale dei romanzetti young adult di Charlaine Harris e ci costruisce un divertimento adulto e consapevole, dove sangue e tette possano convivere, parlarsi e magari esprimersi al meglio delle proprie capacità. Cresce piano, infatti, True Blood: la prima stagione deve scrivere i confini di Bon Temps, Louisiana, stabilire il patto con lo spettatore, presentare i personaggi, raccontare regole e nuove leggi di un mondo distopico e fuori di testa popolato da vampiri, mutaforma, telepati e adepti di chiese sadiche. Verso la puntata 9 di 12 quel patto inizia ad essere chiaro, la serie decolla e la tensione, erotica ma anche di suspense, esplode.
Con il passare delle stagioni e l’entrata in scena di menadi, licantropi, tossicodipendenti da V (sangue vampiro), pantere mannare, fate, streghe bruciate e reincarnate, stregoni brujo, ragazze fantasma, maledizioni irachene, dee vampire, fate vampire e vampiri zombi, ovviamente la situazione si complica, e la tensione viene continuamente stemperata dal senso del ridicolo. Vampiri che puliscono il sangue a velocità supersonica, colonne vertebrali staccate in diretta tv con leccata di dita, Jason Stackhouse e la sua idiozia umana, Eric Nothman che perde la memoria e diventa un vampiro zerbino, sogni di ménage a trois, e la consapevolezza che non appena entrerà in scena un nuovo personaggio, anche fosse una comparsa, nel giro di cinque minuti si spoglierà per scopare con qualcuno. Può essere horror questo?
Forse è un superamento del concetto di horror puro, dove le nostre paure più ataviche, soprattutto legate alla paura del diverso, dell’ignoto, della morte (i vampiri sono non-morti) e della sessualità, vengono esorcizzate in un contesto horror, appunto, ma con una risata, che ad ogni stagione si fa più fragorosa. Un po’ come quello che è successo all’horror negli anni 80, con tanto di consapevolezza che, a un certo punto, proprio quella risata avrebbe potuto seppellirlo. Ma i vampiri, una volta seppelliti, risorgono, e continuano a voler fare cose zozze. E Alan Ball gliele permette tutte, a cominciare dalla più necessaria: il nutrimento. L’evoluzione della natura umana ha reso il cibo, motore energetico della nostra esistenza, una cosa zozza, da non mostrare in pubblico. Un’azione che sporca, che mette in moto una catena di eventi che porta alla defecazione, che ingrassa, che fa crescere i brufoli. Mangiare è sporco e il vampiro non pensa ad altro che a nutrirsi.
Il mondo distopico di True Blood, non a caso, nasce proprio dalla scoperta di un sangue sintetico che permetterà ai vampiri di non nutrirsi degli esseri umani. Senza più il legame cacciatore/preda, i vampiri possono uscire allo scoperto. Anche per i vampiri il cibo diventa qualcosa di meno sporco, ma quanto può essere soddisfacente? L’essere umano non ricorda il sapore di una vera bistecca senza estrogeni e antibiotici, altrimenti non ci sarebbero così tanti vegetariani in giro. E i vampiri, non hanno avuto il tempo di abituarsi pian piano a un sangue umano sempre più chimico, e sono alla ricerca del sapore autentico delle cose buone, direbbe uno spot di sangue umano.
Cosa zozza numero due: il sesso. La razza umana ha cercato di soffocare il proprio istinto sessuale per controllarlo e imbrigliarlo in regole morali e moralistiche. I vampiri non hanno morale, perché hanno slegato la sessualità dalla riproduzione (che avviene attraverso un morso consapevole) e ne godono enormemente. Il loro sangue è afrodisiaco, sviluppa il desiderio, e gli umani attratti dal diverso, e spaventati dalla sua carica erotica, lo combattono per paura. Cosa c’è di più horror della riduzione nel sangue della sessualità? Cosa zozza numero tre: l’aspirazione al divino. In True Blood ogni volta che un personaggio, sia un reverendo umano o una dea menade, cerca di sostituirsi a Dio, l’horror prende il sopravvento. L’uomo ha cercato di farlo per millenni, scrivendone le leggi e la mitologia, uccidendo, stuprando, incoronandosi re in suo nome. I vampiri non possono che esserne una metafora.
Dalla chiesa The Fellowship of the Sun della prima stagione, alla dea Lilith della sesta, l’aspirazione umana al divino, trova in True Blood una sua continua rappresentazione. Si passa dalla spiritualità umana, che sembra voler dimostrare l’assurdità della religione creata dal basso, ovvero quella delle chiese autofinanziate dai fedeli proprie della tradizione del sud degli Stati Uniti, alla scoperta che il Dio dei vampiri è femmina e la sua Bibbia è stata scritta prima di quella degli umani. Come se tra le cose zozze che True Blood voglia fare ci sia anche la ricerca del giardino dell’Eden: un luogo che appare diverse volte nella serie, sotto forme differenti, ma che nasconde sempre orrore e disperazione. Cosa c’è di più spaventoso?
Cosa zozza numero quattro: il possesso. «Lei è mia» è la frase che i vampiri pronunciano per difendere l’umano con cui hanno una relazione. Inoltre, i creatori di vampiri sono padroni assoluti del libero arbitrio della propria progenie. I legami di parentela vampira sono sanciti dall’attrazione sessuale e spesso fratelli e sorelle, madri e figlie, padri e figli, si abbandonano all’affetto reciproco attraverso il sesso selvaggio. Amore equivale a possesso. Un’uguaglianza che ci spaventa, perché la riconosciamo come tremendamente umana. Cosa zozza numero cinque: la paura/attrazione per il diverso. Dalle immagini della sigla all’attrazione della telepate Sookie per i vampiri Bill ed Eric (e il lupo Alcide, e la fata vampiro Warlow), il tema del diverso, e quindi del razzismo, è centrale nella serie. Una metafora continua che passa dal bullismo verso i freak allo sterminio di massa, attraverso la rappresentazione di ciò che da sempre ha fatto paura all’uomo: l’altro da sé.
Potremmo andare avanti per ore a elencare le cose zozze che in True Blood rappresentano le nostre paure più ataviche, ma in fondo la domanda rimane. Si tratta davvero una serie horror? In tal senso forse dovremmo spostare l’analisi sul contesto produttivo. Al di là della materia “letteraria”, è il rapporto tra HBO e il creatore Alan Ball a rispondere alla domanda. Ball, già autore della serie culto Six Feet Under, ha saputo raccogliere l’eredità del canale via cavo, inizialmente luogo maschio con proposte di sport violenti, soft core e horroracci tv, riunendo la propria poetica all’esigenza di un nuovo corso con produzioni più adulte.
Come ha scritto Violetta Bellocchio nel novembre 2011 su Rivista Studio: «Ci piaccia o meno, True Blood resta l’erede più fedele di quello che HBO era, e che ha continuato a essere, nonostante i premi e la fama: un groviglio di sangue e tette, il cuore dello “stai pagando per andare oltre”». Sulle cable americane il genere si sta ibridando ancora più che al cinema, sia per l’esigenza di rivolgersi a target di pubblico, sia perché ormai risulta evidente che le codificazioni di linguaggio valide fino agli anni 80, non hanno più molto significato nella transmedialità attuale. E infatti True Blood gode anche di diversi webserie, blog e continuity esterne alla serie principale.
Non è horror perché ci fa ridere? E perché ci fa ridere un vampiro gay ex predicatore razzista? Forse l’horror contemporaneo, dopo le teorizzazioni esplicite di Scream, non può più vivere sulla semplice tensione del se-fai-sesso-muori. Forse c’è bisogno di andare oltre e rendere ridicolo ciò che un tempo ci faceva paura, sì da creare una nuova forma di paura: la paura di avere paura. Il terrore di essere una razza umana che ancora teme il cibo, il sesso, il sovrannaturale, l’amore, il diverso. E magari riuscire a non avere più paura della morte, come ci insegneranno quei vampiri zombi che stanno per invadere Bon Temps e che nella stagione sette concluderanno il ciclo.