The Walking Dead, il fenomeno
Ascolti inimmaginabili per la serie televisiva, giunta alla quinta stagione, che ha portato il genere survivor, gli zombi e lo splatter spinto al centro dell’interesse del pubblico...
Supponiamo che esista una macchina del tempo e che noi ci mettiamo sopra, con tutti i dvd delle quattro stagioni di The Walking Dead. Supponiamo di azionarla e di tornare indietro una quindicina di anni: al Duemila tondo, facciamo. Andiamo da quelli della AMC (American Movie Classics), il canale che oggi trasmette Walking, e gli portiamo da vedere, ex ante, la serie. Che succederebbe? E cosa succederebbe se da New York dove ha sempre avuto i suoi quartieri la AMC ci portassimo a Pittsburgh per far visionare la merce futuribile a George A. Romero? Direbbe, come dice oggi, che gli sembra una soap-opera dove gli zombi non sono che uno sfondo, una quinta, un macabro fondale dipinto, oppure accuserebbe il colpo vedendo cose così oltranziste da far sembrare il Doctor Tongue (per i profani: il morto vivente con la mascella spaccata, la lingua penzoloni e i capelli a bandiera che si vede in controluce all’inizio di Il giorno degli zombi) un gioco da ragazzi? Paradossi. Ma utili a comprendere che se oggi lo zombi è la creatura principe dell’immaginario horror, poco più di dieci anni fa le cose stavano in termini ben diversi. Nel Duemila, c’è da scommettere che a noi viaggiatori del tempo che ci presentavamo (o ci presentassimo o ci fossimo presentati?) onusti di zombesche atrocità che oggi fanno saltare il coperchio di ogni audience, i signori dell’AMC ci avrebbero mandati – senza giri di parole – a fare in culo. Romero ci avrebbe pensato, credo…
Paradossi. Paradossi utili a riportarci nel clima di poco più di dieci anni fa, quando degli zombi dei tempi che furono, non erano rimasti, nel cinema, nella televisione, nel teatro, in terra, in cielo e in ogni luogo, nemmeno più i bachi della sepoltura, cioè i vermi che ne rodessero le carogne. Più che non esistere più, era come se non fossero mai esistiti. Gli anni Novanta si congedavano dai morti viventi con il solo film di Yuzna The Return of the Living Dead 3, che è quella mezza cazzata che è. Romero andava tentando di aggiungere un quarto tassello al suo ciclo e non ce la faceva. A un certo punto era arrivato pure a pensare di ricoinvolgere Argento in un archeologica fase di ciò che sarebbe diventato, per sua e anche un po’ per nostra disgrazia, Land of the Dead – mi si accusi di apostasia, visto come al tempo ne ressi le parti, ma oggi più ci penso e più mi convinco che l’unica cosa buona del film l’hanno inserita negli extra del dvd tra le scene eliminate. Tanto per essere chiari. Cioè: Romero non aveva alcuna credibilità con gli zombi e finì per girare quell’obbrobrio che nemmeno lui, probabilmente, ha mai avuto il coraggio di riguardare che si intitola Bruiser.
Comunque, va dato atto a Romero George A., da Pittsburgh che l’idea di strutturare una serie tv intorno alle avventure dei superstiti di un olocausto zombico (o zombesco) la ebbe lui per primo. Doveva chiamarsi Chronicles of the Dead e nessuno gliela fece mai fare. Da quel filo originario si sono dipanati due filmetti, ipocoristico niente affatto dispregiativo, Diary e Survivor of the Dead, che Romero ha diretto come se fossero conseguenti, con personaggi ritornanti, nell’ipotesi di strutturarli come parti di una serie. Si era risarcito di ciò che non gli avevano fatto fare in tv. E avrebbe continuato, se non gli fosse arrivato dritto in mezzo agli occhi The Walking Dead. E così, parliamone di The Walking Dead, che ha messo fine ai giorni di Romero, il quale adesso racconta di avere detto di no quando gli hanno offerto di dirigere un paio di puntate, per via della storia della soap opera che ha relegato gli zombi a delle belle (brutte) statuine, mentre lui li aveva sempre usati con valore di commentario politico e sociale et cetera. Insomma, Romero fa Romero ed è abbastanza comprensibile che dica di no a qualcosa che, non bisogna essere delle cime per capirlo, gli fa fortemente rodere il fondoschiena. Da ultimo s’è buttato sui fumetti che sono, in maniera ambivalente, per alcuni la vasca dei disperati e per altri lo scrigno delle meraviglie, il forziere dei dobloni, il paradiso che si invera sulla Terra. The Walking Dead nasce nel 2003 come graphic novel pubblicata dalla Image Comics, creata da Robert Kirkman e disegnata da Tony Moore prima e da Charlie Adlard. Copio e riporto dalle informazioni che trovo in Rete, perché di fumetti non so niente e dichiaro la mia ignoranza anche e soprattutto a proposito del Walking Dead cartaceo. Stabilendo subito, così, il punto dolente: è lecito disquisire di WD serie tv ignorando nella maniera più turpe WD fumetto? Credo di sì, anzi sono certo di sì.
Gli esperti mi dicono che le tavole disegnate rispetto agli episodi del serial fanno come le stelle sulla vita degli uomini secondo l’adagio antico: inclinano ma non determinano, che è un modo un po’ contorto e più elegante per dire che fumetto e film c’entrano, se non proprio un cavolo, molto poco. I fumettologi ovviamente schifano la serie tv, la trovano banale, accondiscendente, corriva, soap-operosa – come Romero – a fronte dell’estremismo di ciò che Kirkman aveva concepito. Conosco gente che ci si è messa di buzzo buono, entusiasta della graphic novel, per valutare equanimamente il prodotto trasmesso dalla AMC: il mio amico Jan di Gorgonzola mi ha raccontato che nella terza serie, all’apparizione del personaggio del Governatore, dopo qualche puntata era vicino a tirare un posacenere nel televisore. Il clima in cui viene recepita WD dal fandom fumettistico è più o meno questo. E dal loro punto di vista sono certo che abbiano tutte le ragioni di questa Terra dei morti viventi.
Frank Darabont è l’uomo, lo sceneggiatore, il regista, lo showrunner e, in sintesi, la mente operante del passaggio da WD fumetto e a WD serie tv. Ungherese, 55 anni, kinghiano nel senso che se è conosciuto lo è soprattutto per avere adattato il Re allo schermo con Le ali della libertà e Il miglio verde (e più vicino nel tempo anche con The Mist). Aveva esordito, tra l’altro, nei lunghi con un bel film tv che oggi tutti si sono dimenticati, con Jennifer Jason Leigh, Strategia di una vendetta. Poi ha prodotto Collateral e ha scritto l’ultimo Godzilla. Lui fa partire tutto l’ingranaggio di The Walking Dead nel 2010; lui, Robert Kirkman, lo sceneggiatore del fumetto, e certa Gale Anne Hurd: i tre figurano come produttori esecutivi di un pilota che la AMC annuncia nel gennaio del 2010 e realizza, con la regia di Darabont, nel maggio di quell’anno. Producono una prima tranche di sei episodi. Ad agosto sono già determinati a fare una seconda stagione di 13 episodi. E così via, da un anno per l’altro, seconda, terza e quarta –– entrambe accresciute a sedici episodi, e quinta, prevista tra fine del 2014 e inizio del 2015. È un climax: ogni stagione va meglio della precedente – e anche dal punto di vista qualitativo, come vedremo, si va a crescere, fino al raggiungimento nella seconda metà di quest’ultima serie, la quarta, del punto di massima elevazione.
Ma tanto WD funziona e sfracella record di ascolto, quanto nelle retrovie le menti operanti del successo si scannano tra loro alla grandissima. Darabont, il primo anno caccia via gli sceneggiatori, poi o se ne va sbattendo la porta o lo silurano, non si è capito, a metà della seconda serie, nel 2011, e al suo posto entra come showrunner il produttore esecutivo Glen Mazzara. Che dura un anno per venire a sua volta sostituito da Scott M. Gimple, un altro esecutivo e supervisore alla produzione. Cabale dentro cui è difficile andare a mettere in naso per capire se, davvero, chi se ne è andato lo ha fatto perché non condivideva le direzioni che era stato deciso di far prendere alla storia o se agissero invece motivazioni meno artistiche e più legate alle guerre intestine che per legge fisica si scatenano nelle retrovie di un prodotto che ha tanto, troppo, successo come questo.
«Leggevo in un intervista a Darabont che il titolo Walking Dead non si riferisce agli zombi, ma ai sopravvissuti» scrive sul nostro forum l’utente akuma, il 31 ottobre del 2010. The Walking Dead è partito, con il primo episodio della prima serie. Che negli Usa fa 5.3 milioni di spettatori. Tendenzialmente, ai nocturniani forumisti, che si dividono equamente tra chi il fumetto lo sa a memoria e chi no, piace. «Robert Kirkman, comunque, nell’angolo della posta della serie a fumetti (che lui stesso gestisce in prima persona) ha detto che la serie prenderà subito una piega diversa, perché non vuole annoiare chi già conosce la storia…» riferisce l’utente MdM83. «Ecco, questa notizia non è che mi garbi molto… io conosco molto bene il fumetto, ed è perfetto così, spero non facciano cazzate», gli replica karma negativo, il guru delle serie tv americane sul nostro forum. Si può dare per scontato che tutti sappiano di cosa parla WD? Forse no.
Il protagonista, cioè il primo personaggio che si incontra, è un poliziotto, Rick Grimes (Andrew Lincoln). Finito in coma, si sveglia in ospedale, scoprendo che mentre lui “era via”, il mondo è precipitato nel caos. Un evento inspiegabile, una specie di febbre malvagia, ha decimato la popolazione. I cadaveri si sono rianimati e vanno in giro in cerca di cibo. Il cibo è la carne viva. Rick cerca di ritrovare la moglie e il figlio, Lori e Carl (Sarah Wayne Callies e Chandler Riggs). E li ritrova aggregati a un gruppo di superstiti, appena fuori dalla città. Lo credevano ormai passato nel mondo dei più, Rick, così sua moglie si è messa con Shane Walsh (Jon Bernthal), un ex collega e amico di Rick, al quale Carl guarda come a un secondo padre. Peraltro si scoprirà che Lori è incinta.
L’utente Johnny commenta al giro di boa della terza puntata, la middle season della prima serie: «Beh, mi pare di aver capito che, in questa serie, gli zombi sono solo un pretesto per descrivere come le persone – in una società ormai priva di regole – diventino più bestie degli stessi non-morti. Abbiamo già visto una moglie disposta a cornificare il suo marito col suo migliore amico (probabilmente perché ritiene morto il marito… ma quanto tempo può essere passata dall’infezione?) e un migliore amico che non ha alcun problema a farlo. Abbiamo visto una serie di persone che non si fa problemi ad abbandonare un proprio simile sul tetto di un palazzo abbandonato». Il “proprio simile” era Merle Dixon (Michael Rooker), fratello del personaggio chiave Daryl Dixon (Norman Reedus), che Rick trova nel gruppo in cui ci sono sua moglie e suo figlio. Merle si è segato via una mano per liberarsi dalle manette in cui l’aveva costretto Rick e sottrarsi agli zombi. Tornerà, quanto incazzato è facile immaginarlo. Daryl è un maudit, il bel tenebroso del gruppo e maneggia una balestra. È uno dei cinque o sei caratteri che perdurano dalla prima serie a oggi, con Rick, con Carl, con Melissa (Carol Peletier) e con Glenn Rhee (Steven Yeun), un coreano che entra in scena nel secondo episodio macellando uno zombi e impiastricciandosi con le sue interiora per camuffarsi e ingannare gli altri zombi, ai quali in questa serie resta ancora il dono dell’olfatto per discriminare tra i propri simili e il cibo, cioè i vivi.
«L’ultimo episodio in onda negli Stati Uniti domenica 5 dicembre (ieri sera in Italia), è stato seguito da oltre 6 milioni di americani (8.1 milioni se calcoliamo anche il pubblico che ha visto le due repliche successive alle ore 23:00 e alle ore 01:00). Si tratta del risultato più alto registrato finora dalla serie, in ulteriore e netto incremento rispetto all’episodio della settimana prima. Ma ancora più straordinariamente, con una media di 4 milioni di spettatori nel target commerciale 18-49, The Walking Dead mette insieme il bacino d’utenza più alto mai conquistato da un drama nella storia della tv via cavo, mentre il 3.5 di rating sempre nel target commerciale è il più alto dal 1993», tirava le somme contabili karma negativo alla fine delle sei puntate.
Altro tipo di somma tirava invece l’utente overdoze: «La serie era partita in quarta, ma s’è sgonfiata tristemente dopo due puntate. Le prime in città mi avevano quasi galvanizzato, il pulotto a cavallo tipo far west con gli zombi di mezzo, fantastico, o l’andare a recuperare gente, fantastico. Fra la seconda e la terza puntata, poi, il nulla: pare una lezione di catechismo mixata con Beautiful, due coglioni mortali. Il protagonista inizia a essere di un buonismo raccapricciante, tutti gli altri sono da prendere a fucilate senza esitazione, a parte il buon Norman e il fratello che chiaramente (come il nero della prima puntata) non si sa che fine faccia. Il rapporto fra la moglie e l’amico è una cosa raccapricciante: una che s’era dimenticata completamente dello sceriffo, che si faceva sbattere nel boschetto facendo anche le mossette e le risatine, appena vede ricomparire il marito, invece di volerlo morto più di prima, lo abbraccia e lo ama come fosse la prima volta. Ahahahahahahaha! peccato, e anche la chiusa è da pedate nel culo, tutto spalancato, e se nessuno avesse voluto una seconda stagione rimaneva tutto monco, e la prossima stagione saranno 13 episodi di questa tiritera? spero che gli zombi vincano!».
Le sedici pagine di discussione sul nostro forum a proposito della seconda stagione di The Walking Dead si discostano poco dal tenore del post di overdoze, almeno fino alla middle season. In effetti, esordisce come una palla non da poco, con gli zombi che si fanno convitati di pietra e un incremento inversamente proporzionale dei pipponi melodrammatici. Talking Dead, si parla e basta. L’arrivo dei sopravvissuti a una fattoria dove entrano in gioco le nuove presenze fisse della serie, Hershel Greene e le figlie Maggie e Beth (Scott Wilson, Lauren Cohan e Emily Kinney), sembra far sedere il plot in una ruralità idilliaca. Non è la piccola casa nella prateria ma ci si avvicina. Le incursioni, di quando in quando, fuori da quell’habitat, sono oro: le si brama e le si divora, perché significa che si vedranno gli zombi. Darabont pare ne fosse responsabile fino, appunto, a metà stagione. Poi cambia lo showrunner e qualcosa di diverso arriva. Non subito, ma arriva. Aumenta la violenza, aumentano gli zombi e si entra nell’ottica di fare “pulizia etnica”. Il tredicesimo episodio è grandioso.
«Non ricordo una serie dove sia stata fatta una pulizia del cast così drammatica e puntuale […]. Il trucco però funziona, è una cosa che ho sempre pensato: se dai allo spettatore modo di dubitare che possano morire i personaggi più importanti e interessanti in ogni momento, allora la situazione di pericolo diventa una costante reale. Vedi Sophie (la figlia di Carol che era scomparsa e che tutti credevano di poter ritrovare viva. Invece la ritrovano zombificata, nascosta dentro il fienile, in una puntata chiave di questa seconda serie, ndr), vedi i più recenti… Il problema che voialtri giustamente fate notare è che non ci sono personaggi carismatici a cui affezionarsi. Rick è l’eroe riluttante ma con la lacrima troppo facile, la sua donna è schizofrenica, il figliolo è decisamente antipatico, il cinese non finisce mai le frasi, l’hillbilly (leggi: Norman Reedus) si è addolcito… niente da fare, tocca tifare per gli zombi» chiosava l’utente marcopac. E ha ragione anche su Rick, che fino a questo punto è un remulass anche lui. Poi però dalla stagione successiva cambia alla grande.
Resta da parlare della terza stagione e della quarta di The Walking Dead, che dai tredici episodi della seconda, salgono, come abbiamo già detto, ciascuna a sedici. La terza è la grande stagione del personaggio di Andrea (Laurie Holden), già pilastro della serie, della nuova arrivata Michonne (Danai Gurira), la spadaccina nera armata di katana che usava come some due zombi con le braccia mozzate e la mascella estripata, e del già citato Governatore (David Morrissey). Dall’ultimo in su: un cattivissimo, una buona e una metà e metà, perché Andrea diventa la donna del Governatore, il quale regge una comunità, Woodbury, contrapposta a quella di Rick, che si è acquartierato in una prigione, che è diventato padre di una bimba, che ha perso la moglie e che ha incominciato ad andare fuori di testa. Ce n’è di carne, più o meno marcia, al fuoco: figli che ammazzano le madri zombi, fratelli buoni che incontrano fratelli cattivi (Derryl e Merle), folli che tengono in un mega acquario teste di zombi ancora vive. Il sottoscritto commenta il primo episodio come “magnifico”. E del quarto scrive che “è già tra i classici”. Anche i più scettici del forum, come AnnaManni, devono ammettere: «Non speravo che potesse riuscire a recuperare così!».
Pete Bondurant diagnostica perché la terza serie spacca: «Il problema era che parlavano troppo prima, Darabont o meno. Adesso prima si uccide e poi si parla e in un mondo alla deriva è quello che bisogna fare». E raider raffina l’analisi: «La serie sta decollando non tanto per l’incremento di violenza e colpi di scena (che pure aiutano molto) ma perché finalmente i personaggi vengono presentati in condizioni emotivo-psicologiche molto provate e quindi più realistiche col contesto che vivono… francamente, il Rick della passata stagione, sempre controllatissimo e con la cosa giusta da dire, era fintissimo e aveva rotto un pò le palle, vederlo ora sullo sbroccato andante conferisce tutt’altro mordente e imprevedibilità”. La seconda metà della stagione è più deludente. Diverse puntate girano effettivamente a vuoto, ma diventa difficile sposare i gusti del forum su puntate come la 14, bellissima, tutta su Andrea che vaga sola nel mondo zeppo di morti, che invece a nessuno piace. La chiusura di stagione, scrivevo, «è una fine non fine. Hanno scelto di non scegliere un finale». Gli ascolti viaggiano sugli oltre dodici milioni.
La quarta stagione ha avuto anch’essa un andamento spaccato: metà stagione, la prima, che doveva risolvere i nodi sospesi della precedente e decidere che fare della figura del Governatore – ottima e inaspettata l’idea di farlo sembrare un redento, all’inizio – precipita il tutto verso l’olocausto dell’ambiente prigione; mentre la seconda parte sparpaglia l’intero cast in giro per il mondo dei morti, creando nuovi gruppi e nuove coppie e introducendo nuovi personaggi. Tutti però convergenti verso il punto focale di Terminus, una stazione/comunità in fondo ai binari ferroviari, dove dovrebbe esserci la pace. Dovrebbe.
Riflessione: da un punto di vista lirico – perché esiste una poesia legata alla rappresentazione del mondo post outbreak – questa seconda parte della quarta di The Walking Dead è insuperabile: ampi panorami agresti deserti e immobili, lunghe strade interamente coperte dalle foglie rosse d’autunno, ghost town silenziose e insidiose. Il gruppo, la comunità, frantumano la paura che viene però riconquistata come il bene più prezioso da offrire a chi guarda quando le storie tornano a essere storie di singoli o di sporadi a confronto con il feroce ignoto che sta là fuori. Hanno poi scelto di concentrare ogni puntata su qualcuno, abdicando alla coralità: Rick e il figlio, Daryl e Beth, Tyreese Carol e le due bambine – che animano la puntata forse migliore di tutti i tempi, la numero 14, terribile e struggente, “da mandare a memoria”, scrive karma negativo sul forum. «Questo perdersi e ritrovarsi continui potrebbero potenzialmente andare avanti per qualcosa come altre 10 stagioni…» è l’opinione di schramm, e ha ragione. Ormai le cose potrebbero continuare all’infinito raccontando queste cronache di dispersi nei regni desolati della morte. E saremmo sempre lì. Chiude a 15.70 milioni di ascolti.