Faster Pussycat! Kill! Kill! compie cinquant’anni
Il film probabilmente più compiuto di Russ Meyer raggiunge il mezzo secolo
Non c’è da discutere. Tutti i film di Russ Meyer sono contraddistinti da un preciso sistema stilistico del segno (voyeurismo burlesque mixato a iperrealismo visivo dell’abbondanza): negli anni Sessanta i critici dei Cahiers lo avrebbero sicuramente classificato tra gli auteurs. Ma solo uno dei suoi film trascende tale segno, solo uno resta impresso nella memoria anche di chi poco apprezza l’originalità del suo tratto. Faster, Pussycat! Kill! Kill! è quasi un miracolo. Scontata la vernice visionaria, edonistica e tettuta, nonché le soluzioni stilistiche di superficie (come l’intercut), la Weltanschauung meyeriana spinge verso una nastiness pessimista, cinica, a tratti quasi nichilista, in cui la sessualità è più una condanna che la celebrazione del desiderio o del piacere, con un’umanità determinata da appetiti e pulsioni incontrollabili (più di morte che di vita). Ma Meyer l’ha colta in una forma estremista, e quindi chiara, poche volte: la vediamo far capolino in qualche momento violento/grottesco di Mudhoney e Motorpsycho!, in qualche scena dell’hollywoodiano Beyond, nei primi venti minuti di Supervixens.
Invece, Faster, Pussycat! Kill! Kill! è una sinfonia in crescendo: da quell’incredibile scorrazzata iniziale nel deserto delle tre go-go dancers, con l’omicidio quasi casuale del povero Tommy e il sequestro di Linda; all’incontro con il vecchio paralitico e i suoi figli, con il gioco di seduzioni che ne consegue; allo scontro finale nel deserto, quando, come in certi western del decennio precedente, si finisce per tifare per il cattivo abnorme ma affascinante piuttosto che per il buono pallido e legalitario. John Waters ha definito Pussycat “il miglior film mai realizzato”. Meyer stesso, su suggerimento di Jim Morton, ha notato che «molta gente ha tratto dal film ogni sorta di conclusione … Götterdämmerung, Cavalcata delle valchirie». Di fatto, il film è una violenta e percettiva mitografia. Meyer ha messo in scena (in modo più istintivo che casuale) due o tre figure e modalità estreme dell’immaginario: la donna assertiva, l’iconografia butch/femme, la violenza nichilista. E se le è giocate in modo quasi geniale, calibrando il bianco/nero della quadrilogia su una brillantezza spettrale, manovrando le sue tre attrici sugli sfondi più tipici dell’americana (il deserto, la campagna, la fattoria) all’insegna della “macchina” (qui sotto forma di automobile e sue varianti), con un parossismo crescente che presta a Pussycat un’aura fantastica (un critico ha scritto che alla fine del film ci si aspetta che Varla riveli una qualche natura sovrannaturale o demoniaca). Riprese e montaggio sono particolarmente ispirate (anche se restano gli usuali dilettantismi, nella recitazione e nelle scene di violenza, non sempre riscattati dall’usuale isterismo di montaggio).
Ciò nonostante, il film non avrebbe mai raggiunto lo status mitologico che lo circonda senza la meravigliosa Varla di Tura Satana. A dirla tutta, è lei la stella. Se le attrici-archetipo dei film di Meyer (Erica Gavin, Shari Eubanks, Kitten Natividad) sono varianti su un unico modello di donna, Varla sta a sé: vestita di pelle nera, karate e stivali di cuoio, immagine da butch ma piena disponibilità sessuale, la sua ferocia raggiunge vette da fantasia nera. Crudele e dura, ma non priva di ironia, sembra una dea antica (o una supereroina contemporanea) fuori controllo. Anche l’esotica Haji fornisce qui una performance irreale (guarda, cura i denti, uccide ed è uccisa). In un certo senso, Faster, Pussycat! Kill! Kill! sembra essere il capolavoro involontario di Meyer: solo qui il grottesco un po’ adolescenziale che è la cifra del suo cinema («Non mi andava di sapere molto – sul lesbismo e sui giochi delle dykes, ha confessato a Waters – perché non era davvero roba da Boy Scout, da macho-maschio») sembra trascendere se stesso, dirigendosi verso una chiave stilistica, certo inaspettata per i più, che sembra recuperare toni e modalità di un exploitation da roughies virato verso il fantastico.