Lasciami entrare e Blood story
Giovani vampiri a confronto
Come spesso accade, alla sua uscita la critica italiana più corriva etichettò Blood story (2010), remake americano del celebre film svedese Lasciami entrare (2008) come l’ennesimo prodotto ben confezionato ma privo di anima, con cui l’industria hollywoodiana cercava di tirarsi fuori da un’endemica crisi di creatività. Nei suoi termini generali, quest’analisi ingenerosa coglie tutt’ora nel segno: a ben vedere, l’impasse del grande cinema americano riflette la crisi d’identità di una nazione frastornata dalla progressiva erosione della sua leadership mondiale. Allo stesso tempo, però, la tendenza ai remake degli ultimi anni rappresenta la cartina di tornasole della rinnovata attenzione con cui Hollywood guarda alle cinematografie straniere: una curiosità per l’”altro”, per il “diverso” che, a prescindere dagli obiettivi commerciali perseguiti dalle Major, ha avviato ad uno stimolante dialogo tra scuole cinematografiche differenti. Se si guardano le cose questo punto di vista, l’idea che Blood story sia un’inutile fotocopia dell’originale svedese si rivela troppo sbrigativa e figlia di una (sotto)cultura – quella della critica militante e festivaliera – abituata a relegare le nuove forme del cinema contemporaneo all’interno di schemi e categorie troppo abusati. Che le due pellicole siano molto simili è, ovviamente, fuori discussione. Come Alfredson prima di lui, anche Matt Reeves (già autore di Cloverfield) sceglie di raffreddare il materiale incandescente del romanzo di John A. Lindqvist (la giovane Eli per cui il protagonista, Oskar, nutre un sincero trasporto è in realtà un maschio – Elias – evirato in occasione della sua vampirizzazione; l’uomo che si prende cura di lei, procurandole il sangue, è in realtà un tormentato pedofilo destinato a trasformarsi in un sanguinario non-morto; Oskar è un ragazzino grasso, morbosamente attratto dalla violenza), per fermare l’attenzione sulle affinità elettive di due fanciulli condannati, per ragioni diverse, all’abisso della solitudine.
Reeves, peraltro, adotta un registro espressivo minimalista che, al di là di qualche opportuna iniezione horror, ricalca in larga parte quello del regista svedese. Anche il continuum narrativo, del resto, è più o meno lo stesso, se si eccettuano alcune efficaci interpolazioni temporali che, nella versione americana, contribuiscono a vivacizzare la storia. A guardare sotto la superficie si scopre, però, che la sostanza delle due pellicole non è affatto la stessa e che il film americano introduce (sia pure a livello subliminale) temi del tutto sconosciuti al film originale. A marcare la differenza è soprattutto la figura della fanciulla vampiro. Se nel primo film, Eli è una bambina che, per oscure ragioni, è costretta a cibarsi del sangue altrui, nel remake americano la figura di Abbey si carica di una sensualità strisciante insolita per una ragazzina di dodici anni (Lolita a parte), ma sicuramente appropriata alla natura perversa del vampiro. Quel che s’intende dire, insomma, è che Lasciami entrare racconta la storia d’amore tra il timido Oskar (Kare Hedebrant) e la sfortunata Eli (Lina Leandersonn), collocandola in un contesto piccolo-borghese (la grigia periferia dove i due vivono, popolata da adulti solitari sempre pronti ad alzare il gomito), che ne esalta il valore di disperata fuga romantica da un mondo sordido che sembra avere del tutto dimenticato la ragione e il sentimento dell’infanzia. Blood story, dal canto suo, mette in scena – al netto di un certo romanticismo di facciata – la strategia di seduzione con cui la piccola donna-vampiro (interpretata dalla magnifica Chloe Moretz di Kick-Ass) asservirà a sé il giovane Owen (il Kodi Smit-Mc Phee di The Road), facendone il suo nuovo procacciatore di sangue.
Attraverso questo sorprendente slittamento semantico le stesse scene che nel primo film raccontavano l’amicizia sentimentale tra i due ragazzini, nel remake finiscono per caricarsi di un significato affatto diverso. Non è un caso, allora, che la piccola Abbey (scalza per gran parte del film: particolare assente nell’originale) si sdrai nuda nel letto di Owen dopo avere ucciso l’uomo che, fino a quel momento, l’ha aiutata a mantenersi in vita. Questa lettura, portata a valorizzare la componente adulta e sessuale della pellicola, è del resto avvalorata dalla scena in cui Owen entra (o è ammesso) per la prima volta in casa di Abbey. Frugando tra le povere cianfrusaglie della ragazza, Owen troverà una vecchia fotografia che ritrae Abbey – dodicenne da tempo immemore – in compagnia di un ragazzino con gli occhiali, in cui è possibile riconoscere proprio l’uomo (Richard Jenkins) che, attraverso una serie di efferati omicidi, le ha procurato il sangue necessario alla sopravvivenza. Apparentemente secondaria, la sequenza rappresenta la chiave per penetrare il senso recondito di un film decisamente più disturbante di quanto possa apparire a prima vista, in cui il tragico destino del vecchio servitore della fanciulla (una specie di Renfield pedofilo) sembra preconizzare proprio la sorte del timido protagonista.
D’altra parte, la telefonata in cui Owen – figlio di genitori separati, cresciuto da una madre bigotta – interroga il padre sull’esistenza del Male, dimostra che il ragazzo è perfettamente consapevole della natura scellerata della sua nuova compagna di giochi. Ancor prima, però, le assillanti domande poste del ragazzo riguardano le oscure pulsioni che montano nel suo cuore: Owen, infatti, non ama la ragazza malgrado la sua natura mostruosa ma proprio a causa di essa. Da questo punto di vista, il finale sul treno in cui il ragazzo fa da chaperon alla piccola vampira, chiusa dentro un baule per sottrarsi all’effetto letale della luce del Sole, nella versione americana prelude alla futura trasformazione di Owen nell’assassino che, all’inizio del film, egli stesso ha sognato di essere, brandendo un coltello nel buio della sua stanza. Nonostante le similitudini con l’originale (e molti non hanno visto che quelle), l’insospettabile remake americano segna, dunque, uno scabroso scarto in avanti, mettendo in scena la seduzione di un bambino ad opera di un vampiro camuffato da fanciulla (possibile metafora di ogni rapporto uomo-donna) o, se si vuole, una sconvolgente, precoce scelta di campo in favore del Male. Restituendo al mito del vampiro, epitomizzato nella figura di un piccolo angelo caduto, tutta la sua luciferina carica perturbante.