Nove settimane e oltre
Dal film di Adrian Lyne degli anni Ottanta fino alla transustanziazione catodica
Il cliché di 9 settimane e 1/2 1986) come epitome della trasparenza cinematografica eighties (leggi: inutilità) non è riuscito a tutt’oggi a trovare definitiva sepoltura e necessario ripensamento. La colpa è di un’affrettata visione semplicistica e del suo autore, Adrian Lyne, da più parti considerato uno dei massimi rappresentanti di un decennio da dimenticare, e del film stesso, sull’onda poi di un successo scandalistico planetario indice per la critica di una popolarità da microonde con tutta evidenza in perfetta sintonia con la sua efficacia a scadenza breve, se non immediata.
Invece 9 settimane e 1/2 non soltanto ha bruciato con più ingegno di quanto si sia disposti ad ammettere segni e specificità sessuali all’epoca imperanti e osannati, ma ha utilizzato con intelligenza sopraffina desideri e aspirazioni del pubblico – anche in termini puramente di genere – per configurare un universo a cui quello stesso pubblico non aspirava di certo. Il film di Lyne (e non c’è alcun Flashdance che tenga) pare celebrare gli stereotipi femminili e maschili di quel tempo quando invece li massacra.
La donna bellissima, libera delle proprie scelte e acculturata, e l’uomo sicuro di sé, ricco, rude ma non troppo e tenebroso, finiscono entrambi nel tritacarne di un macchinario filmico che si serve del mélo erotico per strappargli letteralmente i vestiti, e insieme la sicurezza e l’identità. Il tonfo nell’abisso con cui si chiude 9 settimane e 1/2 è il doveroso epilogo di un racconto nero e pessimistico del quale non c’è da meravigliarsi se si ricordano soltanto le sequenze del frigorifero o dello spogliarello, o tutt’al più quelle della back-alley o delle diapositive: sono le escrescenze giustamente mnemoniche alle quali lo spettatore generalista dell’epoca poteva e doveva aggrapparsi, mentre il resto del film, sommessamente ma non leggermente, si occupava di sgretolare quei simboli fortissimamente voluti da un bisogno istituzionale assoluto.
Non soltanto, dunque, la coppia o l’amore, ma, più nel dettaglio, la femminilità, che si impantanava da sola nella sua ansia d’indipendenza, finendo con un pugno di mosche in mano, e il machismo, che flirtava con una virilità appariscente per mascherare la totale insicurezza dei sentimenti e del proprio fisico. Altro che immagini sessuali da sognare: l’Elizabeth di Kim Basinger e il John (nome “qualunque” non casuale) di Mickey Rourke erano i portavoce dello sgretolamento dei ruoli.
Ci sono cascate le femministe, insorte per l’apparente sottomissione della donna al maschio dominante (con la sequenza a carponi nell’ufficio come prova schiacciante), e ci sono cascati gli uomini in alto appetito erotico, identificandosi nell’uomo che non deve chiedere mai. E c’è cascato prevedibilmente il mercato cinematografico mondiale coevo e di poco successivo, che non ha capito niente, e si è lasciato irretire dai giochi morbosi di Elizabeth e John, dai controluce e dalle fragole, dal miele sulle gambe e dal cubetto di ghiaccio sui capezzoli. Ammesso ma non concesso che tali espedienti erotici siano delle perversioni, il cinema all’indomani di 9 settimane e 1/2 ha pensato bene di intraprendere un viaggio sudato nei meandri di corpi prestati alla ginnastica. L’amplesso diventa posa da cartolina, gli scenari si allargano sovente a panorami esotici, e l’ideologia non va più in là delle sofferenze d’amore in nome del richiamo impellente della carne. Del film di Adrian Lyne le cose importanti da mantenere sono la numerazione del titolo e la figura del maschio ombroso.
Eleven Days, Eleven Nights (1987) e Orchidea selvaggia (1990) sono tra i più noti epigoni che tradiscono l’originale: la perversione è più strutturale che altro, invito al tinello nel condominio delle sporcaccionate casalinghe e al turismo immaginifico al pari di un qualsiasi mondo movie. Quest’ultimo è il badile di Zalman King, ancor più colpevole, dato il suo coinvolgimento in sede di sceneggiatura (assieme a Patricia Knop e Sarah Kernochan) di 9 settimane e 1/2: scoperchiare il prurito di un pubblico elementare che pare non aver mai visto un porno. Prodotti come Orchidea selvaggia e il sequel spurio dell’anno dopo Orchidea selvaggia 2 – Blue Movie Blue (ben più di Congiunzione di due lune [1988], che ha aspirazioni più serie – fallite – nonostante la messinscena sia la medesima) servono a indicare la regressione di un popolo abituatosi a occhieggiare dal buco della serratura. Non è stato fatto nessun passo avanti: i nudi sono da Gin Fizz, il sesso e le donne da Playboy, gli uomini da cocktail in spiaggia, lampadati e scorbutici. La perversione poteva tutt’al più riguardare il sospetto del sesso non simulato dell’ultima scena tra Mickey Rourke e Carré Otis, coppia reale all’epoca del loro protagonismo in Orchidea selvaggia (dubbi poi messi a tacere dalla stessa Otis, che in un’intervista del 2004 smentisce tutto).
Ecco, il perverso, lontano dall’essere polimorfo, era già esclusivamente manicheo, da salotto televisivo, da indagine DOXA: serviva allora come può servire oggi alle hit parade delle donne più desiderate, degli uomini più desiderati, perché un Margarita in compagnia del bellone di 9 settimane e 1/2 (per la verità bolso e gonfio ai tempi del film di Zalman King) dev’esser parsa un’idea allettante ai più, e sufficiente a garantire un alone di mistero sessuale. Il Joe D’Amato di Eleven Days, Eleven Nights non è molto distante, anche se cambiano contesti e modalità: ma le prospettive sono identiche, e lo sfruttamento della fonte passa in secondo piano rispetto alla sensazione di trovarsi di fronte all’impossibilità suprema di scappare dalla propria casa. Nelle camere da letto di Eleven Days, Eleven Nights avviene solo una masturbazione fruitiva di spettatori il cui panorama erotico si limita alle scope di saggina e ai ripostigli.
Un po’ poco, nonostante i dettami quasi filosofici di Jessica Rizzo e Marco Toto. Il problema, ancora una volta, è che di 9 settimane e 1/2 s’è preso il superfluo, la superficie, il brutto (che nel film di Lyne non manca: si veda per esempio la scena con Slave to Love di Bryan Ferry). E non importa dove o come lo si sposta, se nella New Orleans di Zandalee (1991), a Parigi per Nove settimane e 1/2 – La conclusione (1997), o tra gli inghippi threesome di Lake Consequence – Un uomo e due donne (1992), prodotto dal sempiterno Zalman King per la televisione americana, ma da noi distribuito prontamente in sala nella speranza di soddisfare qualche languore tardivo. Suo malgrado, King aveva intuito il gradino da salire, una quindicina d’anni fa, quello del piccolo schermo, porto opportuno per una selezione erotica e perversa che al cinema non riusciva più a creare il benché minimo seguito.