Artisti si nasce, assassini si diventa
Le follie omicide compiute in nome dell’Arte sul grande schermo
Quanto e bella l’Arte! E quanto belli sono coloro che la praticano. Geni assoluti o semplicemente grandi uomini e grandi donne capaci di creare autentici capolavori col solo sudore della propria fronte e il duro lavoro delle proprie mani. Ma a volte capita che il genio, soprattutto quando è davvero tale, finisca per passare il limite per sfociare nella più assoluta follia, trasformando i nostri autori in veri e propri creatori di morte, disposti a tutto pur di veder celebrato il proprio sacro fuoco; insomma, artisti si nasce, assassini si diventa. Ecco dunque una piccola selezione di alcune fra le meno note follie omicide compiute in nome dell’Arte sul grande schermo, un compendio di sbarellamenti, mattanze e atrocità operate a suon di pennelli, strumenti musicali, scalpelli, scarpette da ballo e mille altri accessori solitamente utilizzati per dar vita a immortali opere ma che, spesse volte, possono anche trasformarsi in terribili strumenti capaci di portare la morte direttamente fuori dai confini di una tela, di un foglio di carta o di un palcoscenico.
Maniac (Dwain Esper, 1934)
In momenti di crisi bisogna sapersi riciclare, pena il rischio di toccare irrimediabilmente il fondo del barile. Questo purtroppo è il terribile destino che ha inesorabilmente colpito il povero Don Maxwell (William Woods), ex celebre artista di vaudeville, gran maestro delle imitazioni e del travestimento che, abbandonato il palcoscenico a causa della crisi dilagante, si è dovuto adattare a divenire il mesto assistente di un pazzo scienziato impelagato fino al midollo in oscuri esperimenti di resurrezione di cadaveri. Ma dopo aver dato il ben servito al tirannico datore di lavoro, il nostro caro artista caduto in disgrazia non riesce più a reprimere l’incontrastabile richiamo del proprio talento, scegliendo di rubare l’identità del mad doctor fresco di decesso e proseguire i suoi atroci e luridi affari. Una macabra recita dagli esiti alquanto spiacevoli, attraverso la quale il folle Don potrà finalmente vedere appagata la propria aspirazione di camaleontico mutaforma, in un modo che nemmeno il proverbiale talento del Mr. Ripley di Patricia Highsmith avrebbe mai potuto eguagliare.
La follia di Barbablù (Edgar G. Ulmer, 1944)
Essere giovani, carine e senza un soldo è davvero una gran brutta cosa. Ma se si bazzica per le strade di Parigi si può vere la fortuna di capitare tra la tavolozza e il pennello di qualche artista in erba, disposto a sborsare qualche bel soldone pur di avere tra le mani un’attraente modella da usare per il proprio lavoro. La fortuna però si tramuta istantaneamente in sfortuna se l’artista in questione, ex maestro del pennello ora riciclatosi burattinaio, sotto sotto è un pazzoide scriteriato che, dopo aver concluso le proprie opere, viene colto da un certo prurito che lo spinge ad accoppare senza troppi complimenti le proprie muse, forte del celebre detto secondo cui “morto un Papa se ne fa subito un altro”. Magistralmente confezionato in appena una settimana da quel mostro di bravura che fu Edgar G. Ulmer con a disposizione un budget a dir poco ridicolo, questo cupissimo noir in costume dalle forti tinte espressioniste condensa in poco più di settanta minuti tutto ciò che di malvagio e di pericoloso da sempre si può celare dietro la tavolozza e il pennello, ricordandoci ancora una volta come tra genio e follia il passo è, a volte, decisamente troppo breve.
Un secchio di sangue (Roger Corman, 1959)
C’è chi per l’arte è disposto a tutto. Letteralmente a tutto. Anche a prendere un bel gatto morto, ricoprirlo di argilla e spacciarlo come la scultura più sensazionale di tutti i tempi. Esattamente ciò che il timido e introverso Walter (Dick Miller) decide di fare in nome del sacro fuoco dell’Arte, mettendo da parte la propria monotona carriera di inserviente in una squallida bettola di bohémien e dandoci sotto con creta, sudore e tanta tanta dedizione. anche quando la fama inizia a cresce al punto da esigere un salto di qualità. Ed è allora che il nostro, in nome della tanto declamata teoria dell’evoluzione, decide di passare dai quadrupedi ai bipedi, accoppando a destra e manca chiunque gli capiti a tiro e trasformandone i cadaveri in statue coi controfiocchi. Ovviamente non prima di averne opportunamente drenato l’emoglobina in eccesso attraverso il provvidenziale secchio che da il titolo a questa folle rivisitazione targata Corman della celeberrima Maschera di cera.
Le mani dell’assassino (Newt Arnold, 1962)
Quando si è piccoli viene detto che si ha tutta una vita davanti a sé. Ma basta un attimo e, zac, ecco che tutte le belle promesse si trasformano in un incubo, specie se si è un pianista di gran talento a cui un terribile incidente ha impietosamente tolto gli strumenti del proprio genio. Senza mani, infatti, si ha ben poco di cui campare, a meno che non venga in soccorso un provvidenziale trapianto che potrebbe rimettere le cose a posto. Ma che succede se i tanto agognati arti di ricambio provengono nientemeno che da un bieco criminale e assassino? In teoria nulla. Peccato che questo ennesimo adattamento del celebre romanzo Le mani di Orlac di Maurice Renard non metta mai bene in chiaro le cose, specie riguardo l’origine dei misteriosi omicidi che iniziano a verificarsi attorno al nostro bel musicista, forse retaggio di un male ancora vivo e “tramandato” durante l’operazione di taglio e cucito oppure, letteralmente, per mano dello stesso artista, reso folle dall’ossessione per le sacre note e le cui nuove dita, tra una pestata ai tasti bianchi e neri del pianoforte, sembrano avere parecchia nostalgia delle gole stritolate non molto tempo addietro.
The Headless Eyes (Kent Bateman,1971)
La crisi creativa è una gran brutta bestia. Che sia una tela, uno spartito o un figlio, sta di fatto che, quando a predominare è la vastità del bianco, significa che qualcosa decisamente non va. Se poi si è anche costretti, come ogni comune mortale di questa terra, a dover pagare le bollette, allora occorre mettere da parte il proverbiale take inspiration e darsi da fare. Magari, come lo squinternato artistucolo Arthur Malcom (Bo Brundin), provando a intrufolarsi nell’appartamento di un’attempata signora per sgraffignarle qualche soldino, rischiando però di vedersi cavato fuori di netto il bulbo oculare dal cucchiaino da the della vecchia babbiona, convinta di essere caduta vittima di uno stupratore. Ed è qui che, nella seppur tragicomica situazione, tutto cambia. Si perché la terribile menomazione diventa anche il motore che riaccende la creatività sopita, trasformando il nostro disadattato creativo in un pazzo omicida alla ricerca di freschi e fragranti occhietti umani da poter usare per abbellire proprie opere, le quali molto probabilmente non troveranno facile esposizione in una comune sala da museo. Almeno non prima del battesimo della sedia elettrica del nostro novello Francis Bacon.
Motel Hell (Kevin Connor, 1980)
C’è chi l’arte la fa con un pennello, chi con un violino, chi ancora con una macchina fotografica o una cinepresa. Ma non vi è alcun dubbio che l’attempato Vincent (Roy Calhoun) e la di lui corpulenta sorellina Ida (Nancy Parsons) diano il meglio di sé con la forchetta. E anche ovviamente con qualche coltello ben affilato. Proprietari dello scalcinato motel HELLO (che le bizze della luce al neon trasformano spesso nel ben più evocativo HELL), i due fratellini sono in realtà rinomati in gran parte del Sud degli States per la loro saporita e nutriente carne affumicata, sulla cui provenienza non serve ovviamente fantasticare troppo. Basti solo dire che la materia prima in questione, dopo essere stata reperita con la forza a suon di ben architettati incidenti stradali, viene privata delle corde vocali, interrata nel cortiletto dietro casa e lasciata bene bene a macerare fino al tempo del raccolto, prima di essere macellata a dovere e sdoganata in ogni dove, dando origine a un piatto di tale qualità che nemmeno le severissime papille di Carlo Cracco potrebbero mal giudicare. L’occhio vuole la sua parte, è vero. Ma solleticare il palato è cosa che solo i veri artisti del gusto sanno fare, senza scendere al ben che minimo compromesso.
Dance Macabre (Greydon Clark, 1992)
Se sei un appassionato di danza e vuoi realmente dare un senso alla tua sublime arte, allora è in Russia che devi andare. La patria del caviale e della Rivoluzione Rossa è infatti il campo di battaglia in cui, da sempre, tutù e calzemaglia ricevono l’arduo e necessario addestramento per poter poi piroettare alla grande sui palcoscenici di mezzo mondo. Ed è per questo motivo che il severo Maestro Wager (Robert Englund), trapiantato all’ombra del Cremlino direttamente dagli States, decide di accogliere fra le proprie braccia, assieme alla zoppa collega Madame Gordenko, una danzereccia scolaresca di connazionali, in modo tale che possano affilarsi opportunamente le punte prima del grande debutto. Peccato che il nostro istruttore, ossessionato fino all’estremo dalle note di Čajkovskij, nasconda sotto la tuta da ginnastica una seconda schizzata personalità da serial killer che lo porta a fare incetta di tutto ciò che respiri e indossi bianche scarpette da ballo. Un B-movie di quelli grossolani ma decisamente divertenti, in cui, per chi ha ancora ben fresco in mente il Vestito per uccidere di depalmiana memoria, il colpo di scena potrà squillare al telefono ben prima del tanto atteso finale.
Behind the Mask: The Rise of Leslie Vernon (Scott Glosserman, 2006)
Può l’omicidio essere considerato una forma d’arte? Bella domanda. Si perché, se è vero che la pittura ha avuto i suoi Picasso, la scrittura i suoi Tolstoj, la danza i suoi Nureyev e la musica i suoi Beethoven, è anche vero che nel regno della morte e del terrore gentaglia come Freddie Krueger, Jason Voorhees e Michael Mayers hanno ampiamente meritato di essere ricordati. Ma Leslie Vernon vuole di più. Lui si che vuole essere conosciuto come l’artista indiscusso del terrore, il Principe incontrastato dei serial killer, tanto da permettere a una troupe di universitari di confezionare un documentario a lui dedicato, in cui sviscerare, un po’ come il collega de Il cameraman e l’assassino, tutti i più sordidi e occulti segreti del mestiere: da come far sbattere una porta senza essere scoperti a come reperire il numero di telefono delle proprie vittime, fino alla proverbiale entrata ad effetto. Un mockumentary davvero caruccio quello imbastito da Glosserman, una sorta di making of di quella che, assieme alla prostituzione, è sicuramente la professione (e l’arte) più vecchia del mondo.
Anarchy Parlor (Devon Downs, Kenny Gage, 2014)
Se si è veri artisti non è importante il supporto su cui si sceglie di riversare il proprio genio. Sia esso una tela, una tavola di legno, un foglio di carta o, perché no, anche della fresca e morbida pelle umana. E se poi questa dovesse porre una qualche resistenza, beh, sarà necessario eliminare alla radice il problema, estirpando l’epidermide dal suo donatore per poterla conservare come una sacra reliquia. Così come il sociopatico Mr. Sophistication de La casa di Jack elevava senza il ben che minimo scrupolo il proprio genio architettonico al di sopra della vita stessa, così il perfido Artista (Robert LaSardo) vive a tal punto intensamente la propria natura di tatuatore da essere disposto a tutto pur di vedere realizzata la propria sacra opera. Anche a discapito dell’insignificante destino di un incauto gruppetto di foruncolosi turisti americani in vacanza in quel dell’oscura Lituania, ai quali un’occhiatina in più ad Hostel non stonerebbe affatto. Specie poi se si ha la sfortuna di capitare tra le grinfie di un pazzoide armato di ago e inchiostro convinto di essere il nuovo Van Gogh, con il concreto rischio di vedere la propria pellaccia incorniciata e appesa sulla parete di qualche oscuro museo dal nome impronunciabile.