Bloody snow: 10 horror natalizi
Quando la neve si tinge di rosso
Ah la neve! Fresco, bianco e soffice trastullo invernale capace di rallegrare i cuori di grandi e piccini con il solo potere delle fisica e di qualche previsione metereologica azzeccata. Straordinario infatti cosa sia in grado di fare un po’ di vapore acqueo congelato vomitato dalle nuvolette, pronto ad essere trasformato all’occorrenza in allegri pupazzotti, micidiali bolidi e persino piste su cui scivolare in lungo in largo con il rischio concreto di rompersi l’osso del collo se non peggio. Ma attenzione amici cari, perché, nonostante tutti i balocchi e l’allegria, quando la bianca coltre inizia a tingersi di rosso, ecco che laddove regnavano la gioia e la serenità iniziano a farsi strada alcuni dei peggiori incubi mai ospitati su grande e piccolo schermo, capaci di trasformare in un lampo la festa più attesa dell’anno in un vero e autentico massacro. Ecco qui dunque, freschi freschi solo per voi 10 horror natalizi per raggelare le vostre quiete seratine all’ombra dell’addobbato abete con storielline ad alto tasso di pelle d’oca nelle quali è la neve a farla da padrona, sfondo naturale delle peggio brutalità che mente umana è stata in grado di concepire giusto in tempo per il taglio del Panettone.
Man Beast (Jerry Warren, 1956)
Nomen homen. Anzi, nomen monstrum per essere esatti. Ecco qui una delle primissime apparizioni cinematografiche del terrificante mostracchione dei ghiacci realizzata con quattro spicci e un pezzo di corda dall’allora esordiente Jerry Warren che qui imbastisce con passione e più che sufficiente talento la gustosa storia della bella Connie Hayward (Virginia Maynor) intenta a cercare le tracce del fratello misteriosamente scomparso frale le gelide nevi dell’Himalaya grazie all’aiuto di una nutrita spedizione di baldanzosi ometti capitanata dal dottor Erickson (George Welles Lewis), quest’ultimo in verità interessato a scovare nientemeno che l’abominevole omone delle nevi. L’apparizione di una misteriosa guida di nome Varga (George Skaff) aggiungerà un po’ di pepe alla situazione, la quale si scalderà – anzi, raffredderà – per benino quando il ringhiante padrone di casa farà finalmente la sua scomparsa per dar pan per focaccia agli incauti disturbatori, trasformando un’allegra cordata in compagnia in un autentico inferno a meno trenta gradi sotto zero. Il tutto con tanto di colpo di scena finale e love story all’ombra dei ghiacci che male di certo non può fare. Almeno non quanto un’artigliata di mezzo metro dritta dritta sulla carotide ovviamente.
Il mostruoso uomo delle nevi (Val Guest, 1957)
Seconda grande incursione cinematografica nell’innevata casetta del pelosone delle nevi, stavolta targata Hammer e firmata da un pezzo da novanta come il mitico Val Guest, qui impegnato a dirigere un giovane Peter Cushing ancora in epoca pre Van Helsing e pre Barone Frankenstein nelle vesti di un rampante botanico che, dopo essersi trasferito assieme alla belle mogliettina Helen (Maureen Connell) in quel del freddo Himalaya per compiere i suoi studi tra una bevuta e qualche disquisizione filosofica con Dalai Lama in persona, decide di aggregarsi all’avventurosa spedizione capitanata dal collega Tom Friend (Forrest Tucker) il cui obiettivo è quello di stanare il leggendario Yeti. Inutile dire che i nostri centreranno appieno il loro proposito, senza tuttavia rendersi conto di come andare a menarla a una leggenda armata di unghioni e dentazzi non può che portare con sé una mazzolata di altrettante leggendarie morti. Fama meritatissima per un autentico capolavoro che aprirà la strada agi innumerevoli feroci pelosoni delle innevate montagne, quasi mai presi in seria considerazione dal grande e piccolo schermo e che qui, grazie al potere evocativo del vedo-non vedo, riescono a intrattenerci per una buona oretta e mezza senza che una goccia di sangue venga mai realmente versata.
You’ll like My Mother (Lamont Johnson, 1972)
Se tra moglie e marito è sempre meglio di non mettere mai il dito, tra suocera e nuora è proprio il caso di non ficcarci neanche una ciglia nemmeno per sbaglio. A maggior ragione se, come la povera Francesca (Patty Duke), sei una giovane vedova disposta a lasciare il caldo sole della California per inoltrarti nelle fredde lande del Minnesota con l’unica volontà di incontrare la madre del tuo amato marito defunto. Si proprio lei, la stessa Mrs. Kinsolving (Rosemary Murphy) che a suo tempo non ti degnò nemmeno di un saluto quando venne a sapere che avresti sposato il suo amato figlioletto e che ora, rintanata nella sua grande e cadente magione in compagnia di un’altra figlioletta mentalmente disadattata, ti accoglie con una freddezza se possibile ancor più glaciale della neve che turbina e imperversa fuori dalla finestra. Ed è proprio un’improvvisa tempesta di neve a costringere le due donne a sperimentare loro malgrado una breve convivenza domestica forzata, durante la quale tuttavia l’ignara puerpera inizierà ad accorgersi che qualcosa proprio non va, a cominciare dalla scontrosa padrona di casa che forse non è chi dice di essere e, ultima ma non meno importante, l’ombra oscura di un fantomatico cugino stupratore che potrebbe essere ben più vicino di quanto non sembri.
Devil Times Five (Sean MacGregor, David Sheldon, 1974)
Ai bambini si dice sempre di non accettare mai, per nessun motivo, caramelle dagli sconosciuti. Peccato che sarebbe forse meglio mettere in guardia anche gli adulti nel non dare facile ospitalità alla prima masnada di marmocchi che ci si ritrova acquattati nella cantina del proprio chalet di montagna, soprattutto se i pupattoli in questione, ciascuno con le proprie tare assassine, provengono da un non ben identificato istituto psichiatrico. Sono infatti quattro – pardon, cinque, se si conta la misteriosa suora che li accompagna e che forse tale non è – i fortunati sopravvissuti al potenzialmente mortale cappottamento del pulmino che dal loro manicomio avrebbe dovuto condurli in gita, costretti a vagare in mezzo alla bianca neve prima di trovare rifugio in una grande casa nella quale diverse coppie intendono trascorrere le loro vacanze invernali, fra tradimenti, copulazioni e tanto tanto fancazzismo. Ma tranquilli perché ci penseranno i nostri discoli trovatelli dalla lama facile a movimentare un poco la situazione, dimostrando fra le altre cose quante soddisfazioni possa dare una bella bionda ignuda immersa in una vasca da bagno piena zeppa di scodinzolanti piranha.
Ghostkeeper (Jim Makichuk, 1980)
Chi lascia la strada vecchia per quella nuova, sa quel che lascia ma non sa quel che trova. Soprattutto se al posto di passare la vigilia di Capodanno al calduccio della tua sala da pranzo ingozzandoti di zampone e lenticchie scegli di punto in bianco di darti all’avventura con la tua dolce metà e la di lei migliore amica a bordo di una motoslitta lanciata a tutta birra fra le nevi delle Montagne Rocciose. Questa la disgraziata pensata di Jenny (Riva Spier), Marty (Murray Ord) e Chrissy (Shen McFadden) il cui esito non potrà che essere dei più disastrosi, soprattutto quando la sfiga, così come il benemerito postino, suona alla porta dei nostri desperados per ben due volte sotto forma di una devastante tempesta di ghiaccio condita con un bell’infortuno alla caviglia. E così i nostri montanari della domenica, che per questioni puramente temporali non avranno modo di far tesoro della terribile sorte dei loro colleghi di Cold Prey per almeno atri due decenni, decidono di cercar rifugio in un grande hotel abbandonato in mezzo ai ghiacci, il quale si rivelerà abitato da una strana signora (Georgie Collins) che prima afferma di esser sola e subito dopo si contraddice adducendo la presenza di due non ben identificati figlioli. E ovviamente le sorprese non son mica finite qui, perché il nostro bell’alberghetto del terrore, giusto per ingaggiare una sana concorrenza con il kinghiano Overloock Hotel, nasconde una succulenta collezione di scheletri ben celati negli armadi, negli sgabuzzini e soprattutto nella misteriosa cella frigorifera che cova nel seminterrato.
Iced (Jeff Kwithy, 1988)
Di killer mascherati ne abbiamo visti a bizzeffe su grande e piccolo schermo, ma sinceramente uno sciatore assassino mancava proprio all’appello. È lui infatti il misterioso figuro in tuta termica e opportunamente occultato da un paio di occhiali dal vetro crepato che faranno la gioia dei feticisti della soggettiva il responsabile dei terribili delitti che si stanno consumando fra un gruppetto di amici d’infanzia riunitisi in una baita in mezzo alle montagne per celebrare l’inaugurazione di un nuovo impianto sciistico. Pare proprio infatti che il nostro ski killer abbia un qualche conto in sospeso con uno o più di questi goliardici ragazzuoli, forse a causa di un qualche sgarro o evento traumatico avvenuto nel recente passato che, in un modo o nell’altro, li ha coinvolti un po’ tutti quanti e che si dimostra ben lontano dall’essere morto e sepolto. Anche perché qui di morti e sepolture se ne preparano a bizzeffe, tra stalattiti piantate allegramente nella gola, racchette da neve utilizzate come pugnali improvvisati e congelamenti capaci di trasformare un corpo umano in un ghiacciolo di emoglobina. E poi diciamoci la verità: quando mai capiterà nuovamente di vedere un tizio sugli sci che per ottanta minuti dispensa morte e distruzione come Babbo Natale coi doni la notte della Vigilia?
Stazione Erebus (Daniel Zelik Berk, 1998)
Prendente la Cosa di carpenteriana memoria, impastatela con una generosa dose de La notte dei morti viventi e innaffiate il tutto con un pizzico di La nona porta. Otterrete così una delle più gustose storie partorite dall’orrorifica fantasia del maestro King dal succulento titolo di Sometimes They Come Back… for More, trasportata sul piccolo schermo televisivo nella forma di un insolito horror soprannaturale nel quale una coppia di soldati governativi (Chase Masterson e Clayton Rohner) vengono mandati diritti dritti a congelarsi le chiappe in quel della desolata Antartide in seguito a un misterioso segnale di soccorso inviato dalla stazione Erebus, ufficialmente un centro di ricerca scientifica internazionale ma ufficiosamente sordida copertura per l’estrazione di giacimenti petroliferi sponsorizzato dallo zio Sam. Giunti in loco i nostri due coriacei soldati si troveranno dinnanzi a una situazioni al limite dell’assurdo, con oltre metà del team di ricerca inspiegabilmente svanito nel nulla e i pochi superstiti intenti a blaterale di cadaveri che tornano in vita e di un imprecisato capo missione forse responsabile dell’intera faccenda. Ma è solo questione di tempo prima che il tutto prenda una piega se possibile ancor più bizzarra, con corpi morti che se la squagliano peggio di uno show di David Copperfield e altri che tornano all’ovile dritti dritti dall’Oltretomba pronti a far baldoria, il tutto mentre qualcosa di decisamente poco naturale e dichiaratamente satanico sembra covare sotto il fresco nevischio che avvolge tutto e tutti.
Shredder (Greg Huson, 2003)
I pazzoidi, si sa, vanno sempre in giro in coppia. E così, dopo lo sciroccato e scimunito – nel senso di munito di sci – protagonista dell’Iced di qui sopra, eccoci nuovamente al cospetto di un serial killer di nero imbacuccato intento a seminare paura sulle bianche piste di un complesso sciistico abbandonato sul quale una giovane morì qualche anno addietro, pronto a impartire qualche sanguinolenta lezioncina a un gruppetto di infoiati ragazzotti in cerca di sesso e snowboarding. Sarà infatti una vacanza tutt’altro che tranquilla per i nostri poveri tapini, costretti a vedersela con un autentico babau in giaccone e passamontagna dallo spirito decisamente vendicativo le cui modalità di accoppamento a suon di ghiaccioli contundenti, accettate in piena faccia e allegre scorrazzate a bordo di letali rompighiaccio non possono che strizzare ben più di un sol occhio al misconosciuto slasher on the snow confezionato da Kwithy quasi tre decenni addietro. D’altronde si sa: i serial killer, così come il vino, migliorano col tempo. Meglio ancora se conservati al fresco pronti per essere scongelati alla bisogna.
Frostbite (Anders Banke, 2006)
Altro che Pfizer e AstraZeneca. Vampirismo in pillole! È questa la nuova frontiera della scienza generosamente offertaci dritta dritta dalla Lapponia con furore dal dottor Gerhard Beckert (Carl-Åke Eriksson), genetista di fama mondiale custode di un oscuro segreto che ha la forma di una misteriosa e famelica bambina succhiasangue ritrovata in una diroccata capanna nel mezzo della fredda Ucraina durante l’implacabile inverno del 1944. Ed è appunto da questa mostruosa paziente che il nostro mad doctor estrae i preziosi globuli rossi dell’eterna giovinezza da racchiudere poi in compresse per mantenersi giovane e prestante. Il tutto finché l’incauto assistente Sebastian (Jonas Karlström) non pensa bene di fregare le preziose suppostine e di farle circolare tra i suoi amici fattoni come fossero caramelle, trasformando un tranquillo rave party i in una mattanza di emoglobina e terrore a suon di canini appuntiti. Si perché, mentre la gelida e oscura notte polare si prepara a inghiottire la piccola cittadella per un intero mese, la maggior parte dei suoi allegri abitanti inizia a sperimentare una terrificante metamorfosi che non ha nulla di che invidiare a quella dei compagni di sciate di 28 giorni di buio, costringendo la giovane Saga (Grete Havnesköld) e la di lei madre Annika (Petra Nielsen) a imbracciare croci e paletti per poter sperare di arrivare sane e salve al nuovo sorgere del sole.
Blood Glacer (Marvin Kren, 2013)
Com’è che diceva la nonna? Se vedi del sangue inizia a preoccuparti, giusto? Esatto, soprattutto se a grondare emoglobina non è qualche vescica o orifizio del tuo corpicino bensì un intero mastodontico ghiacciaio tirolese rimasto a dormire per ere geologiche assieme ai propri mostruosi e microscopici abitanti. Ed è proprio a causa dello stramaledetto riscaldamento globale se il nostro bel cubettone di ghiaccio, iniziando a sciogliersi a gran velocità, finisce per riportare alla luce una misteriosa colonia di organismi primordiali capaci di fagocitare e mescolare il DNA di qualunque entità vivente gli capiti a tiro, scecherando ben bene il tutto e servendo a un gruppetto di immondi abomini genetici degni della più delirante fantasia di un Lovecraft sotto anfetamine. A doversela dunque vedere con un manipolo di famelici aquile-caproni, cani-alce e zanzare-orso saranno i poveri ricercatori di una stazione di ricerca climatica già più che indaffarati ad accogliere in visita nientemeno che il Ministro dell’Ambiente in persona, dando vita a un’autentica carneficina nella quale ogni più elementare teoria dell’evoluzione darwiniana viene mandata bellamente a farsi benedire. Allo spettatore non resta dunque che girare la manopola e attendere trepidante che la folle slot machine genetica ideata da dal buon Kren sforni una nuova aberrante creaturina pronta a far mambassa di carne umana come durante il tanto atteso cenone natalizio.