Diva Futura: un film sul porno senza porno
Non c'è niente della complessità di quel mondo: una fiaba superficiale per chi non conosce l'hard

Un film sul porno senza porno è un ossimoro. Del resto, almeno in Italia, quasi nessuno c’è riuscito: a partire dall’espiatorio catto-comunista Guardami (1999) di Davide Ferrario; alla mini-serie Sky Moana (2009) di Alfredo Peyretti, sbadiglifera rappresentazione televisiva di una sorta di limbo dantesco laddove la pornostar genovese, come gli infanti morti senza battesimo, attende una propria collocazione; fino all’edulcorato Supersex (2024), biopic di Rocco Siffredi (Netflix), diretto da Matteo Rovere (produttore, per Groenlandia, anche di Diva Futura, ora in sala, dopo i fasti, si fa per dire, di Venezia81).
A meno di non essere dei geni come il Paul Thomas Anderson di Boogie Nights, 1997, sulle vicissitudini di John Holmes (ma qui siamo su un altro pianeta), le nostre fiction sul mondo dell’hard sono figurine illustrate e ripulite di un porno malamente sdoganato in base a stilemi sociali e televisivi in chiave mid-cult che lo rendono una copia edulcorata spesso più volgare dell’originale. I personaggi rappresentati finiscono così nel cadere nel ridicolo oppure essere oggetto di un moralismo infido e sottile, anche se mai dichiarato apertamente (come avveniva fino agli anni 60), espresso magari attraverso i tormenti esistenziali dei protagonisti e le loro ridicole espiazioni (vedi il personaggio di Eva Henger in Diva Futura). Un’eccezione, per certi versi, è Pleasure (2021) della svedese Ninja Thyberg, forse perché al film partecipa un buon numero di veri attori hard statunitensi (da Evelyn Claire a Kendra Spade) che forniscono realismo alle scene, offrendo un linguaggio corporale che, se non è totalmente hard, gli si avvicina parecchio. Diva Futura racconta le vicende dell’agenzia creata da Riccardo Schicchi (lo spiega bene Elisabetta Rossi, nella sua recensione, qui su Nocturno). «Nell’hard non ci sono attori, ci sono cazzi», mi diceva Riccardo Schicchi nell’estate del 1995. Ed è molto difficile, se non impossibile, raccontare storie credibili di cazzi (e fiche) senza senza cazzi (e fiche) in azione.
Diva Futura è diretto dalla quarantatreenne Giulia Louise Steigerwalt che ha iniziato come attrice di Gabriele Muccino e ha diretto Settembre (2022), una vicenda di complessi rapporti interpersonali. La Steigerwalt è la moglie di Matteo Rovere, produttore dei suoi due unici film come regista. In realtà il fil rouge di Diva Futura è il racconto di Debora (Debora Attanasio, interpretata dalla brava Barbara Ronchi). Debora fu realmente, per una decina d’anni, la segretaria di Schicchi, con il quale si davano del lei, che ha scritto, su quella esperienza, Non dite alla mamma che faccio la segretaria, testo a cui il film si è liberamente, troppo liberamente, ispirato. È lei che racconta, spesso fuori campo, come Schicchi la assunse e, via via, come le si aprì un mondo sconosciuto: arriva prima Ilona Staller, poi Moana Pozzi, infine Eva Henger, tutte reclutate nell’ufficio romano di Diva Futura dove Schicchi ospitava anche una sorta di zoo con i pitoni di Cicciolina, 23 gatti e via via anche un cerbiatto e vari conigli. Della Henger il film fornisce una visione quasi patetica (prima fa i porno, poi se ne pente… piange…) e che oggi, ripulita dalla ‘vergogna’ del porno si accinge persino – rivela a Candida Morvillo sul Corsera – a dirigere (dirigere?) un film con Kevin Spacey e spara, guarda un po’, che Moana è morta nel ’95 e non nel ’94. Nel film, della Staller e della Pozzi, attraverso le attrici che le interpretano (rispettivamente Lidija Kordic e Denise Capezzi) viene offerta una sfocata immagine, preferendo affidarsi a filmati di repertorio con interviste di Baudo, Costanzo, De Agostino, Marzullo, persino Biagi.

Eva, Riccardo e Moana come parziale risarcimento
Un discorso a parte va fatto per Pietro Castellitto, buon interprete di Schicchi, che, nonostante un sorrisino ebete a tratti un po’ troppo macchiettistico o un eccesso di romanticismo da fotoromanzo nei confronti della moglie Eva Henger (che lo lasciò per il produttore Massimiliano Caroletti, sposato nel 2013) rispecchia piuttosto bene, almeno fisicamente, il vero Riccardo, quello che ho conosciuto io. Il film tocca il fondo nelle scene che precedono la morte di Schicchi, a 59 anni (lo vidi a un MiSex già quasi completamente cieco per il diabete e sotto braccio a un accompagnatore), laddove – tutte le morti sono tragiche – nel film la dipartita è infarcita da un inutile patetismo telenovelistico allontanando le menti dal personaggio alternativo, dal geniaccio palermitano emigrato a Roma, ottimo fotografo, che riuscì a cambiare la testa degli italiani in materia di sesso e che riuscì a far eleggere una pornostar al Parlamento (The Asahi Shimbun, quotidiano giapponese che allora vendeva più di 10 milioni di copie, sparò la notizia in prima pagina…). Nel film viene tratteggiata anche la sua infanzia a base di pippe e giornalini porno, la stessa infanzia di tanti fra noi.
Un film, in definitiva, che, al di là dei racconti della testimone oculare Debora Attanasio, potrebbe anche piacere a chi il porno non lo ha studiato e non l’ha coltivato se non saltuariamente. E magari non ha mai visto un hard con Moana che, l’8 agosto del 1987, in un’intervista per il Corriere Mercantile di Genova dove allora lavoravo, mi disse: «Il porno per me non è una sofferenza. Tanto se uno non mi piace non ci lavoro». Il regista Mario Bianchi (figlio del più noto Bianchi Montero) mi raccontò un retroscena: la Pozzi, mentre girava e si faceva penetrare da un partner cavalcandolo da sopra, chiese all’operatore di inquadrarla dall’ombelico in giù per farsi passare una telefonata al cellulare mentre continuava la sua performance sessuale. Routine, mi pare, non piacere.
Di contro, al Blue Moon, il locale romano di Schicchi, dove si esibivano le sue ragazze, le prime file erano sempre affollate da persone con difficoltà, aficionados cui veniva offerto il biglietto dalla casa. Sempre in quell’intervista, Moana mi raccontò: «Ma lo sai quanti handicappati, sordomuti, disperati, vengono ai miei spettacoli? Gente che una donna, nella realtà, non potrebbe mai averla. E io sono felice di fare felice questa gente, sia pure per pochi secondi», magari scendendo in sala e sedendosi sulle loro ginocchia: ma di questo in Diva Futura non c’è traccia…
Un mondo complesso, contraddittorio, quello del porno, tutt’altro che schematico così come il film lo presenta, senza minimamente approfondire. Nel film, Schicchi profetizza che Internet avrebbe ammazzato il ‘suo’ porno, quello nato dalla ricerca dell’amore libero, quello politico, quello che alla fine degli anni 60 i fratelli Mtchell inventarono, seppure con modalità differenti, in California. Preistoria. E almeno questo in Diva Futura si dice. E, infatti, così è avvenuto: la rivoluzione sessuale marcusiana non c’è stata. Anzi, in Italia sta avvenendo l’esatto contrario. «Non si sono neppure presi la briga di trarre informazioni serie sul porno dall’opera audiovisiva di Carmine Amoroso Porno e libertà, apprezzato in oltre 30 paesi e cha vinto il Nastro d’Argento 2017 come miglior documentario italiano», commenta Lucio Massa, regista che conosce bene il mondo dell’hard.
Detto ciò, i film sono opere di fantasia, il regista ne è padrone e fa ciò che vuole, dunque… buona visione a chi ami le fiabe. Quanto allo ‘specifico filmico’ di Diva Futura preferisco sorvolare.