Fiore d’acciaio: la trilogia di Cailee Spaeny
Da Priscilla Presley all’ultimo Alien, un 2024 che vale la consacrazione
Sembra ancora una ragazzina, Cailee Spaeny, sebbene l’anagrafe conti ormai 26 anni compiuti a luglio. Eppure quel viso così pulito e quello sguardo così ignaro sul mondo comunicano un’innocenza bianca come la neve. Ma se si ingrandisce sul taglio degli occhi, qualcosa di più strano e provocante si fa strada. Caratteristiche viste in una prima parte di carriera dove aveva già mostrato ampie capacità di monopolizzare lo schermo. In quell’orrendo secondo capitolo di Pacific Rim rubava già la scena ai coprotagonisti Boyega ed Eastwood figlio (non grande impresa, per carità), mentre era più che un valore aggiunto nel corale Bad Times at the El Royale di Drew Goddard. Protagonista indiscussa, infine, in The Craft: Legacy: un ruolo forse non pienamente nelle sue corde, a posteriori. Sì, perché quest’anno la Spaeny è stata inquadrata, o se preferite ben collocata. La sua immagine è risaltata in una trilogia multiforme e divergente, dove il minimo comun denominatore è appunto questa giovane interprete e la sua rappresentazione. Un po’ Audrey Hepburn, un po’ la prima Natalie Portman, ma con un ingrediente in più a tratti impercettibile. Un mix, in verità, tra Eros e Ares.
È piccola, Cailee Spaeny: in altezza (1,55 m) e nella percezione visiva di chi riconosce in lei un’età ancora più immatura. Sicuramente anche per questo Sofia Coppola ha deciso di farle vestire, su misura, i panni di Priscilla Beaulieu in Presley nell’omonimo film che è stato tra i protagonisti della scorsa Mostra di Venezia. L’interpretazione che è valsa la Coppa Volpi è anzitutto fisica, nella sua delicatezza e levità. Il passo incerto, lo sguardo sfuggente e lo stesso confronto fisico con Jacob Elordi/Elvis sono immagini dirette che comunicano e raccontano senza bisogno di alcuna aggiunta. Ma lo è anche il cambiamento fisico cui Priscilla si sottopone per compiacere il suo capriccioso uomo/dio. Uno dei tanti compromessi che una ragazzina sentimentalmente immatura accetta (e la vedova Presley ne ha accettati molti), ma anche il passo necessario per cancellarsi, riformarsi e poter essere altro. Ecco perché la sua fuga in macchina da Graceland ha tutt’altro effetto del più spigoloso e gelido Spencer di Larraìn, quasi un gemello separato in sala proiezione. Dentro di essa c’è la muta, non necessariamente comunicata consapevolezza di un passaggio, ma anche il disvelamento di una natura nascosta. Ossia che, dentro quel minuscolo e arrendevole corpicino di bambola, c’è in realtà vita (oltre che desiderio). Dentro quel fiore reciso da terra, c’è però la resistenza e la durezza dell’acciaio.
Ovviamente la corazza la fa l’esperienza: un vissuto condizionato dal senso di inadeguatezza che poi svolta verso una più decisa presa di coscienza. E la Spaeny mostra subito di riuscire ad incarnare questo excursus diegetico, dandone un’ulteriore prova in Civil War di Alex Garland. Un’opera cinica nella sua libertà di espressione, dove la nostra diventa il fulcro della più importante sottotrama con la sua giovanissima reporter di guerra Jessie Cullen. Ancora minuta ed inesperta, viene salvata dalla più scafata Lee (Kirsten Dunst) durante un attentato e ne diventa la discepola mentre la guerra in corso negli Stati Uniti impazza. Purtroppo e per fortuna, l’ultima fatica di Garland non è una parabola ma una nera distopia, senza alcuna scappatoia e priva di qualsivoglia insegnamento. E laddove la sicurezza di Lee va sempre più vacillando, quella di Jessie diventa sempre più solida. La ricerca dell’immagine perfetta è rappresentata da un cammino lungo la morte e la distruzione. Appena scappata da un gruppo di fanatici guerriglieri, dopo aver camminato sopra un cumulo di corpi gettati in una profonda fossa, Jessie si vomita addosso. Quello è il punto di non ritorno, con la Spaeny che da lì in poi guarderà solo in avanti, gli occhi sull’obiettivo, per catturare l’istante. La morte appunto, a tutti i costi.
Una missione da portare a termine, come quella che affronterà infine, da protagonista, in Alien: Romulus diretto da Fede Alvarez. La Spaeny e la sua Rain Carradine sono ancora una volta fatte l’una per l’altra: lo specchio dell’incertezza e dell’incompletezza. In un film auto-fagocitato dal compiacente riferimento al passato e da un fin troppo spudorato effetto déjà-vu, la storia dell’eroina e del suo rapporto di fratellanza con l’androide Andy rappresenta forse l’unica cosa davvero interessante. A patto, ovviamente, che ci si metta l’anima in pace sul fatto che anche questa sottotrama andrà a finire giocoforza sotto quel tritacarne che è la macchina citazionistica. Ma l’idea di una giovane donna protetta da un’intelligenza artificiale che è essa stessa immatura apre comunque la strada per un altro viaggio di crescita e consapevolezza. Rain non può essere Ripley, ma neanche la dottoressa Shaw o la Daniels di Covenant. Ha un obiettivo, o un sogno per i più romantici, ma non ha i mezzi per raggiungerlo. E sappiamo benissimo che c’è una bella differenza tra razziare qualche pezzo da una nave abbandonata e avere a che fare con lo xenomorfo. Nel mezzo, con Andy la strada comincia a biforcarsi: una bella intuizione, per un passaggio obbligatorio. Rain ha paura, ma spara. Rieccolo, il fiore d’acciaio. Al termine di una trilogia filmica che, a livelli diversi, ci ha comunque consegnato un volto e un corpo per il domani. Una lolita che non si vedeva da tanto tempo.