FOCUS – Morti di fama
L'invasione degli horror sulle celebrità. Una retrospettiva

Prima del cinematografo, gli unici “divi” erano re, imperatori e qualche celebrity del calibro di Voltaire – l’uomo più famoso del XVIII secolo – o Jean Jacques Rousseau, che della notorietà fu tra i primi a lagnarsi. Cesare e, prima di lui, Alessandro Magno, pubblicizzò la propria immagine in effigie con l’unico media a sua disposizione: la moneta. Le dive e i divi del muto inventarono finalmente la notorietà novecentesca che divenne rapidamente il modello per tutti i famosi: sport, moda, televisione, eccetera. Il cinema horror non ha mai smesso di ricordarcelo, soltanto negli ultimissimi anni con titoli pur diversissimi come Opus, The Substance, MaXXXime, Smile 2. Ovunque si parli di spettacolo spuntano “morti di fama” e gente disposta a tutto per uscire dall’anonimato come Sarah Walker, la cameriera che si vende l’anima per un casting, in Starry Eyes (2014) diretto da Kevin Kölsch e Dennis Widmyer. O le top model di quel fulgido breviario per celebrities che è The Neon Demon (2016) di Nicolas Winding Refn, pronte a cannibalizzare fuori di metafora l’ultima arrivata.
In duemila anni il concetto di celebrità in fondo non è cambiato granché. In Storia della fama (Effequ, 2025), il filosofo Alessandro Lolli lo definisce come il rapporto che si instaura tra il fan e il proprio idolo. Il primo sa tutto dell’altro, senza che quest’ultimo lo conosca a sua volta. Un selfie tra i due potrà svoltare al fan la giornata, che resterà un qualsiasi martedì per il suo idolo. La celebrità, insomma, è asimmetrica e sottintende un privilegio. Per spiegarlo, il cinema horror ricorre spesso al soprannaturale, ad esempio al faustiano “Patto col Diavolo”. Ne Il fantasma del palcoscenico (The Phantom of Paradise, 1974), Brian di Palma ne fornisce un esempio memorabile in salsa glam rock. Facendo suo un motivo introdotto per la prima volta nella precedente versione di Terence Fisher (1962), il “fantasma” non è solo vittima di un incidente che lo ha sfigurato orribilmente e lo obbliga a nascondersi ma anche oggetto del plagio, e quindi del “furto di fama”, ad opera dal suo rivale, Lord Ambrose. De Palma trasforma questa intuizione nel leit motiv del film attraverso la figura di Swan, il discografico infernale e forever young grazie al patto con le forze del Lato Oscuro, che per ben due volte inganna Winslow Leach (William Finley), oltre a sottrargli la cantante Phoenix (Jessica Harper) di cui è innamorato. Il tema non è presente nel romanzo di Gaston Leroux, né nel film di Lon Chaney (1925), uno dei capolavori del muto, né figurerà in seguito negli adattamenti, più o meno liberi, come Opera di Dario Argento o il musical anni ‘90 da cui è tratto il film di Schumacher (2004). Swan è in definitiva un gatekeeper, la metafora di un mercato “truccato”, che esercita spietatamente il suo potere, ingannando gli artisti che mette sotto contratto.

Starry Eyes
Che la fama e la gloria impongono qualche compromesso con le Forze del Male è un’idea che è rimasta popolare. Ad Hollywood le cose funzionerebbero più o meno così secondo il padre bigotto di Maxine (Mia Goth), deciso a esorcizzare la figlia attrice al culmine della trilogia di Ti West (MaXXXine, 2024). Alfred Moretti (John Malkovich), la matura vedette di Opus (Mark Anthony Green, 2025), rispunta dal dimenticatoio degli anni ‘90 per celebrare con sacrifici umani in chiave folk horror le energie creative a cui non intende rinunciare. E anche Skye Riley, la giovane popstar di Smile 2, alla fine deve arrendersi all’Entità che proprio grazie alla sua immensa popolarità potrà diffondersi tra i suoi fan. Le forme mutano ma la sostanza non cambia: se l’aspirante attrice di Starry Eyes si sottomette al vecchio Belzebù, in The Substance la cinquantenne Elisabeth Sparkle (Demi Moore), scaricata dal suo sponsor per raggiunti limiti di età, sottoscrive il patto faustiano con una multinazionale biotech. Per qualsiasi celebrità il vero “patto col diavolo” è rappresentato però dal rapporto con i suoi fan. ‘Without us, you’re nothing” sbotta alla fine l’autistico e tenero Moose (John Travolta), appassionato maniaco di cinema horror violentemente respinto in The Fanatic (Fred Durst, 2019) dal suo idolo. Gli fa eco quest’ultimo, quando, legato al letto e in preda al panico, tenta disperatamente di rabbonire il suo ammiratore: “You’re a fan, and I’m nothing without you”). Moose è in definitiva un Pupkin che – per sua fortuna – non ce l’ha fatta, un fan diventato heater ma destinato a tornare nell’ombra dopo la sua notte brava.
Il twist che separa il fandom entusiastico dall’odio viscerale per l’artista idolatrato fino a un attimo prima, spesso dista spesso soltanto pochi clic o un post fuori misura. In un’ epoca pre Internet, che oggi ci appare remotissima, Misery (Rob Reiner, 1990) ha praticamente definito il canone di questa metamorfosi. Annie Wilkes, avida lettrice dei romanzi di Paul Sheldon, contesta il famoso scrittore non in quanto celebrità – privilegiata o indifferente verso i comuni mortali – ma sul piano fantasmatico della fiction e dell’immaginario. Misery – come prima di lei Sherlock Holmes e decine di icone della cultura di massa – non deve morire, appunto, ma continuare a vivere per il piacere dei suoi fan. In Perfect Blue (1997), capolavoro anime di Satoshi Kon, quando la cantante J-pop Mima Kirigoe decide di lasciare il gruppo idol CHAM! per intraprendere la carriera solista a qualcuno la sua scelta non andrà a genio, mettendo in moto una catena di sanguinosi delitti. Non accettando l’evoluzione della sua identità artistica, che vorrebbe congelata e ferma a un ricordo passato, il killer perseguita l’artista con le apparizioni di una presunta “vera Mima”. Questo afflato di partecipazione “dal basso” e di appropriazione emotiva ha portato Brandon Cronenberg ad immaginare per Antiviral (2012) un futuro capitalistico dove le celebrità vendono sottobanco e condividono con i loro fan anche i virus e gli agenti patogeni per rivivere le infezioni e le loro stesse malattie.

MaXXXine
Se la celebrità novecentesca appariva esclusiva e irraggiungibile le cose sono sicuramente cambiate all’inizio di questo secolo, con l’affermazione di Facebook (social networks) e Youtube (Social media). Sempre secondo Lolli va aggiornata anche la profezia attribuita ad Andy Warhol: la maggior parte di noi oggi è “famosa” per una quindicina di amici che ci seguono online, e non per una quindicina di minuti nella vita, in mondovisione, come si immaginava negli Anni Sessanta. Nel mondo digitale post-mucluhaniano il nostro spicchio di fama non va ricondotto alla sfera del tempo ma delle nostre relazioni virtuali. In altre parole, le aporie della “fama” sono diventate il modello anche per noi non famosi nel grande gioco della comunicazione e, nel bene o nel male, regolano oggi le nostre relazioni social. Il cinema non sembra per ora disposto a prenderne veramente atto, restando prevalentemente schierato a difesa pregiudiziale degli old media . Da Funhouse a Feed un certo sottogenere horror ha focalizzato influencer, youtuber, instagrammer, ecc in genere facendo sadicamente scempio dei loro corpi (lo stesso Opus, in fondo, non esita ad infierire su Emily, l’influencer del gruppo). In questo panorama, Influencer (2022) di Kurtis David Harde, un horror psicologico costruito come un thriller di Patricia Highsmith, rappresenta una piacevole eccezione, mettendo in scena, attraverso le traiettorie disincantate dei quattro protagonisti, la pericolosità oggi potenzialmente insita in qualsiasi relazione con l’altro. Non importa se online o offline, e senza giudicare vite dove la ricerca dei like e di se stessi non è più chiaramente distinguibile da solitudini, affetti, interessi, amicizie, soldi, sbatti, eccetera.