In difesa di Emmanuelle 2024
Noémie Merlant, fuori dal paradigma

I film cambiano a seconda dell’ora in cui li guardi, più che dell’ambiente in cui li guardi, che ormai da anni è, per così dire, funzione superata. Questo Emmanuelle 2024 andrebbe apprezzato a notte fonda: il mattino sdrammatizzerebbe e il pomeriggio banalizzerebbe. Va visto con fuori il buio, meglio se accompagnato da quel silenzio che gli antichi definivano “conticiniale”. Ne hanno scritte di ogni, sul film di Audrey Diwan, che i cinefili per bene fan finta di conoscere, inerpicandosi nella sua testa e nei suoi pensieri. Chi scrive la giudica solo dalle foto, che rivelano una bella donna, classe 1980. Viso forte, una “stangona” si direbbe. A lei è toccato riprendere in mano il romanzo omonimo del 1959, firmato da Emmanuelle Arsan (al secolo Marayat, con almeno tredici cognomi possibili diversi, nata a Bangkok), ma in realtà redatto dal marito Louis-Jacques Rollet-Andriane, un diplomatico. La Diwan racconta che, invece, il film di Just Jaeckin con Sylvia Kristel lei non lo vide mai: ci provò una volta, mollando dopo mezz’ora scarsa, capita l’antifona. Quindi, è da fare subito strame di ogni paragone tra quello e questo. Ma anche con il romanzo, che serve giusto per poter sfruttare il nome Emmanuelle, poiché, identicamente, si spalanca un abisso tra la pagina scritta e il nuovo film. L’ “antifona” di cui sopra sarebbero le avventure erotiche etero e soprattutto omosessuali, che la Kristel/Emmanuelle (sofisticata borghese parigina, sposata come l’Emmanuelle reale a un diplomatico) si concedeva, avendo come quinta d’azione i panorami della Thailandia. Era questo che portava al cinema la gente (intrusione personale: i miei, ricordo che mossero oltre frontiera da Milano a Mendrisio per vedere il film – all’ultimo spettacolo serale, ovviamente – quando da noi era ancora tabu), la promessa di scopate clamorose: “cose turche” , come quella copula dell’inizio, ad alta quota, tra Emanuelle e un passeggero sconosciuto, nel bagno di un aereo. Vai a farglielo capire ai sapientoni sofistici che oggi concludono che nel film di Jaeckin, in fondo, non si mostrava “niente di che”. Vai a farglielo capire che in quel clima di febbrile ed eccitante attesa, sullo schermo si finiva per vedere sia quello che c’era sia quello che non c’era…
Anche l’Emmanuelle di Audrey Diwan (alla cui scrittura ha collaborato Rebecca Zlotowski) comincia con una presa da tergo della protagonista, Emmanuelle, in piedi, nella toilette di un velivolo che la sta portando “tra le diaboliche spire del favoloso oriente”. La interpreta Noémie Merlant (che ha fregato il ruolo a Léa Seydoux), classe 1988, volto finissimo e delicato, da cerbiatta, come il fisico, fenotipo esile, seni e capezzoli eterei. La vagina, intuita di scorcio un paio di volte, depilata “a striscia”. Fin da questo sesso tra le nuvole, filmato in un contesto scuro, è subito palese che, se qualcuno si eccita va bene, si ecciti, ma la direzione in cui procede Audrey Diwan è un’altra, come eros e per tutto il resto. Emmanuelle qui è una manager alle dipendenze di una holding che gestisce grandi alberghi e sta volando a Hong Kong per valutare, déguisé en touriste, l’operato di Margot (Naomi Watts, che c’è ma è come se non ci fosse), direttrice di uno dei lussuosissimi hotel della compagnia. La storia si infila subito tra le mura del luogo e là resta fino alla fine: il fuori, l’esotismo, il colore locale, è negato, lasciato solo intuire, salvo in una lunga e assai suggestiva catena di sequenze, nel corso di un uragano di pioggia e vento che si abbatte sul cemento e sulle vetrate e combina guai con l’acqua penetrata ai piani alti. Che se ne apprezzi il puro valore apparente o lo si legga come facile metafora della condizione della protagonista (il premere violento del desiderio erotico, questione più di cervello – i “piani alti”, la testa e i sensi superiori – che di corpo e carne), il passaggio conta tra i momenti migliori del film. Emmanuelle non fa che aggirarsi tra camminamenti, saloni, corridoi, camere e ambienti di lavoro dell’hotel, sorveglia l’operato di tutti, dalla direttrice agli sguatteri, registra i report del suo compito di “infiltrata”. E, nelle more del lavoro, scopa…
Audrey Diwan aderisce, dunque, trovando perfetta corresponsione nella Merlant, alla teoria che gli oscuri oggetti del desiderio passano in prima battuta per gli occhi, salgono alle sinapsi e solo infine si diffondono ai nervi, ai visceri e correlati, per eccitarli. Sicché racconta, di conseguenza, la fenomenologia erotica molto nel prima, nel gioco dei raggi visivi che si incrociano, nel silenzio della concupiscenza e poco o niente le cale del durante, dell’illustrazione degli atti. Qualcosa ci deve concedere, ovviamente, e ce la concede, a noi voyeurs: Emmanuelle che si infila nel letto di una coppia di avventori del bar dell’albergo (lui, Andrea Dolente, sotto, lei sopra e l’altra donna, Naama Preis, dietro), flirta e giochicchia safficamente con un’altra ospite, Chacha Huang, ma soprattutto appaga il proprio e il nostro desiderio toccandosi in solitaria (con l’uso, in una seconda e maggiore scena di masturbazione, di cubetti di ghiaccio). L’immaginazione è chiamata a riempire i vuoti e questo la regista lo dichiara apertis verbis: immaginazione di chi guarda il film e della stessa protagonista, che è inquieta e in fiamme là sopra più che là sotto e che a un certo punto si fissa sul feticcio di un uomo, Will Sharpe, un mezzosangue giapponese/inglese, tabagista compulsivo che va e viene per l’albergo, ma non risiede lì: uno del popolo, come la stessa Emmanuelle, della quale qui sono evocati i natali modesti delle sue origini. Da due anni costui non sfiora donna, causa secca totale del desiderio: Emmanuelle riuscirà a farselo? I dettagli all’ultimissima scena, con sorpresa “pitagorica” (“tutte le cose stanno nel tre”) e che chiude il film con un forte ex abrupto. S’ode a destra uno squillo di tromba: “Film femminista”; risponde a sinistra un altro squillo: “Manifesto politico”. Cazzate, solita frittura d’aria. La parte avversa infierisce: “Noioso, inutile, tedioso, antionanistico, roba da sei e mezza costante”. Cazzate pure queste, da fedeli di Cicciolina & Moana ai Mondiali. Emmanuelle 2024 ha un quid arcano e magnetico, è un film quieto e cupo, una specie di rebus, chiamati ad apprezzare e risolvere il quale (insieme alla regia matematica, elegantissima della Diwan e alla porcellana preziosa della Merlant) si è in pochi, ma è giusto sia così. Vedetelo, però, nel cuore della notte. E ne godrete (ci scappi o meno una sega)…