In difesa di Finalmente l’alba
Sul film di Saverio Costanzo, il caso Wilma Montesi e la Dalia Nera
Il circo si trasformò in una farsa con qualche occasionale risvolto di tragedia.
James Ellroy, Dalia Nera
Finalmente l’alba di Saverio Costanzo è stato un progetto talmente suicida che mi pare giusto difenderlo. Con un budget di oltre 29 milioni di euro, clamoroso per un film italiano nel periodo post-Covid, prodotto da Rai Cinema, Freemantle e Wildside, è stato girato negli studi di Cinecittà e in altre location di Roma con un grande dispendio di uomini e mezzi. Una hybris folle che ha condotto direttamente al disastro: stroncato fin della prime proiezioni in concorso al Festival di Venezia 2023, è diventato oggetto di un vero e proprio tiro al piccione da parte della critica; tanto che il regista ha rimontato il materiale portandolo dai 140 minuti della kermesse lagunare ai 119 minuti nella versione cinematografica. È seguito il disinteresse pressoché totale del pubblico, visto che nel passaggio in sala ha toccato appena i 400.000 euro. La discrasia tra budget e incasso (29 milioni – 400.000) è talmente eclatante che Finalmente l’alba rischia di essere ricordato per un’unica cosa: come ultimo film italiano con un budget del genere, il fallimento definitivo, che porta a un taglio draconiano dei fondi già in sede di ideazione e pre-produzione. In altre parole, non esisterà più un film italico così “ricco” per molto, molto tempo. E ciò non è detto che sia un male.
Ma cosa c’è dentro Finalmente l’alba? Ora che il film è approdato sulle maggiori piattaforme (Apple Tv, Tim Vision, Google Play), insomma che ha avuto la cosiddetta “seconda uscita”, si può verificare coi nostri occhi e tastare i motivi dello stigma. Siamo a Roma nel 1953: la giovane Mimosa (Rebecca Antonacci) sta guardando un film neorealista con la madre e la sorella, protagonista Alida Valli. Al termine della proiezione un figuro avvicina proprio la sorella, assicurandole che a Cinecittà stanno cercando comparse e lei sarebbe perfetta per il ruolo. Da qui si innesca una serie di eventi che porterà rocambolescamente anche Mimosa a sostenere il provino, per venire prima scartata e poi presa. Sarà la comparsa in un peplum egizio: un grande film in costume sull’unica faraona donna della storia, affidata alla diva mondiale Josephine Esperanto (Lily James). Dopo l’esperienza sul set, però, la giovane viene coinvolta in una notte brava…
Sui fatti che si dispiegano in trama non mi dilungo, ne abbiamo già parlato nella recensione da Venezia. C’è un altro aspetto, strisciante come un serpente, che presto diventa oscuro e intrigante. L’ingenua Mimosa, aggirandosi nei corridoi di Cinecittà in cerca della sorella, si intrufola in una saletta privata dove sta scorrendo un cinegiornale: racconta il ritrovamento del cadavere di Wilma Montesi, l’11 aprile 1953, sulla spiaggia di Torvaianica col viso nell’acqua, riversa esanime sul bagnasciuga. È l’innesco di uno dei casi più misteriosi nella nostra storia, il trapasso di una ventunenne di origini umili che sognava di fare il cinema, avendo già preso parte a comparse e piccoli ruoli. Il sogno scolora in incubo proprio su quella sabbia, prestando il fianco alle ipotesi più svariate: incidente, suicidio o omicidio? Un caso irrisolto settant’anni dopo, un vertiginoso True Crime che si incarta su se stesso e finisce senza colpevoli, con processi che non portano a nulla. E resta il sospetto primario: che la ragazza sia stata ammazzata a seguito dei festini nella Hollywood sul Tevere, dove i cinematografari portavano le giovani per ottenere favori. Guardando quel cinegiornale, la finta Mimosa assiste alla vera morte di Wilma.
Quando la protagonista conosce il suo viaggio al termine della notte, allora il dubbio sorge spontaneo: che Mimosa sia Wilma per interposto personaggio? Che sia un risarcimento per Wilma, restando viva laddove la poveretta finiva estinta? O potrebbe essere semplicemente un doppio binario, un gioco di specchi in cui l’una si riflette nell’altra anche senza conoscersi. Ed è qui che entra in ballo, sul piano ideale e immaginifico, la terza donna nello specchio: Elizabeth Short ossia la Dalia Nera, ritrovata morta alla periferia di Los Angeles il 15 gennaio 1947, appena sei anni prima della Montesi. Con una dinamica stranamente simile nel senso che anche Liz, ventitré anni al momento del decesso, voleva entrare nel mondo del cinema attraverso la porta principale, quella di Hollywood e non la succursale romana. L’orrida foto del suo corpo tagliato in due compone una rima col cadavere del litorale laziale; ed è un altro caso mai risolto, messo in abisso da letteratura e cinema (il romanzo di James Ellroy da cui il film di Brian De Palma), un enigma a più strati che si conclude in un vicolo cieco. Wilma Montesi è la nostra Dalia Nera.
Nel percorso metaforico innestato nel film di Costanzo, Mimosa potrebbe essere un’altra Wilma e quindi un’altra Dalia. Le cose vanno diversamente, ma passano attraverso una storia dura e feroce, che si muove in modo irregolare dalla ricostruzione del peplum all’incubo notturno, della cena elegante alla brutalità dello stupro. Il simbolo di tutto ciò è una tigre in gabbia, un animale di scena rinchiuso negli studios (alcuni hanno obiettato che la bestia è digitale… e allora? Non siamo mica in un film realistico), che a un certo punto si libera e diventa grande metafora dell’oscurità, del crepuscolo ormai penetrato nell’intimo della protagonista. Viva o morta che sia. Finalmente l’alba è insomma un film malato e affascinante, un gioco morboso di specchi e di doppi, dove forse non tutto risulta messo a fuoco, ma sprigiona un’inquietudine vischiosa che ti resta addosso molto oltre lo schermo. È l’ora di rivalutarlo.