Intervista a Daniele Kong
Dialogo con l'autore della graphic novel “Bestie in Fuga”,
Su un’isola ai margini di un’Italia vitale in pieno secondo dopoguerra tutto è fermo, statico, provinciale. La vita scorre sempre uguale con i ritmi lenti del mare e della pesca, almeno fino all’arrivo di una troupe cinematografica che sconvolge tutte le dinamiche iniettando quella vitalità che sembra animare tutta la nazione. Bestie in fuga, di Daniele Kong, è una graphic novel pubblicata da Coconino che racconta un momento storico ben preciso fotografandone le energie e i movimenti in un racconto corale che per certi versi ricorda il lavoro dei fratelli Hernandez, benché Kong affermi di non aver mai letto Love & Rockets. Nocturno lo ha incontrato e intervistato in occasione di Lucca Comics and Games 2024.
D: La quarta di copertina cita determinate fonti d’ispirazione per il tuo fumetto: Bianciardi e Flaiano per esempio. A livello fumettistico invece, a chi ti sei ispirato? Avrei detto i fratelli Hernandez ma a microfono spento mi hai detto che non li conosci…
R: Esattamente, anche se farò quanto in mio potere per recuperare perché mi sembra di essermi perso una bella fetta di Storia del fumetto. A ogni modo ho delle difficoltà a individuare un unico riferimento perché sono sempre stato un lettore onnivoro. Sono un disegnatore compulsivo da sketchbook, non ho fatto l’iter di molti fumettisti che hanno iniziato copiando i loro idoli. Vengo dalla facoltà di architettura dove t’insegnano a usare gli sketchbook proprio per raccontare la realtà in generale, oltre l’architettura stessa. Se posso indicarti un autore non è probabilmente qualcuno che fa fumetti. Se andiamo meno sul tecnico ma parliamo di narrazione, di tecniche, di coinvolgimento una delle mie influenze è sicuramente il fumetto d’autore italiano: Pratt, Gipi e simili. Ho avuto anche una forte attrazione per il fumetto underground americano, per esempio Daniel Clowes, ma sono punti di riferimento per quanto riguarda la qualità dei messaggi veicolati, della narrazione ma anche la frammentazione delle vite delle persone e quanto si entrava nella profondità dei pensieri.
D: Parlando proprio di messaggi, Bestie in fuga racconta un particolare periodo storico dell’Italia che ha plasmato il paese negli anni a venire. Di che periodo si tratta e cos’hai voluto raccontare di esso?
R: Quel che ho voluto raccontare è stato un passaggio cruciale per l’Italia, dal boom economico in poi, ovvero quando il paese ha perso la sua verginità di paese esclusivamente agricolo e legato a una certa idea sia di famiglia che di nazione ma anche di economia, di politica e di tutto quel che ne veniva appresso, raccontando l’istante prima di questa perdita dell’innocenza anche intellettuale e morale nell’andare verso un maggior benessere materiale che si è tuttavia portato appresso anche una serie di problematiche controverse. Adesso ce ne accorgiamo perché siamo nella fase terminale dell’accrescimento di quell’ideologia, però viverla in quel momento mi avrebbe fatto piacere, mi sarebbe suonato rivelatorio quindi raccontarlo attraverso gli occhi di chi si è potuto approcciare allora a quell’evoluzione ancora in itinere, tra l’altro venendo da un’isola così poco popolata, marginale e quindi ancor più persa nelle tradizioni mi è sembrata una storia molto forte da raccontare.
D: C’è una parte dell’Italia, raccontata anche in Bestie in fuga, che sembra resistere al cambiamento, restando cronicamente provinciale. Sembra quasi impermeabile. A tuo avviso ciò a cosa è dovuto?
R: Quello che racconto è legato a un preciso momento in un preciso contesto storico ma sarebbe folle pensare che io l’abbia fatto senza trovarci un’analogia con il presente. La trovo una forma di ciò che non definirei nemmeno immobilismo, forse è corretto chiamarla ipnosi collettiva che ci porta a considerare determinate dinamiche come la normalità e l’idea che esse siano meccanismi immodificabili fa parte di noi, non l’ho detto io per primo, c’è passato Mark Fisher con tutto il suo apparato filosofico che oggi viene stracitato fino all’abuso.
D: Sempre riguardo al periodo che hai raccontato, rispetto al secondo dopo guerra e a tutte le sue potenzialità, le sue promesse, i suoi difetti, cosa è rimasto e cos’è stato tradito?
R: Ciò che è stato tradito è lampante, o forse nulla è stato tradito in quanto il messaggio era chiaro già in quel momento e l’abbiamo interpretato male, ci siamo aspettati che succedesse qualcosa senza alcun tipo di ricaduta mentre invece era tutto già orientato verso la situazione che stiamo vivendo. Forse erano proprio le promesse a esser nefaste.
D: Uno dei personaggi è un regista neorealiste che, per quanto in disarmo, rappresenta una poetica ben definita, con un legame forte con la realtà. Un regista del genere cosa racconterebbe oggi?
R: Io ho un po’ di problemi a trovare film che raccontino la realtà senza cadere in un’idea di realtà, è un problema che riscontro spesso, la classica narrazione della periferia distante dalla realtà quotidiana che si vive realmente. L’idea della realtà raccontata è diversa dalla realtà dei fatti. Certo, non voglio fare di tutta l’erba un fascio, ci sono anche narratori eccellenti, lungi da me denigrare tutta la categoria. Tuttavia, quando si fa della denuncia sociale si cade spesso in una visione delle vittime e delle vertenze che è fuori asse rispetto a quel che mi piacerebbe vedere da utente. Sarei contento di trovare storie diverse dallo stereotipo dell’uomo delle periferie tutto sala scommesse, disagio e malavita, a me quella sembra una distorsione che affonda le sue radici oltre oceano. Ho come l’impressione che a volte abbiamo bisogno di connotare alcuni aspetti della nostra società peggiorandoli esageratamente, talvolta dando una connotazione epica ai problemi di cui si cerca una chiave di lettura, una connotazione spettacolare che non trova riscontro nella realtà e non serve né a denunciare né a cambiare effettivamente le cose. Chi racconta la realtà lo fa per aprire un dibattito circa un problema o una vertenza e riuscire a non spostare nulla, perché questo tipo di narrazione diventa quasi fantastica da tanto è iperbolica, lascia il tempo che trova.
D: L’ambientazione insulare del racconto è una metafora?
R: Quand’ero piccolo, verso i nove o dieci anni, ho avuto la fortuna di passare molto tempo in vacanza d’estate presso un faro a Procida e mi è rimasta quest’idea d’isolamento perché io venivo da un contesto urbano rumoroso, frenetico e pieno di umanità varia per cui trovarmi in questa situazione di isolamento forzato ma ben accetto nonostante fossi molto piccolo mi ha lasciato una fascinazione per le isole che mi è rimasta negli anni. Le isole mi affascinano a prescindere, c’è una letteratura a riguardo e non sono certo il primo ad aver subito una fascinazione del genere. L’isola è una metafora del pianeta, la cosa pi vicina a un pianeta che naviga in un universo vasto in cui c’è una convivenza obbligata tra persone diverse, con vite diverse e approcci alla vita differenti. Diciamo che è un modo per imparare a convivere con le differenze.