Eleonora Giorgi
Meravigliosa creatura (in memoriam)

Verso la fine degli anni Settanta Cinecittà é in stato di degrado e di semi abbandono, o almeno così appare agli occhi della ventenne Eleonora, quando Alberto Lattuada sceglie di ricostruire nei suoi teatri di posa gli interni e gli esterni del film Cuore di cane. I protagonisti sono Max von Sydow, l’algido e austero interprete di tante epopee bergmaniane, e Cochi Ponzoni, al suo debutto nel cinema. Eleonora é l’interprete femminile e, come al solito, é la più giovane della troupe: l’atmosfera sul set é molto intensa, e nelle pause gli attori devono ritirarsi nei camerini; Eleonora trascorre lunghe ore di attesa da sola nel suo camerino durante i quattro mesi delle riprese. È lontano dal teatro, al primo piano di un palazzone stretto e lungo, in fondo a un corridoio sporco e mal illuminato. La stanza ha le pareti ingrigite, una luce fioca dall’alto, un tavolo e una sedia scrostati, uno specchio che deforma, un lettino sfondato coperto da un telo polveroso. È dotata di bagno… ma mal funzionante, con rubinetti che perdono, sporco ma sporco ma sporco. A lei sembra una cella: é inverno, e il pomeriggio vede il buio del cielo attraverso una finestra lunga, stretta e sporca. Si sente sola, e il posto le incute anche un certo timore, deserto e abbandonato come appare. Qualche volta approfitta delle pause per aggirarsi nei viali alberati e deserti di questa città di teatri di posa, e quando il tempo lo permette mangia il suo cestino seduta ai bordi di un laghetto, davanti all’imponente sagoma della nave Rex del film Amarcord di Fellini, rimasta lì come un cimelio dimenticato…». Eleonora Giorgi, parlando di sé in terza persona, come Giulio Cesare, si descrive con questo autoritratto, lunare e ossianico, sul suo sito www.eleonoragiorgi.it. Lo prendiamo a prestito come manoduzione all’intervista che segue, realizzata con lei qualche anno fa per gli extra del dvd di Disposta a tutto. Eleonora è una preziosa fetta di immaginario degli italiani. Preziosa anche perché non ovvia. Della cinquantina di film che ha interpretato dal 1973 a oggi non se ne danno due uguali. È rimasta immune dal contagio delle farse e del “greve”. E nel gioco uroborico della vita e dell’arte, (come spiega lei stessa benissimo, in quanto Eleonora ha il dono raro del saper leggere in profondità nella propria esistenza), quella ragazzina mercuriale che consumava il suo pranzo presso la mole affondata del Rex, si è rincorsa e sovrapposta, come un Atalanta fuggente, con quell’altra Eleonora di sole e di zolfo delle commedie neoirrealiste di Celentano, di Mia moglie è una strega e di Borotalco. Un attore – recita l’adagio – è qualcosa meno di un uomo e un’attrice qualcosa più di una donna. Ma un’attrice come Eleonora era, è, due volte di “più”…
Eleonora, cominciamo a parlare di Disposta a tutto, che è la ragione per cui siamo qui oggi a intervistarti. Ma da questo film vorremmo poi passare a fare un ritratto approfondito, e magari inedito, della tua personalità, come donna, come attrice e ora anche come regista… Ti va?
Disposta a tutto… Era l’anno del terremoto del Friuli, me lo ricordo perché io ero lì, a Venezia… Torniamo indietro di talmente tanto tempo. Giorgio Stegani era un intellettuale, un uomo diverso, originale, di grande entusiasmo e di grande passione; credo che la storia lo riguardasse molto da vicino e aveva costruito questo film proprio con la passione di qualcosa che lo riguardava molto da vicino. Al tempo ero giovanissima, secondo me avevo 21 o 22 anni. Ed ero così afflitta dal problema di me stessa, di una carriera iniziata per caso, che mi era esplosa tra le mani e che mi regalava grandi difficoltà nella vita privata, che a loro volta sopraffacevano la carriera. Quindi, posto che ero uno strumento musicale, spero gradevole, al servizio del mio direttore, ero poco interessata, tutto sommato, a quello che facevo… per questo mi è difficile parlarti col cuore. Ricordo che Disposta a tutto lo feci sull’onda di questo grande entusiasmo di Stegani che mi convinse. Ma ricordo anche che ero forse proprio nella fase di maggior distacco da quello che stavo facendo. Io vissi, nell’ombra, una crisi fortissima fra il 1976 e il ’78: avevo girato sette, otto film, anche di discreto successo, ero diventata già una “celebrità” in erba, ma la mia vita era andata in pezzi, ero una ragazza molto confusa. Nel 1977 esplode questa “bomba” nella mia vita e faccio scelte casuali, mi sommergo, sono depressissima, contemplo persino di smettere col cinema e di cambiare vita. Sono in una fase terribile della mia vita, forse uno dei momenti più brutti! Non ero pronta per fare l’attrice, quando ho cominciato, per caso, stavo preparando l’esame di ammissione all’Istituto del Restauro… quindi completamente un’altra cosa. Avevo un padre che operava nello spettacolo, però molto lontano… In quei due anni le cose che facevo le facevo col cuore ma forse con poca testa.
Il tuo nudo in Disposta a tutto, ma non solo in quel film, aveva un valore “dirompente”: molto maggiore rispetto a quello delle tue colleghe…
Ma questa opinione mi viene presentata frequentemente, adesso molto più di un tempo, proprio nella rilettura che si fa del cinema di allora… A volte penso a come la neo-liberalità degli anni Settanta possa, in qualche modo, apparire addirittura estrema in questi anni di neo-conformismo. Abbiamo importato dall’America questa specie di finta moralità no? Allora, invece, il cinema italiano era molto estremo… Io, scherzando, dico che forse ho trovato la ragione che faceva di me e del mio nudo qualcosa di quasi più morboso: perché io ero una ragazzina bene, ben educata, che aveva avuto solo un fidanzato. Non ero una ragazzina dello spettacolo, con una liberalità sessuale ed erotica disinvolta. Quindi io avevo questo impatto quasi aggressivo ed ero di un comportamento… voglio dire… talmente irreprensibile… tant’é che nella mia carriera, forse, sono poi diventata un oggetto del desiderio perché le donne che dicono no finiscono per diventare oggetti di desiderio inappagato. Ma non lo facevo certo per atteggiamento, io avevo un’educazione cattolica, feroce. E il mio spogliarmi fu una provocazione, a mia madre e mio padre, che si erano permessi di spezzare una famiglia, un sogno, due anni prima, e ci avevano lasciato sgomenti, a noi figli. E quindi credo che tutto questo, il mio spogliarmi al cinema, sia nato perché volevo che loro mi notassero. Invece mi hanno notato gli italiani e loro no. Poi l’ho pagata molto, perché non corrispondeva a me, non corrispondeva alla mia educazione, non corrispondeva al fatto che io a tredici quattordici anni… realizzato di andare incontro al gusto dei ragazzi e che mi succedevano quelle cose banali, tipo: spegnevano le luci nelle feste e qualcuno mi baciava o mi toccava… con tutto questo, mi sono fidanzata, a 13 anni e mezzo, con un ragazzo che adesso è un cardiochirurgo e siamo stati insieme sei anni. Lui fu fautore del mio primo film, lui m’incoraggiò, e poi, di fatto, questa cosa ci esplose in mano. Per questo dico che quando io faccio tutti questi film, nel 1975, ‘76, ‘77, la mia testa e il mio cuore sono su quella ragazzina che ha perso completamente l’orientamento. Per tornare al tuo tema: di questo mio nudo, di fatto, io stessa adesso, rivedendolo, ne rimango impressionata, perché c’è un che di grande gradevolezza, ma c’è anche l’espressione, la traccia, l’ombra di un candore violato. Ecco, questo voglio dire: c’è una violazione di qualcosa, pur nell’impudicizia e nell’estrema libertà naturale delle mie pose. Io mi sono accorta, nel tempo, di essere stata oggetto di una grande passione, ancorché, forse, solitaria, degli uomini, ma particolare… qualcosa che ha coinvolto più del fatto fisico. Non lo so… Secondo me, il pubblico non sbaglia mai, e loro sentivano che c’era una violazione, quindi era più perverso, più morboso: sono sicura di questo. Ero una ragazza che veniva rappresentata come una specie di oltraggio al pudore, pur avendo poi una condotta agli antipodi… Tant’è che passo dal mio primo fidanzato ad Alessandro Momo, un altro ragazzo più di me famoso e quanto me scombussolato da tutto quello che gli stava accadendo col cinema, col successo. Anche lui di buona famiglia… non a caso ci trovammo… e poi questa sua fine così tragica… Se pensi al mio secondo film, di Calderone, con me e Ornella Muti, Appassionata, c’era proprio questa morbosità. Quel personaggio ero io due anni prima quando andavo a scuola: ero molto io… Beh, poi io mai avrei sedotto il dentista (ride). Però c’è stata questa sovrapposizione di pensiero maschile su di me. Sai, se dovessi definirmi, direi che in quei primi anni di cinema, ero “strana”. Durante i quattro mesi e mezzo di riprese di Cuore di cane… dove c’era von Sydow che mi atterriva, mi faceva paura pure nella vita; pensa che ci siamo rincontrati tre anni fa a un festival e lui, molto carinamente, mi ha vista e mi ha chiamata sul palco; gli ho detto: «Ma tu immagini quanta paura avevo di te che eri così austero?»… Comunque, giravamo a Cinecittà, negli anni di piombo, con tutto chiuso, tutto sotto sciopero e mi ricordo che il mio cestino – perché non c’era la mensa – lo andavo a mangiare da sola vicino al relitto semi-affondato della Rex: c’era il laghetto di Cinecittà e la carcassa della Rex, la nave di Amarcord: ho passato quattro mesi lì, da sola, a mangiare il mio pranzo. Ero un’altra cosa, non legavo con nessuno, non c’entravo niente, ero sola anche sui set, avevo un’estraneità…
Però il successo era arrivato subito.
Subito! Uscì una copertina due mesi dopo che avevo fatto il primo film, Storia di una monaca di clausura. Io, col mio mitico primo fidanzato, in moto, ero andata a fare un viaggetto, non c’erano telefonini né niente: alla frontiera tra Liguria e Francia, a Ventimiglia, passando la dogana c’era un baracchino, un bar con dei giornali. Vedo una foto su un giornale e dico: «Ma chi è quella?! Sono io?». Una foto che non so chi mi avesse convinto a fare, col grembiule di scuola, il fiocco, i calzettoni, i mocassini, le codine e l’uculele (ride)… Quindi sì, c’è stato subito il successo, accompagnato anche da una certa curiosità, forse. Tutto sommato, ero un personaggio interessante involontariamente, per stranezza, particolarità, diversità di cammino, già forse nella famiglia. Forse anche quello ha attratto. Anche Ornella Muti era atipica, figlia di una straniera pure lei.
E la famosa rivalità sul set di Appassionata? All’epoca venne pubblicato un servizio fotografico in cui vi picchiavate…
Fu una trovata di Lucherini, che rideva come un pazzo mentre ce lo proponeva; noi eravamo perplesse. Ci disse: «Dai, fatelo, i fotografi stanno qui», nel piazzaletto della Safa Palatino, mitico studio televisivo, fra le rovine romane, una cosa meravigliosa… E noi dicevamo: «Ma come dobbiamo fare?». Poi parlavamo, si vede nelle fotografie che abbiamo le bocche aperte, e ridevamo: è venuto fuori questo servizio e ancora oggi ne parliamo dopo quarant’anni. Però la rivalità con la Muti è stata un’evidenza delle cose, perché, in effetti, abbiamo raccolto gran parte, equamente divisa, della simpatia, della stima, della voglia di vedere i nostri film per un lungo periodo: di fatto, o era lei o ero io. E poi anche così complementari, sebbene diverse, diversissime. Quando ho fatto il mio primo film di regia, Uomini & donne, amori & bugie, ho voluto Ornella in un ruolo ideale di donna degli anni 60 che si rifaceva a mia madre… Però la rivalità rimane, perché adesso lei si è fatta i capelli biondi… e io, ti giuro, sono furibonda! Sono andata a teatro a vederla ed ero isterica: «Ma perché bionda coi capelli lisci?!», ho detto… Perciò la rivalità rimane, con affetto.
Quali film ricordi meglio di quegli anni?
Storia di una monaca di clausura, Appassionata, benissimo; Il bacio così così; Alla mia cara mamma… non lo ricordo molto bene; La sbandata lo ricordo molto bene…
Ecco, appunto: ma chi diresse il film?
Salvatore Samperi! Alfredo Malfatti era il suo aiuto regista che però era costretto a firmare il film e Samperi si spostò in alto come produttore, ovvero “Salvatore Samperi presenta”; perché lui era sotto contratto con Clementelli-Cinélite, mentre questo era un film Lombardo-Titanus e sorsero problemi di natura giuridica. La sbandata lo ricordo tantissimo, perché fu la prima volta che andai a lavorare a sud di Roma. Giravamo a Sant’Alfio, un paesino della cinta etnea e per due mesi non ho mai visto una ragazza e neanche una donna, mai, solo uomini. Il film era una storia molto popolare: una gang di furbe donne che mettono in mezzo il parente tornato ricco dall’America. Diventava molto verosimile in quel contesto. Fu il primo film dove sono stata a mio agio perché Salvatore era un po’ più giovane, aveva una troupe tutta più giovane, sorvolando sul fatto che i suoi operatori erano Peppe Lanci alla macchina, Transunto ai fuochi, Gelsini che caricava gli chassì, Franco di Giacomo come direttore della fotografia… sai, eravamo con delle eccellenze artistiche straordinarie. Ricordo Modugno, che io conoscevo da piccola come cantante di Il frac, Volare… Ho una memoria dolcissima di quel film, vuoi perché la troupe si era un po’ ringiovanita, vuoi perché, forse, era la prima volta che andavo a fare un film in esterna in un posto così coinvolgente. La Sicilia di quegli anni, con le strade, piccole e strette, che profumavano di arance e di limoni… e questi uomini che ti guardavano…
Invece Il bacio…?
Mi divertirebbe molto rivederlo: perché Lanfranchi, che era il marito di Anna Moffo, artisticamente era un uomo molto ambizioso, aveva investito molto, ricordo; c’era questo Bartolini Salimbeni, straordinario art director, un nobiluomo, e i costumi dell’antica sartoria Safas, da cui deriva poi Tirelli. Alla Safas in via Margutta entravi in una specie di regno fatato, con queste signore centenarie tra trine e merletti… meraviglioso.
Conviene far bene l’amore, di Pasquale Festa Campanile, era all’avanguardia. E interpreti anche altri film particolari nel periodo, Cuore di cane di Lattuada o Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno di Salce…
Festa Campanile era un finissimo intellettuale, uomo coltissimo, tormentatissimo, molto chiuso e molto… nervoso: aveva una sorta di febbrile nervosità, controllava il set in questa maniera. Un uomo molto raffinato, meno gradevole sul set che fuori. L’idea era visionaria, terribilmente in anticipo sui tempi, difatti oggi potrebbe quasi essere verosimile… anche quella democrazia calata dall’alto che deriva dalla maggiore povertà… è quello che sta succedendo ora. Cuore di cane è un film pazzesco, anch’esso rivoluzionario, addirittura, per quegli anni di barricate. La scelta di Lattuada di imprimerlo su pellicola fu provocatoria, visto che era già un libro classico che aveva le sue radici in una messa in discussione di alcuni aspetti evidenti di disagio sociale, derivanti da quelle situazioni, stiamo parlando della rivoluzione russa… Lattuada fu una personalità… Vedi, prima mi chiedevi di Stegani, che io ricordo curioso, vivo, vivacissimo, appassionato di ciò che faceva, come una persona dentro la sua esperienza in maniera euforica. Lattuada aveva invece forse già la certezza del suo ruolo, molto, molto consolidato, quindi è il primo che io incontro con questo tipo di statura, un uomo molto interessante; non che gli altri non lo fossero, però forse lui di più, almeno nel mio immaginario di diciannovenne. Aveva un terribile amore per le donne, quindi era di una gentilezza, di una dolcezza anche nel capire questa mia estraneità, come se mi sentissi molto lontana, un po’ impaurita… Luciano Salce era un genio, una persona che aveva delle intuizioni. Ho fatto il mio primo film… due ne ho poi girati con lui… Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno, con lui e Villaggio, che è il loro film prima di Fantozzi. Loro avevano già questa complicità perché si capiva che stavano per andare, in qualche maniera, a stringersi ancora di più. Villaggio era il surreale, interprete e autore di se stesso; la storia sai che era di Berlanga, grande sceneggiatore visionario di Ferreri. Salce lo conoscevo dalla tv, lo avevo visto tantissimo nei varietà, quindi lo ricordavo come un personaggio molto connotato nella mia infanzia, dalla quale mi allontanavano solo pochi secondi. Aveva lo charme di un uomo così ironico, e dire che era riservatissimo, molto sensibile… aveva quell’ironia fredda di chi è riservato, quasi timido. Intelligentissimo, però a me faceva un po’ paura… La parola “paura” ricorre molto in questa intervista: paura di non essere all’altezza, di non capire i suoi riferimenti. Allora stavo con Alessandro Momo, che veniva con questa moto, che poi ne causò la morte, a trovarci sul set e lui, Salce, ci osservava con uno sguardo antropologico: eravamo il mondo nuovo, perché ogni generazione porta nuovi elementi ma la mia è stata proprio un ponte di grandi cambiamenti… Ci guardava ed era incuriosito.
Poi arrivi all’horror, a Inferno di Dario Argento…
Io nemmeno sapevo che fosse un horror. Per noi Inferno era un film giallo, non era horror, questa definizione nasce dopo, in qualche modo. Dario in quel momento, sì, forse aveva fatto Suspiria, però c’erano stati quei film molto più costruiti, gialli, L’uccello dalle piume di cristallo… Per cui Inferno io non lo percepivo come un film horror! Di fatto, era il primo film Fox in Italia, mega produzione americana. Dario era una persona squisita. Devi sapere che siccome da piccola io sono stata tormentata da paure di percezioni “extra”, non da quelle cose normali per cui uno può aver paura dei ladri eccetera, c’eravamo subito molto trovati con Dario, perché chi fa quelle cose è perché è pauroso, chi le immagina è perché è pauroso… Però una cosa mi ha sempre insospettito: all’atto della mia morte dove dovevo essere pugnalata da una mano anonima… con questo coltello che mi fecero vedere più volte, dalla lama retrattile, perché poi mi fidavo fino a un certo punto… si sente: «No, questa la faccio io!». A me mi pareva la voce di Dario. E penso: «Che deve fare lui?». Beh, hai capito? La pugnalata l’ha fatta Dario, con la sua mano. Ho avuto questo grande onore di essere pugnalata da Dario Argento!
Quando uscì Dimenticare Venezia c’era la sensazione che tu avessi compiuto una specie di “salto di qualità”, tu stessa lo dicevi nelle interviste…
Non so se Dimenticare Venezia si possa definire salto di qualità, perché avevo fatto Lattuada da Bulgakov, con Max von Sydow o L’Agnese va a morire di Montaldo, con Ingrid Thulin. Sai, io, in modo forse provinciale, dei registi italiani non capivo perché, quando cercavano un certo tipo di bionda prendevano Dominique Sanda e non me. Perché io mi sentivo più simile a lei nella vita che non a una di quelle della tv “con le tette”. Col tempo ho capito che è stato anche un fatto di personalità: di solito, i miei colleghi attori sono persone che scelgono un lavoro dove “nascondere” se stessi. Io invece avevo una personalità che si è molto sovrapposta al ruolo, il che ha dato luogo nella mia vita privata a vivacità, a una vita molto piena, che spesso è andata in collisione e ha sopraffatto la neutralità dell’attore al servizio di una storia, a servizio del personaggio. Adesso capisco, per alcuni autori e registi, quanto fosse difficile prendere un’interprete il cui impatto, la cui immagine, fossero, in qualche modo, un po’ troppo ingombranti. Questo come premessa per Dimenticare Venezia che sicuramente era un altro passo di qualità nella mia carriera, però non è una svolta. Tant’è che io da Dimenticare Venezia e Inferno faccio poi le grandi commedie. E quelle commedie lì, con grandi partner e tutto il resto, le alternavo con una grande prova d’autore, melò… come Disposta a tutto in anticipo di vent’anni anni… che era Oltre la porta, dove ho lavorato con Marcello Mastroianni, che considero la cosa più bella umanamente che mi sia successa in tutta la carriera. Mastroianni era una leggenda vivente e un incanto di understatement, di non sottolineatura, di disinvoltura. Aveva un atteggiamento che poi ho riscontrato solo in uomini di straordinario successo, che possiedono quella nobiltà per cui, anche se s’inchinano, non gli cade la corona (ride) vincono la forza di gravità. Così era Mastroianni, di una delicatezza, di un’educazione… e ho imparato moltissimo da lui.
Che rapporto hai avuto con Celentano?
Celentano, pure se ero innamorata di mio marito, incinta del mio primo figlio, in maniera del tutto platonica mi fece innamorare di sé, perché era contagioso, di simpatia di carisma, anche di originalità… autentica. Al tempo viveva ancora col clan. Fu la prima volta che ero alle prese con un fenomeno. La cosa che con Celentano ho amato artisticamente di più fu in Grand Hotel Excelsior, quando lui diresse e montò la scena del “Tico tico”… che, secondo me, hanno poi ripreso anche in una pubblicità con la Hunziker. Girata da lui e montata da lui. Non so se ti ricordi, ma è molto particolare perché dentro un film c’è un videoclip… tra l’altro la girammo il giorno di Italia Brasile dei mondiali…
Borotalco è invece il tuo cult assoluto…
Borotalco è il miglior film che ho fatto. Verdone lo dice senza problema che si è ispirato… l’ha detto anche nella presentazione del dvd… proprio a me. Racconta un personaggio femminile, che a prescindere da me, era comunque abbastanza innovativo. Perché racconta una ragazza di quell’epoca come altri film non hanno fatto. Condensa quell’ansia di liberazione, quell’ansia di conquistare una nuova posizione: «Anch’io ho diritto alla mia dimensione rispetto al lavoro», diceva…. E poi la mia vivacità: Verdone mi permette di essere vivace mentre tutti mi controllano sempre, mi blindano… E quello è un aspetto di me. Secondo me c’è l’Eleonora più lunare e ce n’è una molto solare, che è quella che il pubblico ha scelto e mi ha aiutato a vivermela senza problemi. Sicuramente da Borotalco in poi sempre di più. Poi in Borotalco è la prima volta che sono con i miei coetanei. Passano dieci anni dal mio esordio e finalmente ho accanto un coetaneo. Io, prima, andavo a lavorare con il senso del dovere, lo facevo per passione, ma non ero molto felice. Invece la mattina, andando sul set di Borotalco non vedevo l’ora, perché ero in mezzo ad amici, persone di cui non avevo paura. Paura vuol dire anche che ho, spesso e volentieri, rasentato una discrezione pari all’omertà… perché io e la Muti siamo state massacrate per dieci anni, mi aggiungo a lei perché lo dice continuamente e ha ragione. Oggi sarebbe considerato scorretto, non lo permetterebbero: quell’ironia, quel sarcasmo e anche, se vogliamo, quella morbosità nei nostri confronti. La mia paura era quella di essere giudicata, non ne potevo più… E con Verdone vissi tutte queste bellissime sensazioni che non c’erano state mai per me sul set, a cominciare dalla possibilità di avere un minimo di leggerezza.
Pensavo, rivedendo alcuni dei tuoi film, che sembra che nessuno si fosse mai accorto di quanto fossi brava a recitare. C’erano anche molte attrici che erano funzionali ai ruoli e andavano bene… ma tu avevi qualcosa in più. Strano che nessuno lo notasse.
Perché non volevano notarlo, perché serviva un’altra cosa. Ce ne erano altre… poi, anche allora, vigeva la tipologia fisica. Se era una signora o se era bionda, era francese. Io, in tutte le cose mie che ho rivisto mi trovo sempre molto decente, molto dignitosa e addirittura, al mio esordio, noto certe cose sorprendenti: tipo la scena con Tino Carraro nel mio primo film, dove piango, ho dei momenti di verità, sono tenera. E comunque il pubblico non sbaglia mai, non sbaglia mai! Perché io in mezzo a tante che eravamo?… Perché c’era quella verità, quella cosa che ti ho detto, non solo nel senso dell’oltraggio, che tutto sommato consentivo che mi venisse fatto, ma c’era anche una mia purezza… Ero una ragazza che ha anche pagato moltissimo in termini di critiche nei suoi confronti, proprio perché ero curiosissima, ero molto viva, vivace, una ragazza di un periodo storico complesso, quindi difficilmente catalogabile: non ero nel movimento studentesco… e però non ero nemmeno quell’altro tipo di donna… Pensa che a proposito di Mia moglie è una strega, secondo me un’interpretazione deliziosa, parlò di me un giornale militante della sinistra e la critica apriva così: “Eleonora Giorgi che lustra i dobloni delle casse di Rizzoli continua a romperci le scatole con questi filmetti…” Ma capisci?! “Lucida i dobloni delle casse di Rizzoli?” . Cioè, non lo so… A chi facevo del male? Perché? Però io penso di essermelo anche attratta, perché, ripeto: inconsapevolmente, diventavo presuntuosa in questo mio eroismo di essere come ero.
Non abbiamo parlato di come sei entrata nel cinema? Quale è stato il primissimo aggancio… Tuo padre era dell’ambiente, no?
Sì, ma mio padre non mi ha fatto entrare… Mio padre era direttore di produzione in Rai, era produttore, ha prodotto anche per la Euro film… poi ha fatto l’organizzatore delle Piovra. Tra l’altro, il segretario di Germi gli consegna il copione di Amici miei che mio padre porta a Frizzi, monta lui. Poi fa l’organizzatore con Monicelli e lascia il film alla decima settimana di riprese. Anche mio padre era uno strano, uno che se ne va a 40 anni a fare la campagna biologica. Anche lui uno sperimentatore…
La mia carriera è iniziata in modo molto casuale, perché io non volevo fare l’attrice, altrimenti mi sarei rivolta al Centro Sperimentale, ma preparavo l’esame per l’ammissione all’Istituto Centrale Restauro. Alcune mie foto… facevo cose molto sfigate da modella, perché mi mantenevo, pur avendo 19 anni… perché la mia famiglia andava in pezzi, perché tante storie… arrivarono sul tavolo di Tonino Cervi che in quell’estate, inizio estate del 1973, cercava disperatamente una sostituta per quello che oggi si definirebbe un sequel. Un film che aveva prodotto due anni prima con una giovanissima Ornella Muti di cui voleva fare un seguito; ma Ornella Muti era occupata altrove, quindi cercava una sostituta. Era strano perché lui aveva provinato tutte le ventenni, diciottenni sul mercato in Italia, italiane e straniere, anche già professionalmente inserite piuttosto che ancora ignote. E però non era convinto. Mi propose di fare questo provino. Mi volle incontrare. Alla mia sfigata agenzia di modelle, perché era anche sfigata quella, mi dissero: «Senti, ti stanno cercando per un film»; e io: «Per cosa?»; «Per un film. Perché non vai all’appuntamento?». Siccome avevo visto tutti i Maigret, conoscevo Gino Cervi e mi piaceva molto, ero molto affezionata a quell’immagine come tutti gli italiani, ci andai. Tonino, suo figlio, era un uomo affascinantissimo. All’incontro andai tutta vestita strana, con un gran cappello di paglia, allora c’erano queste zeppe come ora… e lui dice: «Lo faresti un provino?»; E io: «Perché no!». Vado a fare quel provino, con tutti i fotografi… io non sapevo manco chi fossero… E c’è anche la sarta, con un bellissimo costume: «Sai che questo è un costume del film di Patroni Griffi Addio fratello crudele, quello di Charlotte Rampling», che era un mio culto assoluto. Ero molto contenta. Loro mi mettono questo vestito e non si chiudeva, in nessun modo, mancava tanto così. E quindi quando mi chiedono: «Cosa ricordi del primo provino…?», io mi ricordo di questo vestito che non si chiudeva… che era origine di una grande frustrazione per me, perché allora andavano di moda Twiggy, Veruschka… e io dicevo: «Perché non mi entra il vestito della Rampling?». Scherzo… però è vero, era così: io l’ho fatto per gioco, proprio per gioco, giocando. Primo giorno sul set al Safa Palatino, che per chi non lo sapesse era un teatro di posa fra le rovine romane, dietro al Colosseo, accanto a un parco, un posto meraviglioso. Avevano ricostruito questo convento del ‘600. Era una favola, a 18 anni e mezzo era come una favola nella favola… Lo scenografo mi porta a visitare il convento e mi dice: «Questa sarà la tua cella…». Un’altra interprete era Catherine Spaak, che mi ricordavo, mitica, qualche anno prima… e poi questi costumi del ‘600, meravigliosi, fatti da Tirelli. Sul set ero serissima, io sono mezza ungherese… educazione austriaca, tremenda. Questa è l’altra cosa che mi ha contraddistinto, una delle ragioni per cui anche gli imprenditori hanno puntato su di me, perché io ero una ragazza, come la Muti, serissima sul lavoro, sugli orari, sulle battute, sul mio compito. Mi ricordo che tutti mi insegnavano qualcosa, ero un po’ come la mascotte, mi dicevano: «Non muovere la testa, guarda lì…». Mi avevano fatto un punto dove guardare, per il mio primo primo piano… fu vero, autentico gioco. E poi, quando è finita, sono rimasta da cani, perché avevo fatto amicizia con tutti, era il 12 agosto. Da qui sono partita e al ritorno, alla dogana, ho visto le mie foto su quel giornale che ti ho detto…