Intervista Jess Franco
Zoom, astrazione e surrealismo: la vita e il cinema di Jess Franco attraverso le sue stesse parole. In una delle sue ultimissime interviste. (Parigi, 2012)
Come ha scoperto il cinema?
Ho scoperto il cinema quando ero ragazzo. Vedevo tre film di seguito, mangiando pipas, dei semi di girasole abbrustoliti. Alla fine della proiezione, tutto il pavimento della sala ne era coperto. Assistevo a programmazioni che mi hanno segnato per la vita: lo stesso giorno vidi la versione di Michael Curtiz di La maschera di cera (1933), questo formidabile film della Warner, Il sogno di una notte di mezza estate di William Dieterle e Max Reinhardt (1935) e Le belve della città di William Keighley (1936). Con mio fratello andavamo a vedere i film per i loro registi. Nessuno aveva ancora detto che Raoul Walsh era un regista degno di nota: la gente non lo sopportava. Hawks, Walsh, si sapeva chi fossero e si erano visti tutti i loro film usciti in Spagna.
A quell’epoca il cinema americano era talmente casto che i film non avevano problemi di censura e uscivano in Spagna senza tagli. Ed è sempre così che ho cominciato a conoscere il cinema Bis, perché c’era una sala vicino a casa mia dove avevo visto tutti i serial di William Whitney e John Anglish. Mysterious Doctor Satan era meraviglioso. Ho conosciuto soprattutto il cinema americano, perché quello europeo era pressoché bandito a causa della sua libertà. Non appena si vedeva Ginette Leclerc mostrare una coscia veniva tagliato e proibito. Non potete nemmeno immaginare che stronza di censura vi fosse. Il giorno in cui ho deciso fermamente che volevo fare cinema, ho capito che avrei dovuto abbandonare la Spagna, scappare via. Ho suonato la tromba, ero musicista di jazz professionista, ho fatto delle cose che non mi piaceva fare, galà sfigati o feste di matrimonio e altre stronzate del genere, per racimolare un po’ di soldi e pagarmi un biglietto del treno in terza classe per andare a Parigi. Mio padre non era d’accordo, così ho preparato di nascosto il mio passaporto e ho imitato la sua firma – avevo 19 anni e la maggiore età allora era a 21 anni. Quindi avevo il passaporto, del denaro per 15 giorni e ho ottenuto un piccolo lavoro all’Unesco. Dopo due settimane non avevo più soldi, ma sono rimasto a Parigi due anni e mezzo, guardando quasi tutti i film che volevo.
È in questo periodo che ha frequentato con assiduità la Cinematheque Francaise?
È per questo che ero venuto a Parigi. Quando avevo un po’ più di soldi andavo negli altri cinema, ma la Cinematheque era la mia base. Ho incontrato Henry Langlois che è stato estremamente gentile con me. Ho lasciato Parigi perché ho avuto la possibilità di entrare nel cinema professionale. Ho ottenuto un posto di ultimo assistente in un film Juan Antonio Bardem, Cómicos (1954). Sono stato ultimo assistente, terzo assistente, secondo assistente… Ho fatto molti film come primo assistente, poi ho cominciato a scrivere delle sceneggiature, a filmare delle inquadrature che il regista non voleva fare e infine sono passato alla regia di cortometraggi
Nel 1959 ha realizzato il suo primo lungometraggio Tenemos 18 años…
Un film massacrato dalla censura e quasi proibito.Erano molto intelligenti, i bastardi. Non vietavano i film, ma tagliavano le scene o lo bollavano come film di terza visione, cosa che impediva di farlo uscire nelle sale di prima visione. Il film era relegato nei cinema di quartiere. È un primo film molto molto folle, una sorte di trailer della mia opera futura. Visto che in quel momento io ero già nel mestiere, con un amico che era direttore di produzione di una società cinematografica super al verde, decidemmo di cominciare subito un nuovo film, Labios rojos (1970).
Aveva già l’ansia di non smettere mai di girare?
No, ancora no. D’altronde io non sono soltanto un fanatico del girare, amo nello stesso modo il montaggio, la sonorizzazione, cioè fare un film a partire dalla scrittura della storia, fino alla post-produzione. Ho molti amici che adorano girare, perché è spettacolare ma di contro si annoiano in sala di montaggio e trascurano il lavoro. Questo io non lo capisco, è al montaggio che si recupera il racconto e si dà il ritmo al film. Trovo che la cosa più importante sia ciò che succede nell’inquadratura, noi registi ci preoccupiamo troppo della dimensione pittorica del cinema, si arriva a volte a delle cose visive meravigliose ma l’essenziale è ciò che si mette in scena dentro l’inquadratura, il gioco degli attori, dare una veridicità all’interno dei miei film che non sono affatto realistici. Bisogna dare l’impressione che ciò che succede è vero, perché lo spettatore accetti le mie follie.
Di qui il suo interesse per i campi lunghi…
Sì, amo i campi lunghi se ho la possibilità di intercalare delle cose, con delle inquadrature di riserva per poter tagliare.
Come è nato il suo primo film horror, Il diabolico dottor Satana (1961)?
Avevo scritto la storia molto tempo prima.All’epoca scrivevo dei piccoli romanzi popolari, quelli che si leggono in metrò. Scrivevo circa un romanzo a settimana. Ho fatto questo film quasi per caso. Volevo adattare La ribellione degli impiccati di B. Traven, che adoravo, ma che era stato bloccato dalla censura quando era già in lavorazione. Siccome la produzione non poteva fermarsi è stato necessario trovare un’altra cosa. Avevo già avuto esperienza delle seccature della censura vissute dai miei colleghi come Bardem. Se la storia non si svolgeva in Spagna ma in un Paese dell’Europa centrale, loro se ne fottevano. Ho avuto l’idea, siccome adoravo da sempre l’espressionismo tedesco, di far vedere ai due produttori, francese e inglese, Le spose di Dracula di Terence Fisher, che aveva un grande successo al cinema. I produttori non vanno praticamente mai al cinema, vedono solo i film dei loro amici. Non conoscevano quindi niente del cinema di paura; hanno visto il film e hanno capito che funzionava commercialmente e quindi hanno accettato di produrre una cosa di questo tipo.
Nel film si percepisce nello stesso tempo l’influenza dell’espressionismo tedesco e del jazz. La storia è molto simile a quella di Occhi senza volto di Georges Franju…
Il film non era ancora uscito. È vero che le due storie si somigliano, l’idea doveva essere nell’aria. Occhi senza volto era un film magnifico. Il mio era più un film di circostanza, quello di Franju era più classico, meno nervoso. Ha attraversato il tempo.
Lei ha immaginato il suo film Le carte scoperte come una parodia di Alphaville di Godard?
No, perché amo molto Alphaville. Adoro Godard, trovo che sia un genio e Alphaville è un capolavoro anche oggi. Il signor Godard con le sue immagini e i suoi suoni è giunto a trasformare Orly in un altro pianeta. Però è vero che ho inserito nel film due o tre piccoli omaggi a Alphaville, che all’epoca era stato un disastro commerciale. Il produttore era contento che si scegliesse la strada di qualcosa di più leggero anziché partire nello stesso mondo di Alphaville. Ha avuto paura. Non volevo rifare Alphaville perché Godard ha un talento straordinario e non avevo voglia di fare la figura dello stronzo paragonato a lui. Non ammiro molte persone, ma quelle che ammiro, le ammiro al 100%. Non mi permetterei mai di tradirle.
Lei ha incontrato Orson Welles che le ha chiesto di dirigere la seconda unità di Falstaff (1965)?
Aveva visto a Parigi La muerte silba un blues (1964). È arrivato a Madrid e gli hanno proposto un regista per le seconda unità ma lui ha detto “No, io voglio un signore che si chiama Jesus Franco”. Il produttore spagnolo, artefice di due o tre scadenti film storici, mi detestava. Recentemente avevo avuto da discutere con un suo associato che era il coproduttore di uno dei miei film. Questo produttore ha innanzitutto voluto mostrare a Welles i propri film e Welles, assolutamente non interessato, fece interrompere la proiezione dopo qualche minuto.
Il produttore gli disse che aveva visto il mio miglior film e gli avrebbe mostrato il mio ultimo prodotto che era secondo lui una merda. Si trattava di La spia sulla città, con Jean Servais, che era proprio un omaggio a Orson Welles. Il povero produttore ovviamente non lo sapeva, non aveva visto Quarto potere e non riusciva nemmeno a pronunciarne il titolo correttamente. Il tempo di una bobina e Welles disse: “Chiama immediatamente questo tizio”. Aveva riconosciuto il suo mondo e ha pensato che sarei stato perfetto come assistente.
È vero che ha partecipato alle riprese della famosa scena della battaglia?
L’abbiamo girata in venti giorni, dappertutto in Spagna. Welles profittava del fatto che i soldati e i cavalli fossero lì per girare qualche inquadratura e quando aveva finito mi chiedeva di utilizzarli per la sequenza della battaglia. Talvolta convocava 200 soldati in armatura e voleva che girassi la scena al suo posto. Un giorno gli ho chiesto dove pensava di girare la battaglia e mi ha risposto: “Dappertutto, là dove saremo gireremo la battaglia”. Gli chiesi se questo poi si sarebbe raccordato e lui mi rassicurò: “Sì, c’è il fango, c’è il frastuono e c’è il sangue: è dappertutto uguale”. E in effetti è quello che caratterizza questa battaglia, così sordida e sinistra. Adesso il signor Spielberg si vanta di avere mostrato per primo gli orrori della guerra. Orson ha messo in scena una battaglia plumbea, triste. Amo molto la battaglia dell’Enrico V di Laurence Olivier ma è troppo bella! Merda, viene voglia di andarci. La battaglia di Welles è stata girata con moltissimi mezzi e cascatori, materiale folle, circa 7000 metri di film e naturalmente è lui che ha montato tutto. Orson non lasciava entrare nessuno nella sala di montaggio. Aveva sì dei montatori, ma erano esclusivamente autorizzati a raccogliere i pezzi di pellicola che erano caduti per terra.
All’inizio degli anni ’70 la sua carriera accelera, è l’esplosione del cinema erotico…
Avevo la possibilità di girare molto.Oggi sto ricominciando con quattro film all’anno. Ho incontrato un produttore newyorkese che è un fan dei miei film e che mi lascia fare ciò che voglio, purché non sfori il preventivo.
Nella sua opera c’è una forte influenza sadiana, con sequenze erotiche che sospendono il racconto…
Sono un musicista di jazz che fa dei film. Ho avuto la possibilità di parlare con Chet Baker. Può una morta rivivere per amore?deriva da una frase che lui mi disse un giorno “Si chiudono gli occhi, ci si lascia andare ed è tutto”. È meraviglioso quando finisce un assolo. Tutta la tua vita è passata lì dentro, hai attraversato dei mondi sconosciuti: apri gli occhi, sono passati appena due secondi ed è finito.
I suoi film calano in una dimensione ipnotica…
Questa dimensione corrisponde alla visione di un musicista di jazz, non di un cineasta. Lo so, è rischioso, ma non ci posso fare niente.
Ci ha parlato dell’esecuzione, ma che ne è del tema?
Ci sono le cose che amo e quelle che non amo. Non amo i film pedanti e detesto le commistioni e le commedie di costume. Non credo ai film con il messaggio, mi fanno cagare. Il cinema dev’essere uno spettacolo, ho sempre ammirato il cinema di avventura classico, ma costa caro. Quindi tra le cose che mi interessano era più facile realizzare dei thriller o dei film erotici, che adoro. Ho tentato a più riprese di fare dei film d’azione e d’avventura. Ho una lunga lista di progetti ispirati a Jules Verne che nessuno conosce.
L’erotismo dei suoi film è molto particolare…
Credo che l’erotismo debba essere surrealista, occorre mostrare delle immagini che corrispondano più al desiderio che alla realtà. Evidentemente sono stato costretto a dare un po’ di carne ai miei film nel momento in cui la pornografia è stata legalizzata un po’ ovunque in Europa. Se avevo dei film in lavorazione che non volevo interrompere ero obbligato ad aggiungere delle scene porno. Questo mi scocciava, perché non è né bello né cinematografico, si direbbero dei film “medici”.
I suoi film sono una mescolanza di arte popolare e cinema sperimentale underground…
È volontario. Quando si lavora con produttori tradizionali, vogliono sempre delle spiegazioni. Io non trovo necessario spiegare che un uomo si trasforma in un licantropo perché c’è la luna piena o perché è mezzanotte: non c’è niente da capire, non si può spiegare Dracula a ogni film, è là una volta per tutte, pieno di violenza. Spiegare è una perdita di tempo e una stronzata.
Il suo cinema è stato accusato di essere una operazione di distruzione dei miti fantastici…
I miti e i personaggi fantastici che io rispetto nella mia vita privata li rispetto anche nei film, gli altri… Il lupo mannaro, per esempio, non lo prendo sul serio, lo trovo invece divertente, soprattutto nei film di Erle C. Kenton o in quelli di Abbot e Costello. È un personaggio comico ma nei suoi confronti non nutro né disprezzo né odio. Ho un grandissimo rispetto per Bram Stoker, contrariamente a Coppola che l’ha tradito. Si dice che io abbia tradito Bram Stoker perché non ho rispettato alcuni piccoli dettagli e mi sono permesso dei piccoli scherzi, ma amo Dracula, è un personaggio straordinario, uno dei più potenti della letteratura e considero il romanzo un capolavoro.
Le hanno pure contestato l’abuso dello zoom che noi invece troviamo molto interessante…
Ho cominciato a usare lo zoom quando sono diventato operatore di me stesso. All’inizio lavoravo con un operatore, ma era impossibile spiegargli quello che volevo fare, non andava abbastanza velocemente verso il viso di un attore, Howard Vernon per esempio, nell’istante in cui aveva un espressione geniale. Questi momenti sono dei miracoli e vanno vampirizzati con la macchina da presa ed è per questo che ho cominciato a usare lo zoom; ma in principio non era per questo, mi permetteva di montare i primi piani senza cambiare obiettivo, che è una perdita di tempo. Ma in sala di montaggio ho cominciato a pensare che lo zoom potesse far sentire meglio alcune cose e permettere di far evolvere la narrazione, modificare i centri di interesse dentro l’inquadratura. Nelle scene erotiche lo zoom ha piuttosto un valore derealizzante, sì, rende le cose più astratte. Suggerire è meglio che mostrare.