La notte dei dannati

Quando ella ebbe succhiato tutto il midollo dalle mie ossa, e io languidamente mi voltai verso di lei per restituirle un bacio d’amore, non vidi che un’otre dai fianchi vischiosi, pieni di putredine...

Con il cambio del decennio, dai Sessanta i Settanta, i resti o per meglio dire i cascami dell’antico gotico italiano entrano in quella fase che altrove definii “fiammeggiante”, a voler indicare un momento che era nello stesso tempo di declino e di sublimazione o dilatazione di taluni elementi costitutivi del genere. Con una suggestiva equivalenza (e tutte le virgolette del caso) con quelle che erano state le sorti di altro gotico, nel campo dell’architettura medievale. La notte dei dannati di Maria Filippo Ratti (dettosi in cinema Filippo Walter Ratti, “Pippo” per gli amici, e spessissimo camuffato sotto lo pseudo Peter Rush) è forse il primo fulgido esempio di gotico flamboyant, nato da un parto quasi gemellare con il precedente impegno di Ratti, che era stato Erika: primariamente un erotico con suggestioni crepuscolari non indifferenti (e bel film, tra le altre cose), laddove La notte dei dannati è un horror, di base, che fiammeggia di fuochi erotici rilevanti. Non la stessa cosa, e difatti la fragranza finale è differente, ma che si tratti di pellicole che manovrano in zone limitrofe è assolutamente chiaro. Erano maturati entrambi, del resto, in seno alla stessa produzione, la Primax Film legalmente rappresentata da Primo Miraglia, e a ribadire l’omologia insiste anche il fatto che i due interpreti principali fossero gli stessi: Pierre Brice e Patrizia Viotti, molto validi sia l’una sia l’altro. Anche lo sceneggiatore era il medesimo, Aldo Marcovecchio, altrimenti e principalmente noto come illustre studioso e curatore delle pubblicazioni di Umberto Saba e Carlo Levi (che nel 1963 lo omaggiò anche di un bel ritratto a china), e l’impronta colta, pur all’interno di una produzione di consumo, è sensibile, come negli altri impegni nel cinema che Marcovecchio praticò per qualche stagione all’inizio degli anni Settanta (rimando a Byleth – Il demone dell’incesto).

Pierre Brice, Patrizia Viotti

I titoli di testa della Notte dei dannati iniziano a scorrere da un’immagine di Patrizia Viotti nuda accucciata ai piedi di un grosso albero, composta come se si trattasse di un dipinto. I riferimenti a opere d’arte nel film abbondano: insistentemente, ricorre la riproduzione di un’incisione a stampa – di Jan Luyken (1649-1712) – che ossessionerà la Viotti, riproducente l’esecuzione di un’anabattista olandese, Anneken Hendriks, originaria della provincia olandese della Frisia, marchiata come eretica e condannata a morte (la sua bocca fu riempita di polvere da sparo e, legata a una scala, fu gettata su un letto di carboni ardenti). Anche un dipinto di Bruegel è enfatizzato tra gli arredi del castello in cui gran parte della storia si svolge. La Viotti e Brice sono introdotti mentre lei, Danielle, legge un articolo di Le Figaro a lui, suo marito, Jean Duprey, che siede fumando la pipa e sfogliando un fumetto: Duprey è un giornalista, esperto nel risolvere gialli e il pezzo del giornale fa appunto riferimento alla soluzione di un caso Blanchard (con telefonata del ministro degli interni che si complimenta, a seguire). Ma arriva anche una missiva per Jean: scritta da un suo vecchio amico, Guillaume de Saint Lambert, uomo melanconico, gran violinista, ipocondriaco ed esperto di rebus ed enigmi, la lettera contiene una criptica richiesta di aiuto: Marcovecchio ci infila, tra le righe, una citazione da Baudelaire, dal Canto d’autunno: “La tombe attend; elle est avide! Et pourtant aimez-moi, tendre coeur!” (“La tomba attende avidamente. Ma tu amami, tenero cuore!”. Le capacità intuitivo-deduttive di Jean hanno subito modo di esplicarsi: sulla base della data della lettera (2 – 4 settembre 1970), egli rinviene in un volume di Les Fleurs du mal che Guillaume gli aveva regalato, un’altra inquietante citazione: “Quando ella ebbe succhiato tutto il midollo dalle mie ossa, e io languidamente mi voltai verso di lei per restituirle un bacio d’amore, non vidi che un’otre dai fianchi vischiosi, pieni di putredine (“Quand elle eut de mes os sucé toute la moelle, Et que languissamment je me tournai vers elle Pour lui rendre un baiser d’amour, je ne vis plus Qu’une outre aux flancs gluants, toute pleine de pus!”). Che i versi siano desunti dall’ LXXXVII° dei Fiori del Male, La metamorphose du vampire, e che il loro contenuto anticipi praticamente già tutto quello cui assisteremo nella storia, nessuno degli spettatori poteva capirlo, ma di fatto Marcovecchio sviluppò la trama del film a partire da questo pugno di parole.

Angela De Leo, Mario Carra

Tanto basta, comunque, perché i coniugi Duprey si mettano in viaggio alla volta del castello di Guillaume: saremmo in Francia ma nella realtà si girò tra esterni viterbesi e interni alla Elios. Giunti alla rocca (a Ceri), Jean e Danielle incontrano, nell’ordine, la giovane governante dei de Saint Lambert (Daniela D’Agostino) e Rita, moglie di Guillaume: la interpreta con sinistra compostezza e sospetta statuarietà Angela De Leo, una procace mora avellinese che aveva esordito diciottenne nel cinema con Buckaroo (Il winchester che non perdona) e aveva poi lavorato col gruppo di Paul e Ninki Maslansky. La si sarebbe vista anche in Roma di Fellini. Guillaume è molto malato, premette Rita ai suoi ospiti, prima di lasciare che Jean lo incontri: soffre di una patologia ignota che lo sta erodendo come un cancro. Questa è la prima sequenza in cui, mentre la De Leo parla, seduta con accanto Brice e la Viotti, l’elemento fuoco entra nella narrazione, tramite le fiamme del camino che ardono alle sue spalle, nella scenografia dell’interno del castello ben curata da Elio Belletti. Quando Jean finalmente incontra l’amico, che passa il tempo suonando il violino forsennatamente, benché la pratica peggiori le sue condizioni fisiche e mentali, trova un uomo sconvolto e provato. Mario Carra (del quale si sa poco perché probabilmente c’è poco da sapere: a parte questo film fece solo un altro paio di cose) calca molto e male l’angoscia di questo Guillaume, che parla a monosillabi e per enigmi, facendo fosco riferimento a una maledizione che da secoli perseguita la linea maschile dei de Saint Lambert e che ora ha colpito lui. Questo prima di abbattersi vittima di una sorta di attacco epilettico e prima che Rita e un medico, certo Berry (Alessandro Tedeschi), se ne prendano cura iniettandogli un farmaco. Ratti usa la fotografia di Girolamo La Rosa a illuminare costantemente i personaggi dal basso, per enfatizzarne la spettralità e il senso della minaccia: vecchio escamotage dei gotici italiani, questo, ma funziona.

Patrizia Viotti, Angela De Leo

Il primo dunque al quale si giunge (Jean nel frattempo, sull’onda del suo sesto senso, ha telefonato a un amico a Parigi, sospettando di Berry, che infatti non risulta iscritto all’ordine dei medici; e Danielle, nella stanza in cui dormono, comincia ad essere allucinata da un quadro che riproduce la stampa di Luyken, tant’è che quella notte sogna di essere lei stessa la vittima legata a una scala e gettata su una fascina di legna ardente), è la morte di Guillaume, che aveva avuto la forza di abboccarsi di nuovo con l’amico, accennandogli a una “porta della salvezza”, che ancora non aveva trovato, affidandogli un anello con un’ametista e indirizzandolo ai testi della biblioteca del castello. Il suo cadavere viene tumulato nei sotterranei, con un trasporto operato da personaggi incappucciati. A questo punto, entra l’attacco, rapido, in soggettiva, a una ragazza bionda e nuda (Laetitia Lehir, assente ai generici), nella stanza di un luogo imprecisato. È una notte di tregenda, tra lampi, vento, tendoni che svolazzano e uccelli impagliati che, al castello, si mettono a sbattere le ali, mentre Rita, in abito nero lungo, si aggira sugli spalti, in una figurazione che ci tornerà in mente vedendo Rosalba Neri troneggiante in quel di Balsorano nel Plenilunio delle vergini. Con salto scioccante, veniamo sbalzati in un bosco dove un commissario di polizia (Antonio Pavan, il quale nelle proprie memorie, riandando con la mente al set, si domandava se avesse partecipato “a un film dell’orrore o a un orrore di film”), insieme a Brice sta esaminando il cadavere rinvenuto della bionda, privo di sangue e sul cui petto sono scavati dei solchi. Noi sappiamo il perché, grazie a una sequenza “forte” cui abbiamo appena assistito: in un luogo alieno, pervaso da una nebbia bassa, Rita è assisa in un enorme trono, con lo schienale a foggia di drago o demone. Un individuo indefinito, con mantello, deposita la bionda nuda aggredita su un tavolo, che altre quattro ancelle trasportano vicino alla De Leo, la quale con unghie affilate la graffia sui seni. Queste scene onirico/erotiche furono girate anche in forma più audace, come gran parte delle altre presenti d’ora in avanti nella storia. E questo lo constatiamo grazie alla french version del film, dove le estensioni sexy-spinte filmate da Ratti sul set in Italia fanno la parte del leone. Qui, ai piedi di Angela De Leo in trono, nella versione per l’estero si agita una fanciulla con pube in vista (Anna Ardizzone, che viene adombrato si stia masturbando), mentre altre due donne si piegano sulla vittima distesa (forse la Lehir, forse un doppio, non è chiaro) per palparla e leccarla.

Laetitia Lehir, Anna Ardizzone

Il commissario informa Jean che la vittima era una cugina di Guillaume e, cosa inspiegabile, abitava a Strasburgo, a centinaia di chilometri da dove è stata ritrovata. Duprey, sfidato dall’enigma, comincia a mettere il naso tra i tomi della biblioteca ed è qui che prima di imbattersi in un volume di magia nera, sottolineato e annotato da Guillaume, adocchia una riproduzione del Trionfo della Morte di Bruegel il vecchio. Più prosaicamente, si sono avviate le grandi manovre di Rita verso Danielle, poiché era inevitabile una collisione saffica tra le due: la De Leo ha cominciato col metterle le mani sui seni, carezzandola in poltrona, senza alcuna reazione della mesmerizzata Viotti. Poi, preda degli incubi innescati dalla stampa di Lyken ove le lingue di fiamma Danielle le vede ora come fuoco reale, quando la ragazza si sveglia nel panico, senza che il marito riesca a quietarla, Rita entra nella loro camera e prende a massaggiarle le tempie. Finiamo così di nuovo nell’Altrove in cui Rita è assisa in trono: da un fumogeno rossastro si materializza la figura di una donna nuda, in piedi e in stato catatonico: è Danielle, ma la scena si sviluppa riproponendo parte del girato del precedente stacco visionario: quattro ragazze conducono sulla portantina una vittima presso Rita e costei la graffia sul petto. Una ulteriore vittima, una mora (inidentificata) che il commissario e i suoi uomini hanno ritrovato in una camera d’albergo. I francesi corroborarono montando sequenze più spinte delle due figuranti intente a titillare e a leccare la bionda distesa (l’idea è che una le pratichi un cunnilingus portandola all’orgasmo), attinte sempre dal “corredo” della prima sequenza. Fin qui, lo notiamo, il materiale aggiuntivo erotico pare tutta farina del sacco italiano, realizzato da Ratti alla fonte.

Angela De Leo, Patrizia Viotti

La nuova vittima, “svuotata di tutto il sangue” non ha nome, ma quando – anche Duprey è stato chiamato sul posto dal commissario – viene rinvenuto vicino al cadavere un piccolo monile da collo, si scopre trattarsi della sorella della precedente vittima, lei pure una de Saint Lambert. Lo sceneggiatore inserisce un altro dettaglio colto, che non avrebbe altrimenti alcuna ragione di essere, ma lui evidentemente ce lo ficcò per il puro gusto di farlo. Jean aveva chiesto ragione a Rita del perché il medico che curava Guillaume, Berry, non risultasse nell’albo e gli era stato risposto che dovevano usare questo nome perché Guillaume, nella sua follia, si era convinto che solo un dottore, Berry appunto, che aveva assistito un suo antenato, potesse guarirlo. Non è detto, nel film, quale sia il vero nome di costui, non in scena almeno, ma Jean lo sa e chiama un suo amico a Parigi per controllare: Jean Basiac. Il suo interlocutore, però, si fa una risata e gli dice che per contattare quel medico, dovrebbe ricorrere a un medium, trattandosi di un illustre clinico di cui parla Jean Jacques Rousseau nelle sue Confessioni. Il nome, però, in Rousseau non c’è e pare strano che si fallisca una citazione così ricercata. Viene persino da pensare che il nome sia stato male pronunciato nel doppiaggio italiano, ma la controprova della french version non aiuta, dal momento che il cut d’Oltralpe elimina tutta la seconda parte della telefonata di Brice; e del resto, molti altri passaggi sono stati accorciati o cassati, secondo un modo di procedere abituale, nel montaggio francese.

Angela De Leo, attrice ignota

Quando Jean torma da Danielle e le mostra le fotografie delle due vittime, lei è presa da una vertigine, come se le avesse già viste – dice –, forse in un sogno (che incolla con la sua presenza evocata durante la cerimonia dell’uccisione della seconda ragazza). La sequenza erotica più spinta e insistita del film, o meglio, quella realizzata con maggiore accuratezza, ha luogo a questo punto: la Viotti, parallelamente al compagno che in biblioteca torna a sprofondare dentro i testi occulti di Guillaume, aggirandosi per il castello è spinta a recarsi attraverso un passaggio segreto che si apre nella parete, fino a una stanza da letto, si sdraia e viene raggiunta da Rita, che la spoglia, si spoglia e comincia a fare l’amore con lei. Frammentata in tre lunghi blocchi, alternati a Brice che fuma la pipa compitando i testi arcani, impegna attivamente la De Leo, tra leccate e spostamenti con la bocca anche nelle zone basse della partner, mentre la Viotti, che sta sotto, è in attitudine passiva. Subentra anche la cameriera, ma solo per accendere alcune candele (non avevamo detto che per volontà di Guillaume, al castello erano stati interdetti l’uso dell’energia elettrica e la linea telefonica). Va da sé che l’integralità della sequenza è restituita solo nel montaggio francese, mentre la copia italiana si ferma dopo che Rita si è limitata a spogliare Danielle. Raggiunta la Viotti che dorme nella loro camera, Jean le rivela di essere riuscito a trovare qualcosa di utile: una vecchia pergamena che rendiconta del processo avvenuto nel Seicento contro una strega, Tarin Drôle, condannata e arsa viva e le cui ceneri sono state nascoste in un luogo segreto. Forse Guillaume non era pazzo, dunque, forse qualcosa di realmente minaccioso esisteva ed esiste, tanto più che il giudice che agì contro la malefica era un de Saint Lambert.

Angela De Leo, Patrizia Viotti

A far quadrare il cerchio dell’enigma – non che serva, perché che Rita sia la strega in questione è ovvio – c’è questo curioso nome, anzi soprannome “Naso strano”, Tarin essendo termine dell’argot francese per indicare il naso, di cui Rita Lernôd (così si chiama per esteso il personaggio della De Leo) è l’anagramma. Perché marito e moglie a questo punto si dividano, lui andando per i circondari alla ricerca di qualcosa, lei rimanendo nel castello, non è chiarissimo, a meno di non avere in mente quel che Guillaume aveva detto all’amico, ovvero che esisteva una “porta” che nascondeva l’unica cosa che lo avrebbe potuto salvare. E Brice tra l’intricata vegetazione notturna (nel cielo di sfondo si vedono piovere delle luci, che forse furono effetto voluto, forse erano sedimenti di fuochi d’artificio nei paraggi), piomba alla fine dentro una galleria scavata nel sottosuolo, in una nicchia della quale rinviene un’urna cineraria, con i resti della strega bruciata. Non è affatto male, la lunga scena dentro questo budello, che corre persino il rischio di far pensare male di Garibaldi, cioè che Argento possa essersi ricordato di questo film e di questo passaggio architettando Suspiria. Danielle, frattanto, sottrattasi a Rita che le voleva offrire un bicchiere di vino con dentro una fiamma, raminga e urlante per il castello ha a che fare con lo spettro, o meglio lo zombi di Guillaume, del quale avevamo già veduto dettagli del viso semiputrefatto e che post-mortem deve essere diventato uno dei famigli della strega (la figura in mantello nero che ha riportato le due vittime all’olocausto ora capiamo che era lui). Sviene, la Viotti, in preparazione del gran finale ove è condotta, nuda, nell’andito fumoso, con addosso e intorno il mezzo plotone di fanciulle in libidine che sono la coorte di Rita in trono.

Anna Ardizzone, Angela De Leo

E qui subentra, nella versione francese, il cui montaggio venne curato da Jacques Michau (quello italiano era di Rolando Salvatori), tutta la panoplia del corredo osé: Danielle ha addosso le solite due figuranti slinguazzanti, mentre Anna Ardizzone e altre ragazze si spingono in là sempre nei lesbismi, ma, nel baccanale, appare anche un maschio (ma senza dettagli avec penetration). Difficile stabilire se i francesi possano avere aggiunto anche del proprio, ma parrebbe di sì: un cunnilingus tra due donne, con titillamento dei capezzoli e rovesciamento del tutto in un 69, dal contesto e dalla maggiore audacia del resto, ha l’aria di essere del girato non originale. Ma sono scene arronzate, sommarie, fatte all’impronta muovendo la macchina a mano tra gli orgiasti e comunque restano le più audaci che abbiano coinvolto Patrizia Viotti nella sua carriera, per quanto ci è dato conoscere. Manca ancora il colpo di scena in extremis, che si verifica con l’irruzione in scena di Brice, proprio mentre la strega si accinge a graffiare Danielle: l’urna con le sue ceneri è gettata su un braciere, e dopo la vampa, Tarin Drôle accusa il colpo torna a sedersi e inizia quella metamorfosi da giovane piacente a vecchia e putrida megera (il trucco trasformazionale della strega fu a cura di Rino Carboni, indicato con enfasi nei titoli di testa), che butterebbe ulteriore benzina sul fuoco del sospetto (per Suspiria intendasi), se non si trattasse di materiale favolistico tradizionale da Biancaneve in giù. I nostri scappano fuoriuscendo dal budello, che metteva capo alle radici di una quercia: la Viotti è nuda, accucciata come nell’immagine iniziale dei titoli di testa, che anche se non è stata ispirata da qualche dipinto classico (e non parrebbe), riesce a dare la fortissima impressione di esserlo stata. La coda leggera, a casa di Jean e Danielle, non è male: la donna ha in mano una lettera, appena recapitata, per Duprey, che reca impresso uno stemma nobiliare. Senza mostrarla, lei gli chiede se ha per caso qualche altro vecchio amico aristocratico e quando Brice le risponde che sì, c’era, in particolare, un suo sodale che aveva ricchi possedimenti in Transilvania, Danielle brucia la lettera nel posacenere. Fine.

Patrizia Viotti, Pierre Brice

La notte dei dannati battè il ciak inziale il 16 novembre del 1970, con il titolo provvisorio Il castello dei Saint Lambert (il nome della casata, però, è de Saint Lambert, nella storia), arrivando in censura il 19 agosto dell’anno successivo, nullaostato vm 18 dopo un taglio nella sequenza del lesbismo tra la De Leo e la Viotti, con prima proiezione pubblica il 10 settembre al cinema Carmen di Grumo Nevano (Napoli) – per le complesse traversie censorie, rimando a quanto altrove pubblicato sul sito.  Al CNC, l’uscita francese è registrata come Sex bonbons, il 23 aprile del 1975. Per quanto si sia cercato di riassumerlo puntigliosamente, tanti sarebbero ancora i dettagli menzionabili, a cominciare dall’anello di ametista (una pietra che si credeva in grado di annientare il potere stregonesco), che nasconde un cartiglio su cui Jean decifra certe indicazioni per arrivare fino all’urna con le ceneri della strega. La nostra conclusione è che si tratti del miglior film di Ratti, dopo Erika, appunto per la sua natura fiammeggiante e sospesa tra la retorica e gli stilemi del vecchio gotico (anche le musiche, di riciclo in gran parte, di Carlo Savina, guardano all’indietro) e la magia sexualis della nuova era erotica che si era aperta con il volgere del decennio. Anche se questo giudizio implica che si abbiano sotto gli occhi sia il montaggio italiano sia quello francese, che presi singolarmente convincono meno, troppo morigerato e tirato per le lunghe il primo, troppo accorciato a favore delle cochonneries il secondo.