La piccola cineteca degli orrori
La nuova rubrica di Nocturno dedicata alle più indecenti opere del grande e piccolo schermo
“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi!” Cosa abbiano davvero rimirato i glaciali occhioni di Rutgher Haure alias Roy Batty bagnati dalla pioggia poco prima di rendere l’anima a Dio nessuno lo potrà mai sapere. Sta di fatto che, quasi sicuramente, nel corso della sua replicante vita, qualche filma brutto brutto ma davvero brutto gli sarà pur capitato tra le iridi. Ed è appunto per saziare questi masochistici appetiti oculari che, con grande orgoglio, inauguriamo La piccola cineteca degli orrori, una rubrica mensile che prende il nome dal fondamentale manuale curato da Manlio Gomarasca e Davide Pulici, dedicato alla scoperta e riscoperta di alcune delle più indecenti opere cinematografiche che grande e piccolo schermo abbiano mai avuto la sfortuna di ospitare. Obbrobri che, in altro luogo e in altro mondo, non avrebbero alcun senso né occasione di essere anche solo nominati, figuriamoci ricordati. Ma attenzione: niente prodottini targati Asylum, perché a noi il trash appositamente preconfezionato non interessa affatto. E nemmeno caserecce ingenuità alla Ed Wood, perché, se alla base vi sono cuore e onestà, l’indignazione lascia subito il posto alla simpatia. Da grandi fan di Tommy Weseau e del suo mitico The Room, ciò che cerchiamo invece è l’autentica bruttura, quella genuina, inconsapevole e, meglio ancora, involontaria. Perché, se è vero che i filmacci sono come i funghi, che per uno che ne scogli altri dieci ne spuntano, allora ogni mese basterà solo aprire il cestino e darsi alla pazza mietitura.
RITORNO ALLE ACQUE MALEDETTE (Christian McIntire, 2001)
Ogni tanto sarebbe buona cosa sedersi, prendere un bel respiro e domandarsi: ho davvero trovato il mio posto nella vita? Quello giusto, s’intende. Una domanda che, quasi sicuramente, il buon Christian McIntire non si sarà mai preso la briga di porsi. Altrimenti non avrebbe nemmeno osato poggiare un centimetro del proprio deretano su di una sedia di regia. Ok, non è proprio il massimo parlar male degli assenti, specie di coloro che, quasi sicuramente, non avranno mai occasione di leggere ciò che di male hai scritto sul loro conto. Tuttavia, considerando il nostro un servizio di pubblica utilità, ci sentiamo in dovere di mettere in guardia l’umanità intera da questo nefasto stupratore della macchina da presa, nato professionalmente come tecnico di effetti davvero poco speciali e in seguito capitombolato dietro l’obiettivo per regalarci indicibili obbrobri di celluloide come Anticorps (2002), Phantom Force e, non meno celebre, il fetentissimo Warnings (2003). Ma le disgrazie non appaiono mai così dal nulla, e anche per il Nostro tutto ha avuto il suo (in)glorioso inizio. Precisamente nel lontano 2000, quando la loschissima UFO (Unidentified Film Organization), desiderosa più che mai di accomiatarsi dal Millennio in bruttezza assoluta dopo i preamboli squisitamente indecenti di Epoch e Shark Hunter, decise di tentare il tutto e per tutto imbastendo in fretta e furia una sceneggiatura che mescolasse due temi ad alto tasso di inflazione come il Triangolo delle Bermuda e navi maledette cariche di fantasmi. Dopo essersi dati sonore pacche sulle spalle, complimentandosi vicendevolmente per l’originale pensata, i capoccia della compagnia iniziarono dunque a domandarsi a chi poter affidare la penna e la manovella dell’intera operazione. Ed ecco che, per insondabili forze del destino, il caro McIntire si trovò trascinato di peso all’interno di questa bislacca avventura, già pensata per un direct-to-video di quelli col botto.
Il nostro novello regista, trovandosi non poco spaesato, con l’aiuto di Patrick Phillips iniziò a scopiazzare in fretta e furia un po’ dovunque, prendendo un briciolo di Sfera (1998), mescolandolo con un tocco di Virus (1999) e gettandoci nel mezzo pure qualche goccia di Fog (1980), frullando tutto assieme e partorendo, nel caldo maggio del 2000, lo script di Lost Voyage, sul quale, neanche a farlo apposta, subito si addensarono oscure nuvole di discordia. Si perché, se la sceneggiatura – così come poi la pellicola – appare indubbiamente di scarsissimo valore, è bene ricordare come essa sia stata al centro di un ancora irrisolto mistero, il quale ebbe origine nel momento in cui, all’incirca nel mese di novembre dello stesso anno, la Warner Bros. in persona registrò il copyright di quella che sarebbe divenuta Ghost Ship, horrorino di egual infimo ordine, forse di qualche tacca più vicino alla decenza, che, tuttavia, dopo la sua uscita non poté nascondere numerose e inquietanti analogie con le pagine targate UFO. Chi ha rubato da chi? Non che ce ne importi un fico secco o maturo, s’intende. Ciò nonostante è bello notare come, anche dietro le sozzure a volte si possono celare appetitosi aneddoti. Tornando a noi, tra una cosa e l’altra McIntire e la sua ciurma portarono a casa la loro creatura senza particolari intoppi, ma ancor prima che i piccoli schermi dello Zio Sam avessero il privilegio di dar spazio a tal indecente monnezza filmica, con un colpaccio degno del miglior scippatore di periferia, la Eagle Pictures vomitò dritto dritto in Italia, nel luglio del 2002, il primo paccone di DVD di quello che, di li in avanti, sarebbe stato distribuito come Ritorno alle acque maledette. Per chi, dopo questo ampio ma necessario preambolo, stesse ancora fremendo d’impazienza, la storia è presto detta: il ricercatore Aaron Roberts (Judd Nelson), i cui genitori sono scomparsi venticinque anni addietro assieme al transatlantico Corona Queen sul quale erano imbarcarti, ha ora la straordinaria opportunità di investigare, assieme a sette disperati, il fantasmatico relitto, improvvisamente ricomparso senza la ben che minima traccia di anima viva.
Il gruppetto, composto da ricercatori capitanati dalla Dana Elway del fu Carnosaur (1996) e da loschi mercenari guidati dal sempre tosto Lance Henriksen, si inoltrerà nelle viscere della desolata barchetta, risvegliando tutto il pot-pourri di demoniache presenze che hanno preso possesso del timone di comando. Senza far mistero di aver ben più di qualche debito nei confronti dell’onesto Triangle, uscito giusto nel 2001 mentre McIntire e compagnia erano ancora intenti a scorrazzare per i pontili del loro set, Ritorno alle acque maledette è il classico esempio di film nel quale, a guardar bene in ogni anfratto, nulla ma proprio nulla funziona come dovrebbe. Se infatti la prima fondamentale apparizione sovrannaturale nello studio del nostro protagonista mostra già in sé i germi della pietà e della desolazione, quando si passa alle inquadrature dell’approdo sulla famigerata nave, che paiono la brutta cutscene di un Overboard per Playstation 1, allora sì che ci si rende conto di che brutta aria sta tirando. Nel mezzo di una penosissima recitazione generale, frutto di un cast prezzolato al minimo sindacale e pertanto svogliato come una classe di scuola media l’ultimo giorno prima delle vacanze estive, si muovono poltergeist e babau ai quali non si può che chiedere pietà, non tanto per vedere salva la vita quanto piuttosto perché si tolgano dalle scatole. Il tutto fino a quando, proprio nella catartica sequenza conclusiva, l’apoteosi di sozzura assoluta viene raggiunta attraverso la bislacca messa in scena di uno stormo di anime trapassate e svolazzanti che paiono un imbarazzante plotone di piccoli Casper, la cui resa digitale non può che apparire passibile di denuncia penale anche per un anno ancora pionieristico come il 2002. Ma le parole servono davvero a poco in questo caso. Piuttosto occorre che ciascuno si faccia il proprio bravo esamino di coscienza e si domandi: voglio davvero consegnare novantacinque preziosi minuti della mia altrettanto preziosa vita ad imprimere indelebilmente nel mio cervello questa catodica bestemmia? Non serve assolutamente specificare che, per chi come noi ama davvero farsi del male degustando lo zozzo vero, la risposta non può che essere assolutamente affermativa.