La piccola cineteca degli orrori

Continua la rassegna del bizzarro con il film L'invasione degli ultratopi
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Cosa mai si potrebbe dire o fare dinnanzi a una cosa del genere? Assolutamente nulla, se non alzare le mani e arrendersi, senza sé e senza ma, all’assoluto potere del genio. Si perché di fottutissimo genio si tratta! Se non altro almeno quello dei distributori italiani, così incoscienti e fuori di cotenna da aver anche solo pensato di mandare in giro per mari e per monti una robaccia già di per sé passabile di cinematografica scomunica con un titolo altrettanto impudente come L’invasione degli ultratopi, facendo maldestramente il verso al grande capolavoro sci-fi di Don Siegel di cui questo abominio non vale nemmeno l’incarnita unghia del piede. Se infatti l’originale The Rats Are Coming! The Werewolves Are Here! era già di per sé tutto un programma, l’improbabile e surrealistico titolone tricolore riesce ancor meglio a render conto fino in fondo della laidissima arietta viziata che pervade ogni pertugio e ogni anfratto di questo ignobile progetto filmico da profonda zona retrocessione, nato già scult e rimasto tale e quale per i secoli e secoli a venire. Consacrato al folto e marcissimo sottobosco degli amanti delle zozzure di celluloide grazie a una leggendaria VHS targata Midnight di metà anni ‘80, questo fetentissimo esempio di stupro audiovisivo risale in realtà al 1969, anno cruciale per la disastrata ma indubbiamente affascinante carriera di uno dei più sbarellati e incapaci cinematografari che l’umana storia ricordi. Personaggio maledetto tanto nella vita quanto dietro la macchina da presa, Andy Milligan risulta un nome imprescindibile per i veri intenditori del cinema di serie ultra Z, caduto sotto l’implacabile falce dell’HIV a poco più di sessant’anni dopo un’esistenza che definire problematica appare decisamente un eufemismo, lasciandoci in eredità un eterogeneo curriculum di oltre trenta titoli per lo più andati misteriosamente perduti, rigorosamente realizzati in piena filosofia naif e con budget che raramente superavano il costo di un sandwich di cipolle nel baracchino sotto casa. Per il buon Andy, salutato come una vera sorpresa dall’ambiente underground americano grazie all’esordio indipendenstissimo di Vapors (1965), i tempi hanno iniziato ad essere duri praticamente da subito, poiché, nel suo caso specifico, passione e talento apparivano quanto mai due grandezze inversamente proporzionali. Sta di fatto che il nostro, all’indomani del glorioso sbarco sulla luna, si trova come sempre a corto di risorse, di talento e soprattutto di credibilità, potendo contare solo sulla propria sconfinata passione per la Settima Arte. Ed è appunto grazie a questa inesauribile quanto pericolosa passione che L’invasione degli ultratopi ha potuto vedere la luce, una balzanissima idea che, in un altro universo parallelo più coerente con sé stesso, non avrebbe  mai avuto senso né possibilità di esistere.

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Rifugiatosi in quel della piovosa Inghilterra per dar corpo a una masnada di film a bassissimo costo – e di altrettanto basso livello – prodotti sotto l’egida dell’amico di merende William Mishkin e della sua spartana William Mishkin Pictures – Milligan è mosso dall’impellente necessità di realizzare una storia in costume ambientata, Dio denaro piacendo, in pieno goticissimo Ottocento, nella quale l’unica irremovibile parola d’ordine pare essere, per ora, “lupi mannari”. E non è che si inizi proprio col piede giusto, se si tiene conto del puzzo inconfondibilmente amatoriale che gravita sull’intero progetto e, cosa più importante, una sceneggiatura infarcita di logorroici dialoghi da telenovela brasiliana, questi ultimi autentica e inconfondibile cifra stilistica dell’intero corpus milliganiano. Ma poco importa, poiché di buona volontà ve ne è in gran quantità, e questo basta al buon Andy e alla sua scalcinata cricca di fedelissimi per dare il via a questa rocambolesca avventura filmica, impiegando neanche un mese per portare a casa poco più di un’ora scarsa di girato, nella quale si racconta, per sommi capi, la sconclusionata storia della famigerata famiglia Mooney e della licantropica maledizione che da secoli la tiene sotto scacco. Ed è proprio a questa malfamata progenie esotericamente baciata dalla luna che la bella Diana appartiene e alla quale decide di fare ritorno, dopo essersela spassata durante gli studi universitari di medicina in terra scozzese tanto da aver sposato, così su due piedi, il suo più intimo compagno di corso. Il clima che si respira al ritorno della figliol prodiga e del di lei consorte è però tutt’altro che amorevole, con l’ultracentenario patriarca “Pa” (Douglas Phair) incavolato come una biscia per il colpo di testa della giovane erede e una nutrita schiera di fratelli e sorelle degni di un reparto psichiatrico a fare da contorno, tra cui spiccano la sadica Monica (Hope Stansbury), l’arrendevole Phoebe (Joan Ogden), il rampante Mortimer (Noel Collins) e, ultimo ma non meno importante, il caro Malcom (Berwick Kaller, o  almeno quello che se ne intravede) dalla lunga peluria e dall’ululato sempre pronto. Insomma, un’autentica gabbia di matti nella quale i novelli sposi si trovano catapultati, costretti a fare i conti con lupesche mutazioni pronte a colpire a tradimento per una notte al mese, a meno che una qualche miracolosa cura non venga al più presto scovata per salvare in extremis capra, cavoli e animalacci assortiti. Basterebbe la sola sequenza di apertura a dare il polso della sconcissima situazione, con una delirante lotta all’ultimo sangue fra i fratelli “sani” e il loro bestiale consanguineo nel mezzo di un giardino letteralmente innaffiato da una nebbia di oscura provenienza, spruzzata nell’inquadratura da quello che potrebbe essere tanto un idrante quanto un eccesso di tabagismo della svogliata crew. Sorvolando a grandi falcate sulle deprimenti performance recitative, la narrazione arranca affannosamente attraverso un susseguirsi di loffie sequenze tenute maldestramente assieme con sputo e colla vinilica, fino a raggiungere l’estrema apoteosi in una sconclusionata e ormai cultissima scena di mozzata di mano a suon di mannaia, narrativamente inutile quanto un cavatappi in mezzo al deserto e orchestrata attraverso uno dei montaggi più orripilanti della storia dell’umanità.

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Ma giunti sin qui, tutti voi cari lettori vi starete ponendo la medesima struggente domanda: ultra o meno che siano, dove diamine stanno ‘sti maledetti topi? Per rispondere al summenzionato quesito è tuttavia necessario fare un salto all’ultimo ciak battuto da Milligan sul finire del 1969, quando venne richiamato all’ordine dal fido Mishkin affinché ci si sforzasse almeno di abbattere la soglia dei sessanta minuti di durata, pena l’arenarsi dell’intera baracca a data da destinarsi. Stiracchia di qua e stiracchia di là, aggiungendo qualche ulteriore strampalato dialogo e un’ulteriore manciata di interminabili inquadrature dallo stucchevolissimo gusto teatrale, ecco che, come per magia, si riesce a portare faticosamente a casa una più che decorosa oretta e venti. Ma non è ancora abbastanza. Il fino e ben allenato intuito del nostro Andy suggerisce che manca ancora qualcosa. Ma per l’amor di Dio, che cosa?! E fu così che una sera del 1971, mentre il nostro se ne sta bello pacifico in uno scalcinato cinema della periferia di New York a gustarsi il nuovissimo Willard e i topi del ben più noto e dotato collega Daniel Mann, la rivelazione si palesa come un fulmine a ciel sereno. Correndo fuori dalla sala a perdifiato e brancato il primo telefono a portata di mano, Milligan chiama in fretta e furia il suo amico e produttore di fiducia, probabilmente svegliandolo nel cuore della notte per comunicarli che il loro tanto sofferto progetto incompiuto può finalmente smettere di prendere polvere. Tuttavia, interrotti i contatti con i membri del vecchio cast ad eccezione della sciroccata Joan Ogden e non avendo i fondi necessari per una nuova traversata dell’Atlantico, il folle cineasta decide su due piedi di ripiegare su alcuni scalcinati teatri di posa in quel di Staten Island, dove allestire il set necessario a dar corpo alle geniali scene con cui aggiungere ben otto minuti al già delirante girato. Ma quale sarà mai la fantastica svolta narrativa attraverso la quale il nostro maestro del trash involontario avrà scovato il modo di ingestare, con proverbiale nonchalance, i fantomatici rattacci all’interno di tutta questa filmica baraonda? Beh, per coloro che bramassero scoprire l’arcano, non possiamo che sadicamente invitare con calore a visionare la suddetta pellicola, almeno per rendersi conto quanto in basso la cinematografica umanità abbia avuto modo di sdrucciolare senza la ben che minima ombra di pudore.