L’ALDIQUÀ – Wolf Man, la belva è dentro
Verifiche sull’horror di oggi. Una rubrica di Emanuele Di Nicola
La nuova versione dell’uomo lupo, Wolf Man di Leigh Whannell, sottovalutato in sala, funziona bene come pretesto per sondare un sistema di pensiero nell’horror di oggi. Per reinstallare l’archetipo nel presente, infatti, il regista costruisce un tipo di licantropo finora inedito che ci suggerisce qualcosa sullo spirito del tempo. Il protagonista Blake, raccogliendo l’oscura eredità di un “padre lupo” scomparso nei boschi dell’Oregon, si reca in loco con la sua famiglia (moglie in crisi e figlia) e inaugura la sua graduale metamorfosi ferina. Diventa lupo, insomma. Ma il punto dirimente sta tutto nel come: chiamando la licantropia sickness, malattia, Christopher Abbott affronta la trasformazione più “lenta” nella Storia del cinema. Nel senso che il cuore del film è la sua stessa metamorfosi, estremamente graduale, che solo in ultima istanza si mostra come immagine completa e totale. Prima l’uomo sembra affetto da una sorta di influenza, perde un dente, vede spuntare pochi peli, cambia leggermente i sensi, irruvidisce il tessuto della pelle…
Mai nei vari wolfmen del cinema la dinamica fu così progressiva: da Lon Chaney Jr. in poi, l’uomo si trasforma in lupo in una sequenza metamorfica che ha un inizio, uno svolgimento e una fine. Il percorso di Blake-Abbott invece occupa oltre un’ora di film, intavolando un confronto coi suoi cari e soprattutto con la figlia piccola: fino a quando l’uomo è riconoscibile, a che punto diventa lupo? Fino a quale momento si può comunicare col proprio padre prima di arrendersi alla sua natura bestiale? L’altro segno distintivo, in questo Wolf Man, è che il licantropo non torna più indietro: viene smentita la consueta alternanza uomo – lupo che è carattere fondativo del mito, perché stavolta la creatura si mantiene sempre nella forma di empio ibrido. In bilico, su un terreno liminare, Blake non si “umanizza” più e non torna se stesso, neanche per un momento. Il congegno assomiglia più a un virus movie, un contagion applicato al lupo, che a un puro e semplice licantropico.
La trasformazione perenne, il dolente confronto famigliare, la malattia genetica che è dentro di noi ed è pronta a uscire, con cui prima o poi bisogna fare i conti. Tutti questi indizi avvicinano l’idea che pervade Wolf Man all’ormai nota battuta rivelatoria di Lily-Rose Depp nel Nosferatu di Eggers: “Does Evil come from within us or from beyond?”. Il Male nasce dentro di noi o viene dall’aldilà? La risposta è chiara, ulteriormente ribadita anche dall’uomo lupo che la contiene perfino nella linea di sangue: il Male è dentro di noi. Ecco allora che i primi due horror importanti al cinema nel 2025 sostengono lo stesso pensiero. Si opera quindi un rovesciamento di significato nelle immagini orrorifiche americane, rispetto all’esperienza del post-Undici Settembre: a quel tempo prosperava un nuovo home invasion, come The Strangers di Bryan Bertino, ovvero il film sugli sconosciuti che ti entrano in casa per ucciderti. Ieri il Male era fuori: l’ignoto, il folle, il terrorista all’assalto dello spazio domestico. Oggi il Male è tornato al nostro interno. Così per il lupo mannaro di Whannell si può ribaltare la tagline del licantropo anni Novanta col corpo di Jack Nicholson: Wolf, la belva è dentro.
LE PUNTATE PRECEDENTI
#1 L’ELEVATED HORROR DOPO NOSFERATU