Lara Balbo: raccontare dei mondi
Un'artista a più livelli, attrice e autrice
Nasce come ballerina, scoprendo poi la vocazione dell’attrice, in cinema, televisione e teatro, dove è anche autrice. Lara Balbo: raccontare dei mondi è la sua missione… Ha un ruolo pregnante nel noir Il Diavolo è Dragan Cygan ora in uscita e a teatro si accinge a riportare in scena Finché mela non ci separi, un suo testo ispirato ad un’opera di Mark Twain…
Il Diavolo è Dragan Cygan è un ottimo film, che si distingue anche per il grande lavoro fatto sui personaggi. Partirei proprio da questo: dal ruolo di Evelyn, dal tuo personaggio…
Io e Emiliano Locatelli, il regista, ci conosciamo in realtà da molti anni perché, paradossalmente, abbiamo frequentato la stessa scuola, la ACT Multimedia: io studiavo recitazione e lui studiava regia. Però non ci eravamo conosciuti in maniera approfonditaa. Nel 2022, Emiliano mi ha contattato, dicendomi che stava organizzando Il Diavolo è Dragan Cygan e che aveva pensato a un ruolo per me. Mi ha inviato la sceneggiatura, l’ho letta e mi è piaciuta moltissimo. Mi è piaciuto moltissimo il ruolo proposto, appunto Evelyn. E quindi ho detto “sì, va bene, lo faccio!”, perché avevo colto il tentativo di sperimentare veramente qualcosa di diverso e particolare nel panorama cinematografico italiano. Ho pensato: “Questo regista ha un grande coraggio!”. E quando percepisco il coraggio, non sono altro che felice di essere parte di un progetto. Perché, noi che “facciamo l’arte” abbiamo anche un po’ il dovere di rischiare, quando percepiamo che esiste la “necessità”. E in questa sceneggiatura si sentiva proprio la necessità di raccontare qualcosa di importante. C’è qualcosa di “oscuro”, lì dentro, nel Diavolo è Dragan Cygan, che andava raccontato… e che andava raccontato esattamente come ha fatto Emiliano.
Quindi, Evelyn è stato scritto su di te?
Non so se pensasse proprio a me, in fase di scrittura. Aveva probabilmente in testa un certo tipo di attrice. Che avesse visto delle cose che avevo fatto, questo sì. Ho sempre affrontato dei personaggi diciamo “ambigui”. Avevo, per esempio, lavorato in una serie, La strada di casa, seconda stagione, dove interpretavo un personaggio, Emma, che era una tossicodipendente con gravi problemi di debiti. Era una figura che esprimeva fragilità, la difficoltà a stare nella vita, e questo torna anche in Evelyn. Emiliano mi disse che mi aveva visto nel ruolo di Emma e probabilmente si era convinto che potessi raccontare bene quel mondo. Perché questo siamo chiamati a fare, in fin dei conti, come attori: a raccontare dei mondi, che possano calzare con i personaggi scritti.
Che tipo di rapporto hai avuto con il regista, sul set? Ti chi ha lasciato un margine di movimento, di azione e di creazione per questa figura di Evelyn?
Emiliano ha una grande qualità, dal mio punto di vista, che è quella di fidarsi degli attori che sceglie. E non è una qualità che hanno tutti, perché – e mi è capitato – ci sono registi che scelgono degli attori ma poi sembra quasi che non si fidino di loro. Emiliano si fida, quindi, se ha scelto te, è perché tu puoi restituire esattamente quello che lui vuole nel personaggio che ha scritto. Quando si lavora così, con condivisione e con apertura, è sempre molto stimolante. Nella riscrittura del personaggio, mi ha dato la possibilità di aggiustare delle sfaccettature di Evelyn. Ne abbiamo parlato molto, insieme. Noi attori facciamo corpo delle parole scritte nel copione e molte volte sentiamo che ci sono azioni, frasi, atteggiamenti che magari non aderiscono perfettamente a quello che potremmo portare al personaggio. E quindi, avere la possibilità di aggiustare, sistemare e magari di scoprire anche nuove sfaccettature e sfumature, che prima non erano state colte, è stimolante. Per noi attrici donne, e lo dico proprio da un punto di vista femminile, è bellissimo confrontarsi con personaggi non canonici: ti mette nelle condizioni di fare un lavoro profondo. Quelle difficoltà, quelle fragilità di Evelyn, io, come Lara Balbo, magari non le conosco direttamente, perché sono distanti da me, ma è proprio questa la sfida più bella.
Come si entra in un personaggio come Evelyn? Hai appena detto che esiste una distanza tra te e un tipo di donna come lei. Qual è il tuo metodo di approccio?
Quando devo interpretare un personaggio molto distante da me, cerco intanto di andare a studiare, a conoscerne il mondo. Nel caso di Evelyn, parliamo della figlia di un ricco imprenditore, tossicodipendente e prostituta. Quindi, mi documento, con video, con libri, sull’ambiente in cui la vicenda è collocata. Però, soprattutto, la cosa che più mi interessa è individuare, nella sceneggiatura e nel racconto di quel personaggio, qual è il suo punto debole. Mi serve agganciarmi alla sua difficoltà, alla sua fragilità, a livello emotivo. È come se entrassi in empatia, in qualche modo. Non so dirti bene qual è il processo effettivo per cui questo avviene. Però è una cosa che sento, nel corpo, nella pelle…
Il tuo rapporto, diciamo “privilegiato”, nel film è con Assante, interpretato da Sebastiano Somma, che è questo padre abbastanza “repellente” come individuo per come viene descritto. Però, in qualche modo, nella parte finale c’è una specie di riscatto da parte sua: si rende conto, diventa consapevole del disagio della figlia e di quanto lui ne sia responsabile. Che è un punto essenziale…
Sebastiano è un attore di grandissima generosità. Generoso, nel senso che sa stare con te e lavora insieme a te per raggiungere il miglior risultato. Ed è una persona di un’educazione estrema, di una estrema gentilezza. Mi ha aiutato tantissimo e, da attrice molto più giovane di lui, ascoltavo qualsiasi suo consiglio, perché era preziosissimo. Quando ci siamo accorti che stavamo lavorando un po’ allo stesso modo, sui personaggi di Evelyn e di Assante, abbiamo creato questo rapporto padre-figlia, che è molto conflittuale, ma poi, insieme, analizzandolo, abbiamo capito che quello che dovevamo raccontare era, appunto, una difficoltà in cui molti padri e molte figlie si trovano. Diciamo che è stata un’esperienza bellissima lavorare con lui, perché mi ha arricchito, non solo come attrice, ma come persona. Sebastiano lo porto nel cuore, veramente.
Alla fine, Il Diavolo è Dragan Cygan è un film che lascia un margine di speranza o è un film che delinea un mondo dal quale vie di fuga non esistono? Un mondo sommerso, dominato dalla cupezza… Il film è molto cupo, ma questo lo dico in senso positivo, dal mio punto di vista…
Racconta una realtà. È un film che non edulcora niente. Quindi, secondo me, è necessario appunto per questo motivo, perché mette lo spettatore nelle condizioni di capire dinamiche che esistono veramente e da cui, purtroppo, non si scappa, non si fugge. È un film che ha coraggio, anche il coraggio di essere così oscuro… Ci siamo stancati un po’ tutti del lieto fine… È chiaro che la speranza è sempre l’ultima a morire, nella vita. Credo che ogni spettatore, probabilmente, ci potrà trovare una luce. Ci sono dei margini di luce, secondo me. Forse, alcuni dei personaggi si salvano, in qualche modo, altri no.
Tu hai iniziato fondamentalmente con la danza, il tuo percorso è cominciato come ballerina. Com’è che poi la cosa si è evoluta con il passaggio alla recitazione? Lara Balbo si è poi mossa e si muove su vari fronti: cinema, tv, teatro molto, anche come autrice e non solo come interprete...
Io devo fare tante cose nella vita. Fin da bambina, ho avuto una necessità, un istinto creativo che mi ha portato ad approfondire tante cose di questo mondo. Sono partita con la danza perché, venendo da una città molto piccola, Urbana, in provincia di Padova, questo offriva il mio paese: un corso di danza. Avevo questo fuoco dello spettacolo dentro, avevo bisogno di fare. Ero molto piccola, avevo dieci anni.
Tu non provieni da una famiglia di artisti, o sbaglio?
No, anzi: io sono un po’ la pecora nera della famiglia (ride). I miei sono imprenditori. Mio padre è diventato anche insegnante di fisica. È una famiglia di insegnanti, la mia, ho una sorella che è pure lei insegnante. Ti posso dire che, comunque, a casa mi hanno sempre trasmesso l’amore per la bellezza. Mia madre ha un’indole molto creativa. Però, in famiglia non c’è nessuno che abbia fatto il ballerino, l’attore o il cantante. Comunque, fu mia madre a indirizzarmi a quel corso di danza. All’inizio non volevo andarci, per timidezza: perché io ero, e sono ancora, molto timida. Non volevo partecipare, mi vergognavo. E quindi, con un po’ di forzature, mia madre mi ci ha portato. Oggi, le devo dire grazie. Quindi, ho cominciato così, semplicemente, perché era questo che offriva Urbana. Ma ho capito che la danza mi nutriva tantissimo e ho continuato a farla, fino alla quinta liceo. Dopodiché, ho cominciato anche a studiare canto, sono andata a Milano per studiare musical e nel percorso di studi di Milano, piano piano, ho raggiunto la consapevolezza che forse la mia strada doveva essere più direzionata verso la recitazione. È stata una scoperta graduale, quella della recitazione, in realtà. Capito questo, mi sono trasferita a Roma e ho intrapreso in maniera più definitiva lo studio della recitazione e ho cominciato a lavorare fondamentalmente come attrice. Però, la danza, oltre alla disciplina mi ha dato veramente un’impostazione del lavoro di palcoscenico. È stata una grandissima scuola. L’anno scorso, mi è stato proposto di fare un musical, un desiderio che mi portavo dietro da quando avevo diciotto anni, ma non era mai successo. Mi è stato proposto Pippi Calzelunghe, il musical con la supervisione artistica di Gigi Proietti: abbiamo fatto tournée tutto quest’anno ed è stato bello riprendere in mano, a 35 anni, danza, canto, tutte quelle cose che da bambina mi affascinavano molto e che ho studiato. Non era più capitato negli anni e invece la vita a volte ti riserva delle sorprese che non ti aspetti.
Un po’ come una quadratura del cerchio, insomma…
Sì, è come se avessi messo un punto a questa cosa che avevo cominciato e poi la vita mi ha portato per altre strade che, in realtà, ho cercato io, perché mi sono concentrata sulla recitazione. Ho fatto tanto teatro. Ho studiato con Alvaro Piccardi, un grande maestro del teatro italiano.
E veniamo, appunto, anche allo spettacolo che porti in scena in teatro, Finché mela non ci separi, e che è, tra l’altro, un testo tuo: una storia su Adamo ed Eva…
Sì, Finché morte non ci separi aveva già debuttato nel 2021. Questa è la terza ripresa che facciamo, perché abbiamo avuto un grande riscontro nel pubblico. Essendo una mia creatura, è una cosa che mi dà molta soddisfazione. È liberamente ispirato al Diario di Adamo ed Eva di Mark Twain, che è un testo esilarante. L’avevo letto tantissimi anni fa e mi ero detta che, prima o poi, dovevo fare qualcosa tratta da questo testo. Piano piano, nel tempo, ho cominciato a buttare giù delle idee, però non capitava l’occasione. Fino a che qualche anno fa, quando ho avuto l’opportunità di riadattarlo teatralmente, quindi diciamo che, a questo punto, lo spettacolo è soltanto “liberamente ispirato”, perché è sì un adattamento ma con un’evoluzione rispetto alla storia che propone Mark Twain. Ho incontrato le persone giuste, perché questo lavoro è fatto di incontri… Ma, soprattutto, credo molto nell’energia che si concentra in certi incontri. Avevo questo progetto nel cuore, ed è capitato che stessi, in quel momento, con due persone che erano giustissime per dare vita alla mia idea: Matteo Milani e Francesco Mastroianni, all’epoca, perché nello spettacolo attuale abbiamo un altro attore al posto suo. Parlandone con loro e avendo l’opportunità di portarlo in scena, era arrivato il momento di scriverlo, e quindi l’ho scritto. Parliamo di Adamo ed Eva, sì – e c’è anche un “dio”, dentro questo spettacolo – ma parliamo di un uomo e una donna che cercano di superare le crisi di una relazione d’amore. Mi piace sempre citare una frase di Mark Twain: “L’amore non è un idillio, ma una piacevole conquista”. Siamo un po’ troppo abituati, oggi, a buttare via le cose che si rompono, senza provare ad aggiustarle, e questo lo facciamo anche con le relazioni. Quando c’è una crepa, anziché provare a capire se si può rimediare, si tende a cambiare. Siamo in un’era che ci porta a questo ed è triste, dal mio punto di vista, non fare dei tentativi per risolvere una crisi. Noi raccontiamo proprio questo nello spettacolo, come due persone riescono ad andare avanti nonostante le grandi difficoltà che la vita ti mette di fronte. È un inno a questo tipo di amore, un po’ antico, se vogliamo dire così. Sì, quel tipo di amore che legava i nostri nonni che stavano insieme tutta la vita. Poi è chiaro che quando le cose finiscono, finiscono. Però, stare lì un po’ e provarci… perché no?
Questa è una domanda di rito abbastanza banale: l’esperienza del teatro rispetto all’esperienza del set del cinema. Al di là del fatto che il teatro presuppone un rapporto immediato. Al cinema fai qualcosa che poi altri vedranno, ma non hai di fronte gli spettatori…
Sono due facce della stessa medaglia, dal mio punto di vista: si parla sempre di recitare, di fare il lavoro dell’attore. Ma le “grandezze” sono diverse. A teatro, deve essere tutto un pochino più grande per poter essere colto anche da chi è molto lontano da te. Al cinema, invece, è tutto concentrato, soprattutto negli occhi, per cui si va “in sottrazione”, come diciamo in gergo attoriale. Il teatro è vivo, è molto più vivo rispetto al cinema: perché? Perché sei lì, sopra al palcoscenico. Ci sono delle persone davanti a te che, vuoi o non vuoi, influenzano sempre la tua resa. Sono persone vive che hanno un’energia, un respiro e che partecipano o non partecipano a quello che tu porti. E quindi è un lavoro di condivisione, in realtà, tra me, tra noi, e il pubblico: non si può prescindere da questo. E lo si sente, nel bene e nel male. E quindi, paradossalmente, il teatro mette molta più paura e agitazione rispetto al cinema. Perché viene tutto messo in discussione, lì, in quel momento. E se da attore non senti il pubblico, non stai facendo l’attore, dal mio punto di vista, stai facendo qualcos’altro. Per cui, è un lavoro di condivisione, perché alla fine la cosa più bella che può capitare è quando il pubblico capisce e riesce a vivere davvero anche un processo catartico, rispetto a quello che tu porti in scena: vuol dire che l’obiettivo è stato raggiunto.
Parliamo del tuo percorso nel cinema: hai lavorato anche con Alessandro D’Alatri, nel suo ultimo film, The Startup, del 2017…
Sì, io avevo un ruolo piccolo lì, ma è stata un’esperienza incredibile, perché D’Alatri era un regista che anche nei piccoli ruoli ti metteva nelle condizioni di recitare come in un grande ruolo. Lui dava importanza veramente a tutto, infatti poi la qualità si vede. La differenza c’è quando un regista, anche nei piccoli ruoli, ha cura degli attori. Io interpretavo l’assistente del ministro, in una scena molto, molto bella. Il mio debutto cinematografico è stato nel 2015, con Massimiliano Bruno, in Gli ultimi saranno ultimi, a fianco di Paola Cortellesi. C’erano anche Alessandro Gassman, Fabrizio Bentivoglio, Stefano Fresi, Gassman. Interpretavo Matilde, una ragazza che rubava il lavoro a Luciana, cioè al personaggio di Paola Cortellesi. Fu un grande debutto per me, perché non avevo mai fatto niente al cinema e trovarmi a fianco di un’attrice come la Cortellesi…
Ti è piaciuto il suo film, lo hai visto C’è ancora domani?
Mi è piaciuto tantissimo, credo che lì ci sia tutta l’intelligenza di questa donna. È stata bravissima, secondo me, ad aver fatto il suo primo film così. Quando sono arrivata alla fine, sono rimasta completamente sconvolta e sorpresa. E quando un film riesce a fare questo effetto, vuol dire che è un film potentissimo. Cioè, quando un film ti porta in una direzione, ti fa capire delle cose e poi alla fine ti sconvolge, ti spiazza, secondo me è grande, è potente. La storia che racconta, del ruolo delle donne, è assolutamente universale e lei lo racconta con la leggerezza di cui è padrona nella comicità, nell’ironia e con l’intelligenza di una donna che tratta l’argomento in un modo non banale. Quindi l’ho trovato davvero bellissimo.
Adesso dal 12 di marzo Il Diavolo è Dragan Cygan comincerà il suo percorso distributivo. Poi c’è la ripresa del tuo spettacolo a teatro…
Sì, Finché mela non ci separi, dal 19 al 23 marzo sarà in scena al Tor Bella Monaca, a Roma. L’intenzione è quella di portarlo in giro il più possibile e ci sono già delle opportunità, che però non dico perché attendo ancora conferme. E poi sto lavorando in collettivo con due mie colleghe, Giulia Fiume e Francesca Bellucci, con cui stiamo attualmente in scena con uno spettacolo: A cosa serve essere belli dentro se poi non ci entra nessuno. Però ne abbiamo scritto un altro. Quindi diciamo che sta prendendo sempre più forma la mia vena autorale. E mi piace moltissimo, perché era qualcosa che io non pensavo di poter fare mai, cioè di scrivere, e invece piano piano mi sto affacciando anche a questo, che mi dà tante possibilità. Ma, soprattutto, mi piace. Diciamo che sono in perenne movimento, che non so se sia proprio sempre una qualità, eh, perché a volte dovrei fermare un po’ la mia testa, ma… quello non ho ancora imparato a farlo (ride).
Com’è la situazione attuale? In generale parliamo del cinema, ma più globalmente dello spettacolo in Italia, anche della televisione, perché tu hai fatto anche televisione. C’è molta concorrenza?
C’è moltissima concorrenza. Siamo tantissimi. Mi sento di dire una cosa che forse creerà dei pareri discordanti tra chi leggerà questa intervista: ci sono troppe scuole di cinema e teatro che non valgono. Mi dispiace, ma è così. E questo crea confusione. Se ci sono molte scuole, è chiaro che ci sono più possibilità per tante più persone che vogliono fare questo lavoro, che è così affascinante, e lo è, ma che sembra anche così facile e che lo possano fare tutti. E sembra che lo si possa fare anche in modo molto semplice. In realtà, non è così. Perché bisogna studiare tanto, per fare questo mestiere. Tantissimo, bisogna studiare. Molte scuole, invece, non preparano adeguatamente, semplicemente perché non sono scuole valide, non hanno docenti validi e danno una formazione molto scarsa. Passa così il messaggio che basta poco per diventare attori. Probabilmente basta poco, in alcuni casi, per diventare famosi, ma non basta poco per diventare attori. È questa la differenza. C’è una grande confusione nel nostro Paese rispetto a questo. È una cosa che mi accende molto e mi dà molto, molto fastidio, quindi lo dico con grande veemenza, perché è giusto che lo si dica. Quindi tutte queste scuole io le raderei al suolo: mi creerò dei nemici, ma non mi interessa.
Beh, diciamo però, Lara, che c’è anche un’altro fatto abbastanza negativo di cui mi parlano molti: l’attore, o meglio, il personaggio, che viene reclutato solo sulla base della sua popolarità social…
Sì, e torniamo al discorso dell’essere troppo facilmente famosi in questo momento storico in Italia. Le produzioni, anche molte produzioni teatrali, hanno paura di rischiare, prendendo attori bravi che però non sono conosciuti a livello di social, a livello popolare. E questo è un problema! Perché, a me attrice, rende schiava del fatto che io debba assolutamente trovare il modo di diventare popolare tra i social, che è una capacità che io non ho, perché non ho studiato per fare questo. Io ho studiato per fare l’attrice!
Ma anche nel teatro succede la stessa cosa, dunque?
Certo, ovviamente. Diverse produzioni teatrali chiamano degli influencer, che magari sono anche attori o attrici, perché possono portare pubblico. Sai bene che a teatro è sempre un pochino più complicato portare pubblico, rispetto al cinema. Nella mia esperienza, riuscire a portare in scena un mio testo con attori che non fossero conosciuti per pura fama social, e trovare una produzione che rischiasse, è stato complicatissimo: ci ho messo tre anni. Se io fossi stata, che so, una influencer o avessi avuto un riscontro di followers, non avrei avuto queste difficoltà, ne sono certa…