Maxxxine. Il porno, l’horror, la donna
Focus sul film di Ti West che chiude la trilogia, in sala dal 28 agosto
Ho sempre pensato che “tre su tre” si traduca nell’inglese TREA-SU-RE, treasure, ovvero tesoro o malloppo (a seconda di quanto la tua coscienza te lo permetta…). Ti West propone di superarsi e sollecita non solo lo scibile supremo, ma anche le sue capacità, non solo filosofiche (ammirabili… per un americano, di questi tempi), ma anche registiche, conoscitive e intellettuali. Passi fare un film come X e poi superarsi con Pearl… Volerlo fare in trilogia sarebbe stato raggiungere il Valhalla della cinematografia, e in questo caso, di una cinematografia di genere, per noi ancora più significativa.
La dinamica dell’intreccio cinematografico, della scoperta del corpo femminile, della conferma liberatoria del corpo, appunto femminile, attraverso un genere cinematografico come la pornografia “chic” anni Settanta e dopo, ahimè, da VHS anni Ottanta, che ha creato la donna moderna, nell’essenza imperfetta di un personaggio imperfetto come Maxine/Pearl, concretizzato nella corporatura di Mia Goth (una patata mai compagna, si dice, dalle mie parti). Per poi “memorabiliarla” attraverso l’horror (quello crudo) e ciò che ha significato l’horror di matrice femminile e “femminicidibile” negli anni Settanta e Ottanta… beh, egregio. Tutto bellissimo e riuscitissimo, ma Maxxxine ha delle deficienze che rendono la trilogia “umana”.
L’incipit della vicenda vede una giovane Maxine, filmata e diretta dal padre predicatore (Simon Prast) – in fuori campo di un filmatino amatoriale – ballare, esattamente come Pearl nel provino che la distruggerà. La vicenda, poi, si sposta sul provino vittorioso, invece, di Maxine (come lo è stata lei su Pearl) che convince e illumina la regista Elisabeth Bender (un’ottima Elizabeth Debicki), la quale la vuole come nuova “scream queen” nel sequel Puritan II per trasformarlo nel “film di serie B con idee di serie A”… una della tante memorabili citazioni del personaggio. A conferma che il folk horror ritual genre movie, osannato dalla Gran Bretagna “homemade”, peraltro, merita di essere citato e capito.
Ci troviamo in una Los Angeles; 1985, dove il personaggio naviga con disinvoltura (anche produttiva: grandissima la A24) tra due backlots di studios quali la Warner e la Universal e ancora una Mulholland Dr. che solo Tarantino recentemente è riuscito a ricostruire in maniera digeribile… il tutto condito di porno, videocassette, Mercedes decapottabili, il lato oscuro della Hollywood Blvd (in culo a Pretty Woman), il Chinese theatre, agenti in tuta di ciniglia viola su cyclette dorate, detective che si improvvisano attori e un serial killer.
Maxine, già super star del porno, dice di voler essere la nuova Brooke Shields (che si è spogliata ed è diventata una star senza darla via) e rinnega Marylin Chambers, cocainomane e guerriera quanto lei. Si intende che ne è uscita illesa (solo legalmente e non psicologicamente) dal massacro texano e sfoggia ancora una spocchia regale. Ha dei colori diversi; è abbronzata, bionda, sciorina ombretti e couture colorati, patinati. Pare che Ti West voglia, anche in questi dettagli, citare le cinematografie underground americane rifacendosi a come Paul Morrissey “ricolora” Joe Dallesandro nella sua trilogia; Flesh, Trash e Heat… fascia e pallore newyorkese prima; abbronzatura e riflessi californiani poi.
E di citazioni cinematografiche di genere, West ne usa abbastanza, troppe, a mio avviso, rendendole spesso inefficaci e fini a sé stesse. Dal naso fasciato di Kevin Bacon alla Chinatown, alla corsa sul set di Psycho e Ritorno al futuro, fino al trucco di Maxine simil Pris di Blade Runner. Quando poi si riferisce al sangue del peggior film Hammer che alla regista non piace, mi sento quasi offesa, perché non esiste alcun film Hammer che sia il peggiore di nulla. Lo perdono, tuttavia, quando sceglie come film o meglio, genere da citare, il sermone impositivo di una società che ti giudica per quello che non sei. Si investe sul sequel… Puritan II. E noi tutti ci sentiamo ancora in dovere di dover chiedere perdono nel momento solenne, come il detective Labat (Kevin Bacon), lurido personaggio che recita sermoni poco prima di trovarsi le budella in bocca. Il tutto orchestrato dell’agente di Maxine (un Giancarlo Esposito sempre in ottima forma)… una delle sequenze più elegantemente espresse a livello di gore cinematografico.
La matrice di tutti e tre i film è decisamente coerente e ancora, purtroppo esistente e persistente. Un bigottismo statunitense ereditato da un codice Hayes che non ha saputo interpretare la lungimiranza della settima arte e che ha trasformato la propria gioventù e le proprie ragazzine in puttane rispettabili; perché conservano l’imene ma hanno il culo sfondato. E Maxine ne è una rappresentante esemplare, figa e assoluta. Lei distrugge la vecchia Hollywood frantumando (letteralmente) i coglioni a Buster Keaton e si sporca le mani di sangue senza rancore per far parte di quello showbusiness che ti permette di citare come cita Berlin “there is no business like showbusiness” (non esiste business come lo spettacolo).
La concretezza e fiducia di Maxine viene messa in discussione solo dalla regista (bionda quanto lei) e con due palle forse il doppio di lei (meriterebbe fare una trilogia su di lei!). La introduce a un mondo che le consiglia non solo di conquistare ma di domare; cito: “Do you want a bit of free advice? Look around you. You’ve made it to the belly of the beast, congratulations, very few come this far. To stay here, you must make it your obsession. Eliminate all other distractions, because if you take your eye off that prize for even a moment, the beast will spit you right back out where you came from. May never get a taste for you again.” – (Vuoi un consiglio gratuito? Guardati attorno. Sei arrivata fino al ventre della bestia, complimenti, sono in pochi ad arrivare fin qui. Per restare qui, devi farne la tua ossessione. Elimina tutte le altre distrazioni, perché se distogli lo sguardo da quel premio anche solo per un momento, la bestia ti sputerà indietro, proprio da dove sei venuto. Potrebbe non avere mai più gusto per te).
Ultimo elemento ma non meno importante del film, è il rapporto generazionale, o meglio genitoriale. Il tele-evangelista di X è il padre di Maxine, introdotto prematuramente ma non diegeticamente comprensibile nella trilogia. Come Clara Calamai madre risolutrice in Profondo Rosso, ha i guanti neri di pelle e il cappello simil Fedora de L’esorcista (e Indiana Jones, sic!); si confronta indirettamente con la figlia attraverso l’audiovisivo citando ancora il cinema nazionale di genere ma non stupisce e incide a dovere come le madri e i padri che hanno costruito e distrutto generazioni. West cerca di renderlo credibile come un deus ex machina, che, tuttavia, e non di proposito, purtroppo, si limita ad essere una macchietta a façon di cameo che tutti NON ricorderanno. La scalata in Griffith Park sotto il logo hollywoodiano si trasforma in una farsa raffazzonata che sarebbe bello pensare sia sta fatta di proposito, ma che invece ha le fattezze del raffazzonamento di fine budget/riprese/idee… con i due detective (Monaghan e Cannavale) che in sceneggiatura dovrebbero citare una Hollywood divertente ma concreta da 48 HRS e invece si recludono a Gianni e Pinotto (peccato).
Un padre che condanna la figlia, la figlia che gli distrugge il volto sotto il “volto” di Hollywood, e… gran finale, Maxine che da bionda con la frizura anni ottanta diventa la novella Marylin da uccidere; si fa decapitare a suon di “Betty Davis eyes” (West include anche una colonna sonora che merita una critica a sé), sublimato da una dronata che Tom Cruise e l’America intera cita (e si auto-cita) nel finale delle Olimpiadi. Welcome to America.
Buona visione, mofos.