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Do ut des

2023
Titolo Originale:
Do ut des
REGIA:
Dario Germani, Monica Carpanese
CAST:
Beatrice Schiaffino; Gianni Rosato; Ilaria Loriga; Ilde Mauri; Luca Avallone; Miriam Dossena

Il nostro giudizio

Do ut des. Uno dei principi, anzi, il principio dell’economia universale: do perché tu dia, faccio perché tu faccia, faccio perché tu dia, do perché tu faccia. Ma lo si può intendere, anche, come legge del reciproco compenso e, senza nemmeno spingere troppo in là la cosa, quale allotria espressione di ciò che un tempo si chiamava, lex talionis: quella dell’occhio per occhio, dente per dente. E tale va inteso, appunto, il titolo del film di Dario Germani e Monica Carpanese, che, dopo il bel titolo, promettente e ambiguo, riserva altre notevoli sorprese. Prima, tra tutte, sostanziale, quella di essere il remake di un film che nella nostra comunità viene portato – in maniera sacrosanta – in palmo di mano, trattandosi di Emanuelle & Françoise – Le sorelline, diretto dal genio di Aristide Massaccesi con il “nome di penna”, per la prima volta nella sua carriera, di Joe D’Amato. Correva l’ anno del signore 1975, quando Massaccesi, affiancato dal consimile genio di Bruno Mattei, illustrò una memorabile storia di vendetta sessuale, più che semplicemente consumata, delibata e centellinata, ai danni di Gigi Montefiori, playboy stronzissimo, reo di avere indotto al suicidio la sorella della protagonista, Emanuelle, la quale si presentava a incassare i sospesi dallo stallone, facendogliela pagare dieci volte tanto. La storia l’avevano fregata (Bruno) da Kafti ekdikisis, un film greco di Dimis Dadiras del 1969, che in Italia non era mai arrivato (e in quei bei tempi, senza Internet, si potevano operare, certe gabole), anche se poi se n’erano andati, Mattei e soprattutto Massaccesi, per conto loro e avevano risolto in quel gioiello di crudeltà, sesso e sangue che fu, appunto Emanuelle & Françoise, prodotto dal compianto Franco Gaudenzi (nella cui villa il film venne in gran parte girato). Do ut des reca la firma produttiva del figlio di Gaudenzi, Marco. Per cui, nell’universo tutto torna. Aggiornando e attualizzando gli elementi di base della trama al mondo del 2023, la sceneggiatura (a firma della Carpanese) ha buon gioco nell’agganciarsi ai temi oggi caldi e sensibili della violenza di genere e del femminicidio, che all’epoca di Massaccesi e Mattei restavano fuori dal raggio di interesse della loro pellicola.

I tre vertici del triangolo nemesiaco sono adesso Leonardo (Gianni Rosati), un imprenditore quarantenne, che si muove tra Milano e Budapest, altolocato, pieno di grana e femminaro. Un carattere molto possibile e ben contestualizzato, va detto, al quale Rosati aggiunge la giusta sfumatura perché possa dissimulare, nei rapporti con le donne, l’anima del lupo sotto la pelle di agnello. La vittima, che tiene il posto della “sorellina” che fu allora Patrizia Gori, è Ilaria Loriga, Francesca, una studentessa che finisce nella rete del piacione: prima titubante ma poi, a corte astuta e serrata cedendo e cadendoci dentro con tutte le scarpe. La tragedia è illustrata fin dalle scene iniziali, allorché la ragazza, lacera, catatonica e in lacrime, si lancia nel buio giù da un ponte di Budapest. Cosa sia successo, lo si recupera man mano che la storia procede, in retrospezione, quando, un anno dopo, Leonardo va avanti con la sua esistenza di dissipatezze e conquiste. Francesca e il suo balzo nelle acque del Danubio sono lì da qualche parte come una piccola macchia nel passato prossimo, che al massimo gli potrebbe recare qualche noia negli affari. Ed è a questo punto che entra in gioco il terzo vertice del triangolo, quello più acuto e tagliente. L’uomo punta gli occhi su Emanuelle, Beatrice Schiaffino, una scrittrice di successo, che fa coppia lesbica con Ilde Mauri. E comincia a pensare che deve averla. Ma la donna è un osso duro: pare cedere, poi si ritrae, poi gli offre qualcosina, poi fa di nuovo machine arrière. Il gioco si rovescia e Leonardo, stavolta, si ritrova lui ad affondare man mano in un gorgo senza scampo…

Per chi (pochi immagino) non conoscono l’archetipo, la nostra sinossi finisce qui, nel senso che la seconda parte della storia va scoperta e goduta fino in fondo. Cioè fino al grandioso fulmine in coda che varia efficacemente sul twist in end dell’originale. Che era cattivo ma questo è ancora più sottilmente cattivo, perché chiama in causa la figlia del protagonista, Giulia (Miriam Dossena), un tratto di novità che nel film di Aristide non c’era. Per chi, invece, è cognito di ciò che succedeva in Emanuelle & Françoise, ci sarà da apprezzare l’introduzione, nell’eguale contesto carcerario e seviziatorio, della pratica dello shibari, di cui Leonardo è adepto (e che fa da ponte a una scena madre, molto forte, con protagonisti lui e Francesca) e che gli si ritorcerà contro – nemmeno troppo fuori di metafora – come un vero e proprio nodo scorsoio. Odioso è sempre fare confronti, ma va detto che la Schiaffino sta dentro al personaggio di Emanuelle con una giustezza che non fa rimpiangere per nulla l’allora vindice Emanuelle Rosemarie Lindt: perché è brava, ha un viso potente e anche al dunque dei frangenti erotici, omo ed etero, ne esce a testa non alta ma altissima. Ma tutta quanta la macchina cinematografica funziona perfettamente, in questo Do ut des: dalla regia, alla fotografia, alla quale Germani, che la cura, aggiunge attenzioni e sfumature coloristiche che credo non sarebbero spiaciute ad Aristide, alla scenografia (di Tonino Di Giovanni), capace di reinventare la fisionomia della “camera obscura” cuore della faccenda, fino a tutti i ruoli di fianco, che oltre all’amico del protagonista, Luca Avallone, schierano una falange di belle figliole. Chapeau!