Nosferatu: l’occulto e l’Ombra
Robert Eggers allo specchio col fantasma di Murnau
È un esperimento mesmerico il Nosferatu di Robert Eggers, un sortilegio filmico che, come la malia di una strega, o il potere ipnotico del vampiro, avviluppa lo spettatore in una lunga e buia notte, incarnata da una creatura che conserva ben poco dell’umano che fu. Non il principe dei vampiri, o il capostipite dei non-morti ma, come riportato da una suora ortodossa nel film, un mago nero che ha stretto un patto con forze soprannaturali per prolungare innaturalmente la sua vita. L’ossessione di Eggers per l’occulto, l’esoterismo, la mitologia e l’antropologia del sacro è infatti palese fin da The Witch, con lo studio accurato dei racconti popolari del New England, da The Lighthouse, dove la luce del faro diventava metafora di quel Mysterium Tremendum et Fascinans di cui parlava Rudolf Otto in riferimento all’esperienza religiosa più viscerale, e da The Northman, dove il cineasta aveva esplorato i rituali delle tradizioni norrene. In quest’ultimo Eggers aveva messo in scena un rituale sciamanico, officiato dal feticcio Willem Dafoe, in cui il re vichingo (Ethan Hawke) e il giovane figlio venivano ricondotti allo stadio ferino e, come due lupi, ululavano selvaggiamente, affermando la loro appartenenza a forze ancestrali, non di questo mondo, ma che ne costituiscono, secondo certe visioni, la sua matrice segreta.
E così il Nosferatu incarnato da Bill Skarsgård, le cui fattezze sono totalmente dissimulate, è un essere consustanziale ai suoi appetiti animaleschi. Legato però a sortilegi che ne determinano la condotta: egli non può unirsi alla bella Ellen, a meno che lei non si doni a lui spontaneamente. La creatura eggersiana è sì puro istinto ma, essendo generato da un patto con forze superiori, o forse sarebbe corretto dire inferiori/ctonie, egli deve comunque sottostare a quelle leggi che definiscono esotericamente i rapporti tra macro e microcosmo. Non a caso il professor Von Franz (Willem Dafoe) nomina Paracelso e Cornelio Agrippa, due alchimisti e studiosi dell’occulto che ricercavano le segrete connessioni e/o analogie esistenti tra le cose in natura, che permettevano di agire sulla realtà tramite la magia simpatetica, ovvero quell’arte che sfruttava tali rapporti. Non ci stupirebbe neanche sapere che le formule magiche pronunciate da Orlok quando estende il suo nefasto dominio pestilenziale sulla città, siano reali incantesimi ricavati eventualmente da testi e grimori dell’Est europeo. Così pure il rituale officiato dagli abitanti del paese vicino al castello del conte, con la vergine nuda portata in groppa a un cavallo, rientra certamente in quelle accurate ricerche antropologiche che Eggers svolge per qualsiasi suo film, addentrandosi in quei recessi oscuri ove si nasconde il cuore di tenebra della nostra civiltà.
Concetto fondamentale suggerito nel film, ancora tramite la centrale figura di Von Franz, è l’accettazione del Male, dentro e fuori di sé. Cosa che la stessa Hellen deve esperire, fino alle estreme conseguenze, se vuole affrontare Orlok. Solo nel momento in cui, junghianamente, riusciamo ad integrare l’Ombra dentro di noi, possiamo conviverci, disattivandone gli aspetti patologici e/o mortiferi. Semplificando, secondo il celebre pensatore e medico svizzero, l’Ombra è un archetipo composto, a livello individuale, di tutte quelle parti della nostra personalità, sommerse nell’inconscio, che, se non integrate nell’Io cosciente, rischiano di trasformarsi in nevrosi, patologie o peggio, in devastanti scissioni. Nosferatu rappresenta esattamente questo nel film di Eggers e nel capostipite di Murnau (meno nel solitario e tragico principe della versione di Herzog): a livello collettivo egli è l’Ombra della nostra civiltà, ovvero quell’insieme di contenuti rimossi che, ingrossatisi nell’inconscio collettivo, diventano istinti incontrollabili e ferali. Io sono Appetito, afferma infatti l’Orlok di Eggers. Egli è dunque puro, semplice istinto. Qualcosa che si origina in quel cuore di tenebra di cui dicevamo, e che afferisce a un registro dell’esistenza totalmente avulso dall’umano e dai supposti principi morali su cui si baserebbe la nostra civiltà.
A livello visivo Nosferatu è forse l’apoteosi del talento di Eggers: l’assestamento della macchina da presa sulla silhouette di Hutter mentre si trova sul sentiero per il castello, con l’inquadratura che si incardina dolcemente sull’infilata di alberi innevati e l’aria carica di lugubre minaccia, rappresenta un apice pittorico degno di Bocklin e della sua Isola dei morti. Le numerose panoramiche a 360 gradi della macchina da presa, vera cifra stilistica del film, che iniziano in un luogo sul movimento di qualche personaggio e, senza soluzione di continuità, proseguono da qualche altra parte, agganciandosi al movimento di un altro personaggio, rientrano da un lato in una precisa strategia di spiazzamento dello sguardo dello spettatore, atto a sradicarne le sicurezze spaziali. Dall’altro tali raccordi legano indissolubilmente i destini e le anime dei personaggi: si vedano in particolare tali passaggi effettuati tra le sagome di Orlok e di Ellen.
Non è un caso che anche nella forma Eggers si rifaccia decisamente al Nosferatu di Murnau (e non tanto a quello di Herzog): se esaminiamo l’entrata di Hutter nel castello di Orlok, topoi narrativo imprescindibile di qualunque opera ispirata a Bram Stoker, vediamo che, nel momento in cui il malcapitato agente immobiliare si addentra sotto l’ogivale che costituisce l’ingresso effettivo al vecchio maniero, il regista americano riproduce quella stessa duplicazione di forme all’interno dell’inquadratura, che caratterizzava il film di Murnau e l’espressionismo in generale. Gli archi infatti si moltiplicano, laddove la macchina da presa di Eggers, esattamente come quella di Murnau 102 anni fa, ponendosi nella corte interna del castello, inquadrava entrambi gli archi ogivali, interno ed esterno dell’entrata, che si rispecchiavano nelle spalle incurvate di Hutter. L’unica differenza è che nell’inquadratura di Murnau avevamo anche la gobba di Orlok, a moltiplicare ulteriormente le forme (in quella di Eggers Orlok non c’è, se non sfocato nel controcampo, ma la sua mancanza rientra in una precisa strategia di occultamento del conte, le cui fattezze saranno rivelate solo più avanti).
Ma ciò che ci interessa in relazione a questa ripetizione di forme, è che succedeva anche in altre opere coeve: se guardiamo a Tartufo, girato dallo stesso Murnau nel 1925, tratto dall’opera omonima di Moliere, abbiamo un personaggio, le cui movenze grottesche vengono ricalcate, per assonanza visiva, da un enorme lampione, cui veniva accostata la sua camminata buffa. Si veda anche la ripetizione delle forme nella scena della fastosa corte del Burgundi, realizzata da Fritz Lang ne I nibelunghi – La morte di Sigfrido (1924), in cui la composizione visiva si basava sulla corrispondenza tra i costumi dei soldati e le linee della scenografia. Per non parlare del culmine di tale stilema visivo, realizzato da Robert Wiene nel classico Gabinetto del dottor Caligari (1920), in cui le forme distorte e stilizzate della scenografia, non solo si rispecchiavano nella psiche dei personaggi, ma anche negli ingobbimenti e negli appiattimenti fisici del sonnambulo Cesare, quando percorreva le strade di Holstenwall. Eggers si inserisce dunque perfettamente in questa tradizione visiva, basata chiaramente anche su un accorto uso delle ombre e del chiaroscuro, che riusciva a concretizzare su schermo il tema dello sdoppiamento, del Doppelgänger e dell’Ombra, che puntualmente riemergono dall’inconscio collettivo nei momenti di crisi della società. È noto tra l’altro che il filosofo Kracauer, nelle forme e nei temi dell’espressionismo tedesco, ravvisava una premonizione del nazismo imminente. Non è un caso dunque che proprio nella nostra epoca, in cui la civiltà umana si trova a fronteggiare una fase altrettanto drammatica, una nuova incarnazione filmica di Nosferatu si affacci sul panorama cinematografico mondiale.
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