Sbatti il mostro in prima pagina torna nelle sale
Il mostro in prima pagina, il giornalismo negli annunci mortuari
Il primo sentimento che sorge spontaneo è probabilmente l’imbarazzo, mascherato da una risata. Perché la “coincidenza” del ritorno in sala di Sbatti il mostro in prima pagina, mentre la vita politica (sempre che ce ne sia ancora una) del nostro paese viene fintamente sconvolta dall’ennesimo segreto di Pulcinella mascherato da scoop giornalistico, fa emergere subito sentimenti di compassione per tutti coloro che vedranno il legame, il vulnus ancora aperto o addirittura la profezia. Il cinema di Marco Bellocchio non ha mai avuto la pretesa di prevedere, quanto di rivedere o di ravvedere l’elemento non notato, sia nelle grandi che nelle piccole vicende. Men che meno il film di nostro attuale interesse, che il regista piacentino ha di fatto “ereditato” da Sergio Donati. Che si trattasse, da parte di quest’ultimo, di poca propensione a passare dietro la macchina da presa o di incompatibilità in partenza con Gian Maria Volonté, fatto sta che ancora oggi Sbatti il mostro, questo oggetto estraneo finito tra le braccia, rimane uno dei titoli cardine, più citati e più identificati nella filmografia bellocchiana. Il fil rouge che lo legherebbe al cinema storico-politico di siffatto autore non è però più evidente di quello che lo congiunge alla narrazione coeva. Il mostro è in effetti il principio. E no, nessun riferimento alla rasputiniana presenza, con tanto di delirante comizio, dell’attuale presidente del Senato nell’incipit del film, cosa che lo condanna ulteriormente alla parodia post-datata e consapevole. Le fattezze sono quelle di Volonté, del caporedattore Bizanti, gemello affatto diverso del dirigente di polizia di Indagine e dell’operaio Lulù de La classe operaia, entrambi antecedenti di pochissimo. Perché nei primissimi anni Settanta si passa all’attacco: le forze dell’ordine, gli imprenditori, la classe dirigente, l’informazione. Simul stabunt, simul cadent: almeno in un’ottica artistica indirizzata dall’impegno politico.
Mostri da sconfiggere, o quantomeno smascherare dinanzi all’audience che tanto cercano di conquistare. La tromperie alto-borghese trova nel cinema di Petri e in questo Bellocchio la rappresentazione perfetta, al confine tra il grottesco (che esploderà in Todo Modo) e quello che i francesi chiamavano cinéma verité. Tanto da anticipare, questo sì ma senza troppo sforzo intellettuale, la nascita e la vita del Giornale montanelliano, oggetto d’opinione destinato ad essere sempre di più la voce di un preciso schieramento. Ma le derive, quelle, non erano previste nel conto e quindi è perfettamente inutile trattarne. Per quanto invece concerne il mostro in minore, quello da sbattere in prima pagina, è chiaro che i riferimenti non possono non essere plurimi. La demonizzazione della sinistra extraparlamentare non ha effettivamente un pariruolo nella cronaca nera dell’epoca. A lungo si è sostenuto che il brutale omicidio di Maria Grazia Martini ricalcasse e non poco quello di Milena Sutter avvenuto a Genova nel 1971. In quel caso, però, ad essere incriminato e poi condannato fu un ragazzo di buonissima famiglia, figlio e nipote di importanti industriali. Si tratta insomma di un esercizio intellettuale che, negli anni successivi, ebbe a materializzarsi in modo totalmente diverso, sempre a Milano dove è ambientato il film, con i primi sequestri delle BR. Non omicidi, inizialmente, e non a sfondo sessuale, dunque: delitti di cui si macchiarono invece i mostri del Circeo nel ’75, sulla cui appartenenza a gruppi di estrema destra venne scritto e non poco dalla controparte giornalistica per evidenziare il collegamento tra ideali politici e indole votata alla crudeltà.
Senza parlare poi dei cosiddetti “mostri a tutti i costi”, come il trio di giovani incarcerati per l’orribile omicidio di due bambine a Ponticelli o, volendo, i famigerati compagni di merende cui vennero attribuite le nefandezze del mostro di Firenze. Avvenimenti di molto successivi al film diretto da Bellocchio, ma che ripercorrono il concetto in modo in fin troppo evidente. Concetto non meno politico di quello affrontato nella suddetta pellicola, con titoli come Cani Arrabbiati di Mario Bava e L’ultimo treno della notte di Aldo Lado che sono stati in grado di andare oltre l’immediato, distinguendo tra quei mostri che non fatichiamo a vedere e altri che non riusciamo a riconoscere. Ma un conto è fare arte e ragionare di conseguenza, un altro è fare giornalismo e raccontare la realtà. Le espressioni, sia fisiche che verbali, di Volonté sono in effetti l’essenza di quel cinismo che da ormai tanto tempo condiziona la professione di cronista. Perché raccontare la realtà è ben diverso dal dire la verità, e chiunque abbia lavorato anche per poco tempo in una redazione giornalistica sa di cosa si sta parlando. La realtà è malleabile e raggiungibile, la verità è rigida e sfuggente. Tutto è in discussione, anche la struttura piramidale di un giornale dove rapporti di forza e compiti sono ben diversi rispetto alla rispettabile apparenza. La contrapposizione Bizanti-Roveda è il centro di Sbatti il mostro in prima pagina, ma la curiosità più interessante è quella che riguarda Silvia Kramar, quattordicenne quando interpretò la vittima del film poi diventata inviata del vero Giornale e in seguito dei vari TG diretti da Emilio Fede. Fu la prima ad annunciare l’inizio della Guerra del Golfo (ignoto anche all’allora ministro degli Esteri De Michelis). Tre anni dopo venne silurata dallo stesso Fede per un’intervista a Clinton di cui beneficiò Mentana per il TG5. Stessa azienda, ma poco importava in questo dramma della gelosia e degli ego che era ed è ancora il giornalismo italiano. Dove il mostro, se proprio si può chiamarlo tale, rimane in prima pagina e la professione resta stabile negli annunci mortuari.