The Monkey, un film folle ma sorprendente

In difesa del nuovo horror di Oz Perkins
Featured Image

Ammetto di non essere mai stato un grande fan delle etichette. Per carità, son belle, comode e fan di certo la gioia di coloro che ancora credono che il cinema, così come la vita, sia tutta una questione di trama. Giusto quella trama che, come ci rammentava l’immortale Groucho Marx, di fatto non esiste né dentro né tantomeno fuori dallo schermo. Confesso tuttavia di non provare alcuna particolare simpatia nei confronti di tutti quegli autori — o presunti tali — che proprio sulle etichette amano adagiarsi; rivelando piuttosto di avere ormai poco o nulla da dire. Sarà dunque per questo che, giunto alla fine dei deliranti e divertentissimi novanta minuti di The Monkey, non ho potuto fare a meno di provare una spontanea e genuina simpatia. Simpatia nei confronti di un film sui generis più che propriamente di genere; un’opera difficilmente etichettabile che ha finito per rivelarsi totalmente differente da qual si voglia aspettativa o pronostico. Ma soprattutto simpatia verso un geniaccio come Oz Perkins che, giunto alla sua quinta fatica in appena un decennio di onorata registica carriera, ha scelto con gran coraggio e altrettanta incoscienza di smarcarsi da uno stile di fatto già riconoscibile e sedimentato per avventurarsi nei succosi ma al contempo infingardi terreni della horror comedy.

Volendo infatti parlare in termini di puro e sterile genere, The Monkey può innegabilmente essere etichettato come un film dell’orrore. Su questo possiamo esser più o meno tutti d’accordo, giusto? Bene, ma che tipo di orrore? Psicologico come quello del nevoso February? Direi di no. Neo gotico come quello dello splendido Sono la bella creatura che vive in questa casa? Niente affatto. Folkloristico come per il fiabesco Gretel e Hansel? Spiacente, ma non stavolta. Allora esoterico come nell’ancora fresco e pulsante Longlegs? In parte forse sì; ma per il resto mi pare che stavolta si voli piuttosto verso lidi ben più grotteschi e, da un certo punto di vista, persino fatalisticamente coeniani. Un bel casino insomma. Ed è proprio per questo che, almeno per quanto mi riguarda, pur nella sua fisiologica imperfezione e schizofrenica incontinenza, non posso esimermi dal considerare The Monkey un film semplicemente e visceralmente geniale. Ecco, l’ho detto: ora linciatemi pure! O, se avete un poco di pazienza, lasciate che mi spieghi peggio…

Volendo prenderla sul materialmente cinematografico piuttosto che sullo stucchevolmente filosofico, potemmo tranquillamente affermare che, a parità di genere, The Monkey rappresenta per Oz Perkins ciò che I morti non muoiono ha significato per un buontempone come Jim Jarmusch; ovvero un autentico grimaldello con il quale allentare gli stringenti bulloni di una personalissima e oramai cementata poetica così da saggiare i limiti stessi di un cinema che si tendeva a dare ormai per assodato o, peggio, per scontato. Uno stress test, insomma: condotto con straordinaria lucidità, mano saldissima e tanta ma proprio tanta voglia di buttare nel cesso ogni certezza e vezzo di maniera. E se non è genio questo, allora mi spiace ma non so davvero cosa mai potrebbe mai esserlo. In questo il nostro amato e talentuoso figlio d’arte condivide certo non poco con il collega Jordan Peele e la sua bizzarra – per non dire perturbante – vocazione a spiazzare con la pura e sola forza di una caustica ironia in sottotraccia che un po’ tutte le produzioni targate Monkey Paw – sarà forse il caso? – dimostrano di possedere. A co-produrre, stavolta, non è in realtà una Zampa di Scimmia ma bensì l’Atomic Monster del fidato James Wan; la cui palombarica mascotte sarà per l’appunto protagonista della primissima e più divertente delle cruente e incidentali – più che accidentali – morti che puntellano questo nichilistico divertissement.

Un film, verrebbe da dire, che vive e sopravvive di apparenze. Apparentemente caustico, disimpegnato e demenziale — certuni oserebbero addirittura definirlo sciocco — che, tuttavia, dietro un altrettanto apparente volontà di gettare un po’ tutto e tutti alla berlina nasconde una consapevole e dolente tragicità che non può che rispecchiare quella vissuta, per genitoriale procura, dal suo stesso autore. Una nera, cupa e terrorizzante fiaba fatalista che il buon Osgood riesce in verità a prendere di peso e a virare a tal punto in chiave slapstick da non far certo sfigurare né rimpiangere la seppur striminzita e assai differente kinghiana matrice letteraria d’origine; arricchendo e sostanziando a tal punto quelle appena trenta paginette da renderle ben altre — e alte — da sé come solo il kubrickiano Shining era in precedenza riuscito a osare. Con l’unica piccola e fondamentale differenza che, almeno stavolta, il Maestro parrebbe aver gradito assai questa massiccia e provvidenziale opera di reimagining.

Come dite? The Monkey è forse l’opera “peggiore” del nostro Perkins? Beh, da un certo punto di vista potrei anche essere d’accordo; a patto di far ampio uso di virgolette e, soprattutto, di sostitute il termine “peggiore” con quello ben più coerente di “non inquadrato”. The Monkey non è, infatti, semplicemente un film difficile da inquadrare — o, se preferite, da etichettare —, ma piuttosto un oggetto filmico non meglio identificato che, più che lo spirito anarchicamente dissacrante e canzonatorio tipico di uno Scary Movie, dimostra piuttosto di condividere quell’altrettanto irriverente vocazione meta-destrutturalista propria del craveniano Scream. Un horror che ragiona su sé stesso e che, pertanto, finisce appunto per prendere in giro proprio sé stesso, i propri topoi e i propri assodati cliché; facendo a tal punto il giro da tornare al nastro di partenza riscrivendo in profondità le regole di quel genere entro il quale mostra, in verità, fin da subito di sentirsi particolarmente (co)stretto.

Ma di cosa parla, dunque, realmente questo The Monkey? Beh, ma di noi, è ovvio! Di noi umorali, rancorosi e insensibili voyeuristi della domenica ormai sempre più abituati a tifare istintivamente per i cattivoni di turno — siano essi pupattoli indemoniati dispensatori di grandguignolesche dipartite, plutocrati guerrafondai o zotici imbonitori pronti a promettere di rendere qualunque cosa Great Again — ma destinati a finire malamente — e assai comicamente — cornuti, falciati e mazziati proprio nel mezzo del nostro sguaiato tifo; esattamente come quello sbraitante gruppetto di cheerleader pronte a chiudere in bellezza e più che mai nel sangue questo delirante e spassosissimo carosello di morte.

Ed è proprio della Morte che, in fondo, The Monkey mostra di volerci e saperci magistralmente render conto. Una nutrita e variegata sfilata di trapassi rapidissimi — forse anche troppo —, violentissimi e indubbiamente spassosissimi che, senza la benché minima paura di valicare il pericoloso limite del too much, giungono dove e quando meno ce lo si aspetterebbe senza la benché minima logica né possibilità di essere predetti, controllati o anche solo subodorati. Si perché, così come quel buontempone di Clive Barker ci ha sufficientemente insegnato con il suo desolante Hellraiser, il Male, così come la Morte stessa, non può essere in alcun modo sedotto e men che meno corrotto; in quanto forza primigenia, capricciosa e, strano a dirsi, proprio per questo fondamentalmente equa nonché capace di fare i propri porci comodi ad ogni giro di manovella. D’altronde com’è che si dice: It’s Life Baby, giusto? O, piuttosto, sarebbe meglio dire: It’s Like Life! E la Morte, si sa, al pari della Vita, così come cantava il buon Vasco: “un senso non ce l’ha”. Toccherà dunque farsene una ragione, che dite?

Sarà forse proprio per questo che, sotto certi aspetti, The Monkey può essere considerato come una sorta di nemesi più che mimesi di Final Destination. Laddove, infatti, la Cupa Mietitrice co-protagonista della saga – o, volendo, anche sagra – della sfiga più celebre del nuovo Millennio agiva secondo un piano certosino e meticolosamente prestabilito degno del più nerd fra i ragionieri, la pura e semplice – ma tutt’altro che semplicistica – Malvagità che dimora in seno a questo inquietantissimo scimmiotto giocattolo dal ghigno sbarazzino – esso stesso intelligentissimo sfottò alla lunga progenie degli (stra)maledetti souvenir con annesso giocherellone anatema – pare piuttosto un cane pazzo e sciolto che, così come quell’imparziale agente del Caos sapientemente teorizzato dal compianto Joker di Heath Ledger, non guarda in faccia a niente e a nessuno al momento di spazzar via assai malamente una qual si voglia vita con un fulmineo ma energico colpo di spugna o, piuttosto, di rullante. Niente regole, insomma, al di là di un semplice ma fondamentale punto fermo: chi innesca la carica, per il momento, è salvo. Un tipetto assai imprevedibile ma con uno spiccato senso del black humor questo Male, non c’è che dire; dinnanzi al quale persino il biblico Cavaliere Pallido non potrà che rimanere quantomeno basito – se non addirittura irritato – al punto tale da invocare, seppur a livello puramente fisiognomico, un sano e liberatorio “What a Fuck?!”. Si potrebbe poi notare come, ironia della sorte, la Lunga Falce parrebbe covare un certo qual morboso fetish per i Sette Vizi capitali e per coloro che così puri di cuore proprio non sono. Ma qui, mi rendo conto, si rischia di sconfinare in quelle bieche masturbazioni filmiche di cui operette di ben più infimo valore come La profezia del male si sono già maldestramente occupate.

Ciò che tuttavia rende questo The Monkey un qualcosa di ben più profondo e stratificato rispetto a un mero esercizio di cacofonica bassa macelleria è, in primis, il coraggioso e irriverente modello di famiglia che ci propone. Un’idea di famiglia a dir poco disfunzionale e, proprio per questo, tragicomicamente più che mai contemporanea; dove invidia reciproca, menefreghismo e persino odio sono di fatto il fragilissimo collante che tiene precariamente insieme i cocci di un microcosmo destinato prima o poi a esplodere. Letteralmente. Famiglie che esplodono e, a volte, implodono sotto il peso di aneurismi, combustioni e impalamenti umani tutt’altro che spontanei, zoccoli di cavalli imbizzarriti, fucilate a tradimento e palle da bowling brandizzate. Famiglie letteralmente scoppiate pronte tuttavia a ricomporsi nel momento del bisogno; pur senza disdegnare qualche sana e goliardica perculata d’infantile retaggio. Famiglie sfasciate più che allargate, nelle quali la figura paterna – o presunta tale –, laddove ancora presente, finisce per dare tutto il peggio di sé. Ed è qui che, a mio modestissimo e non certo richiesto parere, sta tutta quella fantomatica genialità di cui ciarlavo qualche paragrafo sopra; nel riuscire a trattare una patata così scottante e sostanziosa senza tuttavia cedere alle lusinghe del prendersi troppo sul serio. Intendiamoci: The Monkey è un film serio. Serissimo. Un film che, pur nel suo ribaldo e maramaldo mood, gestisce con granitica serietà tanto la sua impeccabile forma quanto un già più volte decantato contenuto. Ma lo fa, si badi bene, con una disarmante e travolgente joie de vivre – da molti scambiata erroneamente per superficialità – che è, di fatto, il vero cuore pulsante di un’opera nella quale niente è come sembra e nulla è come ci si sarebbe aspettati sarebbe stato.

The Monkey è, insomma, un universo certamente folle ma perfettamente coerente con sé stesso; così come solo le opere più genuinamente schizofreniche sanno essere. Un mondo sottosopra nel qualche, proprio come nel già citato e ingiustamente bistrattato zombesco gioiellino jarmuschano, le logiche stesse del genere vanno allegramente a farsi benedire per lasciare spazio a generosissime dosi d’insensato eccesso vissuto dai diretti interessati come un qualcosa di surrealmente quotidiano piuttosto che anomalo. Un certo zampino lynchano, a tal proposito, mi pare si possa tranquillamente intravedere; ma anche in questo caso mi assumo la piena responsabilità di una tale azzardata elucubrazione.

Ma alla fin della fiera, nonostante un ottimo successo al botteghino, per quale motivo ancora tante resistenze critiche – soprattutto entro i nostri italici confini – nei confronti di un titolo come The Monkey? Sarà forse a causa di una fluida e ingestibile categorizzazione che lo rende assai difficile da imbrigliare all’interno di una di quelle – almeno per me – tanto inutili etichette? Oppure tutto dipende, piuttosto, da quella sempre più dilagante pigrizia – figlia in gran parte della struttura stessa di un’offerta audiovisiva ormai interamente governata dalle fredde logiche degli algoritmi – che ci porta a desiderare prodotti, soprattutto di genere, sempre e comunque conformi alle nostre aspettative per rifuggire da quelli che osano in qualche modo sorprenderci? Una cosa è certa: proprio come la malevola forza che muove a propria apparentemente illogica discrezione gli occulti ingranaggi di The Monkey, Oz Perkins si è dimostrato una volta per tutte un autore non certo disposto a scendere a patti né con noi, poveri esigenti spettatori, né tantomeno con un’industria dell’intrattenimento nella quale tutto deve ormai essere preannunciato, preconfezionato e, se possibile, predigerito. Un regista che sa benissimo cosa vuole dirci indipendentemente dal fatto che si sia disposti ad ascoltarlo e che, se ancora non si fosse capito, con nostra sterile opinione ci si pulisce laddove non batte il sole. Non vi sta bene? Pazienza. D’altronde, come si sul dire e come già abbiamo più volte detto: It’s Like Life Baby!

LEGGI ANCHE
THE MONKEY: OZ PERKINS NON CONVINCE