Fear the walking dead pilot
Alcune considerazioni a caldo prima e dopo la puntata pilota
Sensazioni, così, cavalcando a pelo prima di aver visto il pilot di Fear the Walking Dead, che si è rivelato il pilot più visto nella storia di tutti i tempi delle serie tv. Intanto che il titolo fa subito venire in mente Paura, che per noi, e quando dico noi si capisce chi intendo, significa solo e soltanto Paura nella città dei morti viventi. Seconda cosa. Questo nuovo serial copre il periodo di tempo in cui è esploso l’outbreak, il contagio, l’epidemia che andrà man mano trasformando la gente in walkers, perché così adesso li chiamano, quelli che una volta erano solo gli zombi o, con perifrasi, i morti viventi. Il periodo che in The Walking Dead non abbiamo conosciuto perché era quello in cui Rick stava in ospedale in coma. Il periodo che si potrebbe, in senso più allargato e facendo riferimento alla storia generale dello zombi-movie, definire il grande buco nero, la grande incognita, perché di solito viene eluso, sottaciuto o gestito ellitticamente. Questo da Romero in avanti, perché anche La notte dei morti viventi svicolava dal manifestarsi metropolitano e plateale della nuova peste e si concentrava su una situazione isolata, sulla fattoria spersa nella campagna della Pennsylvania. Anche Zombi scappava dalle grandi città, ne dava una rappresentazione rapida iniziale o di scorcio, tramite la televisione, ma poi fuggiva via a bordo dell’elicottero. Un copione quasi sempre rispettato, in seguito: dai vari remake romeriani fino all’esplosione zombesca che ha caratterizzato l’horror del Terzo Millennio, si è avuto come il timore di rappresentare il principio, che cosa succede in città quando deflagra la bomba. Ci stiamo a interrogare cosa ci sia dietro, ma probabilmente dietro non c’è nulla, se non la difficoltà logistica e la dispendiosità di girare in una metropoli viva prima di diventare morta. Beh, Fear The Walking Dead parrebbe giunto (anche) per colmare questo vuoto, per ovviare a questo ancestrale gap.
Un drogato, Frank Dillane, ci guida dentro Fear the Walking Dead. Uno che si sveglia in una chiesa abbandonata, dopo il trip, e vede una sua amica con un coltello piantato in pancia che sta mangiando gente morta. Lui scappa fuori, per strada, lo investono e lo portano in ospedale. Nick, così si chiama, è il figlio di quella manza spaventosa di Kim Dickens, 50 anni magnifici, che di professione fa l’insegnante, come il compagno, Cliff Curtis, patrigno del drogato e di sua sorella, Alicia Debnam-Carey. E così li abbiamo tutti, i protagonisti ai quali si attaccherà qualche altro personaggio in seguito, perché Cliff Curtis ha un’ex famiglia, introdotta solo per un attimo all’inizio, giusto per farci capire che c’è una situazione allargata e con delle frizioni tra padre e figlio. La morta vivente che mangia il cadavere ci viene sbattuta in faccia all’inizio, poi è tutto un seminare indizi, mettere in giro voci, sollevare dubbi, perché Nick, il drogato, in ospedale racconta quel che ha visto e tutti credono che fosse per via dell’eroina. Ma poi al patrigno viene il dubbio e va a vedere nella chiesa se davvero c’è qualcosa di strano. E c’è. Poi Nick scappa dall’ospedale… e il resto ve lo vedrete. Si riesce subito a intuire che gli autori han deciso di stare lunghi, di partire entrando già in medias res – quello che sta capitando e che nessuno dei personaggi afferra bene è già in atto da un po’, ma, appunto, regna ancora la confusione –, anche se, a parte Nick, gli zombi che vediamo sono ripresi da telefonini e immagini tv e nessuno si spiega perché uno colpito da più proiettili della polizia non sta giù e si rialza. In questi universi non esistono evidentemente i film sugli zombi e quindi un morto che si rianima e si ciba di carne, non alligna come concetto, è un’alienità pura, non lo si riconosce. Verso la fine, nel teatro di uno di quei collettori d’acqua fognaria a cielo aperto che ci sono a Los Angeles, Kim Dickens, il compagno e il figlio vengono messi di fronte al verificarsi del macabro prodigio di un morto, il pusher negro di Nick, che cammina e attacca, in una sequenza che chiude in maniera molto riuscita l’episodio.
Sensazioni, così, cavalcando a pelo dopo avere visto il pilot: personaggi per metà interessanti, per metà telefonati. La Dickens è la punta di diamante ed è facile dirlo, perché basta notare come sta in scena, come si prende agevolmente lo spazio e l’inquadratura. Anche Curtis non è scontato o perlomeno ha una faccia originale, mentre i due ragazzi non si guardano, nel senso che sono il solito stereotipo sacrificato sull’altare dell’ovvio per il pubblico dei giovani che quell’ovvio lo va cercando, altrimenti spegne. Gli zombi agiscono troppo poco per dire alcunché e del resto qui si combatterà dentro di noi la grande lotta psicologica tra quello a cui ormai ci ha abituato The Walking Dead in termini di estrosità ed elaborazione del trucco e quel che deve rendere una zombificazione ancora recente e fresca, dove il realismo è o dovrebbe essere richiesto – i padri italiani, di questo, all’epoca, se ne fottevano e facevano i morti appena risorti belli e coloratissimi come piante carnivore, ma qui siamo in America. C’è un buon clima, specie nella parte finale, come ho già detto, ma bisogna vedere quando la cosa prende piede su più vasta scala come verrà descritta e in quali termini atmosferici. Anche se è già chiarissimo che i casini all’interno del nucleo familiare avranno la stessa rilevanza degli attacchi sferrati dai morti e lì sarà questione della misura nelle cose. Vero è che alle spalle c’è la lezione di The Walking Dead che ha fatto capire nel corso di cinque stagioni – la sesta bussa alla porta per sfondarla dal prossimo 11 ottobre – quale sia la miscelazione corretta e calibrata tra walking dead e talking dead. Però, qualcosa mi dice che non solo la Dickens a noi maniaci, ma la serie a noi zombi-dipendenti darà più di qualche bella soddisfazione.