Il caso Gloria Guida
Fenomenologia di una biondina che stazionava tra la terra e il cielo
Le scene con Gloria Guida che più turbano, nella Liceale, quelle pregne del maggiore pathos erotico, non sono certo i giochetti da bambini e per bambini con i compagni di liceo – il freak Vitali che la ritrae nuda, ad esempio – o i titillamenti sotterranei, le toccatine sottobanco, i collant che lei si aggiusta tra l’usco e il brusco. E nemmeno gli amplessi tra le braccia dell’imbambolato Giuseppe Pambieri, il latin lover sotto i cui lombi la Gloria nazionale viene defraudata di quella verginità della quale non le importa, peraltro, un fico. Non sono neppure le rischiose carezze saffiche, gli insinuanti massaggini “capezzolari” che le pratica Ilona Staller, mentre lei le restituisce il favore succhiandole il seno – lì sarebbe bello capire cosa è rimasto tagliato fuori dal montaggio, poiché circolano foto più hard rispetto alla vulgata; d’altronde Gloria i pruriti omosex sullo schermo se li è sempre tolti senza battere ciglio, con naturalezza e libertà assolute. Come semplici peccatucci di gioventù. La vera turbativa, il groppo alla gola – e non solo – prende lo spettatore quando la macchina da presa di Michele Massimo Tarantini sfila, carezzevole e lenta, lungo i meridiani del corpo addormentato della Gloria, su quell’epidermide che si intuisce calda del sonno. Respiro e cuore che accelerano, ansimare, patapum patapum patapum. Zack zack. Capolinea. A capo.
Il mito adolescenziale della Guida in quei film settanteschi – parlo degli scolastici e di quello che prima ancora era stato il ricco lignaggio della commedia borghese, della Gloria dentro e fuori dalle famiglie disfunzionali, della Gloria “ragazzina”, minorenne, in blue jeans – è allo zenith. E tutto sommato non conoscerà mai un nadir, nemmeno oggi che la Guida, fattasi Guidi, ultracinquantenne, provoca resurrezioni subitanee che neppure il Cialis. Però però… la sua è sempre stata una bellezza che si venerava intangibile, che solo tollerava di essere guatata da lontano, ché il solo pensare di avvicinarla, di accostarsi a quella pelle di pesca, a quelle guance di pesca, a quel solco di pesca induceva una fibrillazione che era altro rispetto alla pura eccitazione, al desiderio, all’appetito sensuale nudo e crudo. La ragazzina, in quei film, fu un avatar, incarnò un’idea platonica dell’adolescenza; che era carne, sì, ma al tempo stesso evocava una sostanza aerea, eterea, sublime, tendente a volar via, a scappare, a sottrarsi, come il mercurio fuggitivo degli alchimisti. Manlio Gomarasca che fu il primo a intuire come la Gloria fosse un bene puramente contemplativo ma intangibile, nel nr. 1 di Nocturno prima serie scriveva: «Corre, ride e risplende seducente in controluce, ma non si abbandona mai completamente all’occhio impudico della macchina da presa. […] Particolarmente intenso il momento in cui [Gloria] scopre la propria femminilità di fronte allo specchio in bagno, mentre delicatamente si accarezza il seno ancora immaturo». Dietro il quale periodo si intuisce che l’estensore aveva, anche lui, la tachicardia e il fiato corto…
Stiamo cercando senza troppe remore o pudori di insinuare che questa figura della Gloria – quasi arcimboldesca, poiché le sue parti carnee risultano così immediatamente evocative dei frutti più sodi e gonfi di dolci e roridi umori: le pesche, le fragole, i sugosi poponi – era sì un potentissimo Ente Onanizzante, ma, al contempo, l’altro emisfero della sua natura risiedeva nel mondo uranio, era quasi astrazione. Appunto, Idea. Ciò rende ragione del fatto che la Gloria nei film scolastici risulti aureolata da una corona di altezzosità, spesso appaia scostante, finanche antipatica, per non dire stronza. Esule, plotinianamente parlando, nella carne, nella materia, forma femminile archetipa che diventa corpo, si porta evidentemente dietro e reca dentro i vestigi di un’antica, primigenia natura superna (banale esclamazione, guardandola: «Che angelo!») e abbassa gli occhi al mondo con disprezzo. Un po’ ha ragione, considerata la fauna di minorati fisici e mentali che le sbavano addosso nella ginecommedia. In La liceale nella classe dei ripetenti, dove la barcaccia la rema un vogatore più volgarmente energico di Tarantini, Mariano Laurenti, la Gloria “che non transit, non passa” – a differenza di quella mondana – subisce l’onta delle attenzioni del teratomorfico Alvaro Vitali diventato professore di musica, di Jimmy il fenomeno come tremolante bidello, del panciuto e satiresco Lino Banfi che insegna – per ossimoro ideologico – ginnastica, e di Gianfranco D’Angelo, missino e fanatico di “Vecchio scarpone”.
Viene, non incidentalmente, da meditare su quale paese dei mostri fosse quello in cui le studentesse entravano varcando i battenti delle aule di scuola cinematografiche. E anche sul paradosso per cui il pubblico maschile teneva le parti di questi minus habentes, sgorbi, deformi, laidi e scoreggioni – ma il mostro mostra sempre qualcosa, quindi qui c’è substrato fertile per sociologi e antropologi. Se su un piatto della bilancia grava l’osceno, l’irrapresentabile rappresentato, dall’altro, in compensazione avversa, pesa il femminile in forme che verrebbe voglia di definire, con un neologismo, porcellanesche: a parte Gloria, in questo caso, i visetti delicati delle sue compagne di corso, Brigitte Petronio e Luigina Rocchi, una simil-orientale scoperta da Lattuada, già reclutata da Pasolini nel Fiore…, che un giorno cambierà il suo nome proprio nel più nobile Claudia e che, nella fattispecie, senza troppi giri di parole, pratica un ricco pompino a un flauto. Il trittico della Liceale, si completa con un segmento in cui l’eroina seduce i professori, firmato da Laurenti e in cui Gloria canta e alla fine è incintata da un austero professore. Chiosa il Gomarasca: «Qui ritornano le tematiche miste (dramma adolescenziale e commedia scolastica) che avevano fatto la fortuna del primo La liceale». Esiste, a dir vero, anche un quarto capitolo che però è spurio, La liceale, il diavolo e l’acquasanta, firmato dal genio superiore di Nando Cicero; il quale “realizza” che nella sostanza terrena di Gloria cova il germe angelico e fa quindi intervenire un travoltesco cherubino onde preservarla dall’accoppiamento con l’ennesimo mostro (Tiberio Murgia).
La potente simbolicità del femminile adolescenziale di Gloria si adattava a tutto, allora. Quel leggero imbambolamento, stupefazione o afasia apparenti, che traluceva dal suo sguardo, era l’espressiva inespressività di qualcosa in grado di adattarsi a ogni contenitore filmico. La ragazzina poteva finire nei meandri della controcultura, come accadde nei primissimi film di Silvio Amadio, il suo mentore, che girando La minorenne la traghettava da contesti sadomasochisti di un collegio di suore lesbiche nel mondo allucinato e poetico di uno scultore beat. Droga, comuni, sesso libero: Gloria ci è passata dalla a alla zeta della sua carriera – e qui sarebbe persino pletorico citare Avere vent’anni di Fernando di Leo, che Gloria non se l’era scelta ma se l’era trovata nel film e ne aveva magnificamente fatto di necessità virtù, poiché nella strana coppia con Lilli Carati, giovane ma già vecchia, era Gloria ad emergere per sovrabbondanza estetica e di senso. Senso come sensualità e come significato. Lei poteva essere e fu, con eguale credibilità, monaca o puttana o assassina. E la sua posteriore, perfetta, pitagorica, sfericità, l’armonia del suo divino culo, divenne titolo e pietra angolare di un film. Non girò però mai un erotico puro, qualcosa che non scendesse a compromessi con la commedia, borghese, di costume o pecoreccia. Ci andò però vicinissima, quando fece un provino con Alberto Cavallone per un ruolo in Zelda – che poi però toccò a Franca Gonella.