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Conversazioni con un killer: Il caso Bundy

2019
Titolo Originale:
Conversations with a Killer: The Ted Bundy Tapes
REGIA:
Joe Berlinger
CAST:
Ted Bundy (se stesso)
Hugh Aynesworth (se stesso)
Stephen Michaud (se stesso)

Il nostro giudizio

Conversazioni con un killer: Il caso Bundy è una serie tv del 2019, ideata da Joe Berlinger.

La fascinazione per il male, in un modo o nell’altro, ha toccato il cuore e lo stomaco di chiunque. Soprattutto il male imprevedibile e irrazionale come quello alla base degli omicidi seriali, un male immotivato che attrae e crea repulsione assieme, proprio perché esce dagli schemi razionali e spesso non ha una spiegazione soddisfacente alle spalle. La mente dei serial killer incuriosisce e ispira centinaia di registi i quali ogni anno sfornano film e serie tv che esplorano questa tematica; non è un caso che la seducente scienza forense sia stata soprannominata “sexy science”. “Vorrei ricordare gentilmente a tutti che ci sono migliaia di uomini sexy sulla piattaforma – e quasi tutti non sono dei serial killer”, ha ironicamente twittato Netflix pochi giorni fa, preoccupata per i centinaia di post dei suoi utenti, anzi delle SUE utenti, che dopo aver guardato Conversazioni con un killer, si sono espresse sui social in maniera entusiasta nei confronti del carismatico Ted Bundy. Un serial killer, ma anche un’icona pop al pari di Charles Manson, su cui si è detto e scritto tutto ciò che da raccontare c’era, lo abbiamo fatto anche noi su Nocturno n.183, all’interno del dossier Serial Killer. La particolarità della docu-serie in quattro puntate diretta da Berlinger sta nel fatto che a raccontare quella che, ormai, è una storia nota, sono le parole dello stesso Bundy, estrapolate da 100 ore di registrazioni audio che  i giornalisti Stephen Michaud e Hugh Aynesworth hanno realizzato nel braccio della morte tra il 1980 e il 1981. Si ricostruisce tramite questa lunga intervista la storia di Bundy, dall’infanzia all’esecuzione, attraverso filmati d’epoca, stralci di giornali, video dei lunghi processi e tante fotografie, anche delle scene del crimine. Ma soprattutto molte interviste, partendo da Michaud e Aynesworth, passando per amici d’infanzia, detective e avvocati.

Con alle spalle una trentina di vittime accertate e più di 50 sospette, Bundy non confessò mai i suoi omicidi, se non il giorno prima di essere fritto sulla sedia elettrica, cercando invano di ritardare la pena. La geniale intuizione dei due reporter, che dopo i primi incontri non riuscirono a ricavare uno scoop, fu quella di spingerlo a parlare in terza persona: chi, secondo lui, poteva aver commesso quelle efferatezze? Finalmente Ted poteva raccontare la sua storia senza dire nulla per cui potesse venire citato in giudizio. Tramite questo escamotage il killer si racconta e Berlinger, attraverso le sue parole, descrive benissimo tutta la sua vita, a partire dall’infanzia. Un passato senza particolari traumi, vissuto principalmente con i nonni materni, senza aver mai conosciuto il padre, frequentando la chiesa e facendo il boyscout – ironia della sorte, Ted vinse una medaglia per aver salvato un bambino che stava affogando (questo la serie non lo dice). L’immagine che ci viene restituita è duplice: da una parte l’ambizioso e affascinante studente di legge che vuole entrare in politica, fidanzato con una ragazza dell’Upper Side. Dall’altra quella del serial killer lucido e spietato, che prova un piacere sessuale nell’uccidere brutalmente giovani donne, per poi lasciarsi andare ad atti di necrofilia e sevizie raccapriccianti. Lo stesso Michaud, nel documentario, racconta di come Bundy fosse un camaleonte sociale, in grado di apparire esattamente come gli veniva richiesto dalle circostanze. Toccanti le dichiarazioni Carol DaRonch, una ragazza che nel ’74 riuscì a scappare dalle grinfie dell’omicida salvandosi la pelle. La tattica descritta nella serie è quella divenuta marchio del serial killer: un finto braccio ingessato diventava il pretesto per cercare aiuto da giovani ragazze, per esempio per sistemare il surf sul Maggiolino Volkswagen.

Dalle due fughe dal carcere alla proposta di matrimonio in aula, la vita di Ted Bundy viene raccontata andando avanti e indietro nel tempo, senza tralasciare il circo mediatico che si creò durante il lungo processo in cui il serial killer più narcisista della storia decise di difendersi da solo. Ma se da Conversazioni con un killer: Il caso Bundy  vi aspettate una spiegazione, un perché di tale violenza allo stato puro, in modo da poter dormire sonni tranquilli, siete sulla strada sbagliata. Non c’è un reale scavo nella profondità di quella che è diventata un’icona, non c’è un significato nella follia, così come non troverete i motivi che lo spinsero a uccidere senza pietà. D’altro canto nemmeno la stessa Ann Rule (che purtroppo nel documentario non vediamo), ex poliziotta divenuta amica e confidente di Bundy all’epoca in cui il ragazzo lavorava presso una linea telefonica anti-suicidio, non sospettò mai nulla. Nel suo best seller “Un estraneo al mio fianco” parla proprio dello shock che provò quando seppe che quello che considerava un uomo-modello era il serial killer più spietato d’America. Conversazioni con un killer: Il caso Bundy inquieta e inevitabilmente affascina, così come affascina il lato oscuro della mente umana, lo stesso che ha spinto Berlinger a sbobinare 100 ore di nastro per realizzare la sua serie e, non contento, anche un film prossimo all’uscita: Extremely Wicked, Shockingly Evil and Vile – che sono anche le parole pronunciate dal giudice mentre condannava Ted Bundy a morte. Nel film l’immagine di quello che è stato definito “il ragazzo che più tappezza le camere delle adolescenti” (Zac Efron) e quella del serial killer più pop della storia della cronaca nera, si sovrapporranno. Prepariamoci a sentire acute urla femminili, di terrore e di adorazione.