Venga a prendere il caffé da noi

Il rito della tavola e del sesso nel film di Alberto Lattuada
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È a tavola, a un bel desco apparecchiato a festa, nel cuore di una villa sepolta all’interno di un giardino secolare e difesa da spesse mura, che si compie il rito che dà il nome al romanzo di Chiara, La spartizione, travasatosi poi nel film di Alberto Lattuada Venga a prendere il caffè da noi (primo ciak il 24 novembre del 1969, per la Mars Film Produzione, di Maurizio Lodi-Fè, con interni presso gli stabilimenti milanesi Icet ed esterni a Luino). Rito complesso, officiato dal commensale maschio, Emerenziano Paronzini (Ugo Tognazzi), sotto gli occhi delle sue tre ospiti femmine, le sorelle Tettamanzi, Fortunata, Tarsilla e Camilla (Angela Goodwin, Francesca Romana Coluzzi e Milena Vukotic). Di tre mele, che l’uomo ha avuto la ventura di pescare dall’alzata di porcellana, tocche e parzialmente marce, egli con abile mossa chirurgica, tagliando e secernendo la polpa sana da quella mezza, ricava un nuovo frutto completo e commestibile nella sua totalità. Lo stesso miracolo che il Paronzini si appresta a compiere e compirà sulle carni delle tre Tettamanzi. Delle quali sposerà l’una, la maggiore, Fortunata, gustata la quale passerà ad assaggiare, notte dopo notte, le altre due, Tarsilla e Camilla, ricavando da ognuna il meglio – la chioma fluente, le gambe e le mani – e non considerando tutto quello che in ciascuna delle tre è, nel fisico, vile e persino ripugnante. Quel desco è una sorta di proscenio sul quale il Paronzini si esibisce ed esibisce, soddisfatto, l’appetito del ventre, facendosi filosofia esistenziale, travalicante la bassa animalità.

Venga-a-prendere-un-caffe_2-1Lattuada, nel film, ne ricava una deliziosa scena in cui l’Emerenziano – che porta un nome contorto e serpentiforme (l’onomastica chiariana è tra i pregi inarrivabili della sua arte), al pari delle tre femmine cui si accompagna e che sono fuoriuscite dal serraglio dei lombi impazziti del padre, botanico e sperimentatore di incroci vegetali portentosi, il fu Mansueto Tettamanzi – sciorina alle tre sorelle quel che gli accadde durante la guerra (che nel romanzo era la Prima Grande Guerra, sullo schermo è la Seconda): la morte dei commilitoni colpiti dai cecchini nemici, mentre trasportavano traverse di acciaio nel fango e nella merda. Un momento importante, poiché definisce la coscienza del Paronzini, ne spiega la natura, che è diventata rapace di piacere – a ciò si vuole arrivare nel film – dopo il piombo, il fango e lo sterco “fin qui” della guerra d’Albania. L’esibizione teatrale, drammatica e patetica (come pathos) dell’uomo giunge al culmine del pasto, illustrato con un montaggio rapido (di Sergio Montanari) e sapido al pari delle pietanze che passano tra le potenti dentature dei commensali («All’ospedale militare di Bologna, il colonnello medico mi aveva dato questo consiglio: “Con l’ultimo sorso di vino, sciacquarsi energicamente la bocca!”. Beh, voi non ci crederete, ma io non sono mai andato dal destista!»), che triturano lessi, arrosti, caprini, salse rosse, mostarde, uve e fichi, cibi dalla complessione calda e grassa che servono a foraggiare le energie che l’uomo (“più della donna”) spende nelle battaglie d’amore. La sinfonia, che come tale è suggerita oltre che dal montaggio, dal commento sonoro, del pranzo del giorno di Santa Prisca Vergine, il 18 gennaio, cuore dell’inverno, quando stare con le gambe sotto il tavolo, al caldo del camino, è l’optimum, traduce sullo schermo qualcosa che nel romanzo di Chiara è più soffuso, implicito e scontato nella situazione del Paronzini che ha trovato, tra le mura di casa del fu Mansueto, ciò che andava cercando, cioè le tre C: Caldo, Comodo e Carezze, cui è necessario aggiungere la quarta C, ovvero il Cibo.

È vero: il sesso dovrebbe definire e di fatto definisce l’appetito primario dei personaggi del film e la “spartizione” del titolo chiariano, come già si è detto, è la distribuzione che il Paronzini fa di se stesso alle tre sorelle o, considerata dal punto di vista di queste ultime, la ripartizione che le Tettamanzi operano (o meglio: alla quale tacitamente acconsentono) dei servigi maritali dello sposo di Fortunata, che, essendo per così dire una e trina, cioè quasi consustanziale a Camilla e Tarsilla, diventa anche lo sposo delle restanti due. Ma l’appetito del ventre è non meno importante e centrale di quello del basso ventre. Una delle prime frasi che Tognazzi pronuncia nel film è rivolta alla fantesca della trattoria dove abitualmente pranza, quando osserva che il brasato che gli è stato servito, era fatto con del vino di comodo e non con il Gattinara. E ciò che decide l’Emerenziano a dichiarare a Fortunata l’intenzione di sposarla (parliamo sempre del film di Lattuada) è la visita alla cantina delle Tettamanzi, munita di preziosissime riserve alimentari, su cui primeggiano un “violino” appeso (“Cosciotto di capra essiccato al sole dei duemila metri del Gran Paradiso”) e il prezioso bottigliame del vecchio Mansueto (“Annata 1955, Brachetto: il massimo!”). L’itinerario del viaggio di nozze predisposto dal Paronzini, compendia perfettamente tutto quello che si è venuti fin qui dicendo: “Bologna: culatello, tortellini doppia panna, Sangiovese; Firenze: trippa alla fiorentina, vino di Montelupo; Pompei: sex proibito, Venere, Gragnano”. Nel romanzo non c’è tale planing sessual-gastronomico, ma è nelle cose della pagina di Chiara che il viaggio di nozze del Primo Archivista sia andato dipanandosi proprio così, sulle golose tracce di Priapo e di Apicio.

Venga-a-prendere-un-caffe_3Certo, sarebbe bello sapere di chi, in sceneggiatura, fu questa idea dell’insistere culinario, che nel romanzo è un dato sottaciuto, seppure ovvio, scontato, silenziosamente immanente. Molte, lo diciamo ora, furono le mani al lavoro sul copione: di Chiara stesso, di Lattuada, di Adriano Vittorio Baracco (Buzzoni), di Tullio Kezich (nelle carte ministeriali figurava in un primo tempo anche il nome di Maurizio Lodi Fé). Baracco e Kezich avrebbero lavorato indipendentemente, a due differenti stesure del copione a partire dalle quali si arrivò allo script definitivo, che, tuttavia, teste Kezich, del lavorio suo e di Buzzoni non conservava “nemmeno una sillaba”. Ma a chi risaliranno, dunque, battute bellissime, come quella che il Paronzini pronuncia al termine del primo pranzo in casa Tettamanzi, della quale egli, idealmente, ha già preso possesso per sempre, col solo infilare il proprio piede oltre le mura a baluardo di quel piccolo mondo prezioso: «Non mangiavo così bene dal banchetto della Cassa di risparmio di Gavirate! Pensate, un intero menù tutto a base di funghi!». E qui era probabilmente Lattuada che riusciva ad essere più chiariano di Chiara stesso. Anche a conclusione della storia, stravolta dal film rispetto al romanzo, rientra questa dimensione trofica, che nemmeno il coccolone che ha colpito il Paronzini per sovrabbondanza di esercizio del membro e delle mandibole, riesce ad arrestare. In Chiara, il corpo defunto del protagonista viene strumentalizzato per propagandare una inesistente fede fascista del Primo Archivista, apopletizzato durante l’ultima delle sue maratone notturne nelle stanze da letto delle Tettamanzi, ma fatto passare quale martire della camicia nera. Sullo schermo, Tognazzi non muore. Rimane offeso, in carrozzina, accudito dalle tre sorelle che lo hanno sposato e che, durante la passeggiata della domenica, gli comperano, a un suo muto cenno, un cono di panna montata. Ancora la gola, lo stomaco, il ventre. Caldo, carezze, coccole e cibo, sì: ma ora, a che prezzo! Dopo un paio di veloci lappate, con una linguetta da gatto, il cono viene gettato via. E si spiaccica a terra. Che resta il miglior finale messo a sigillo di un adattamento da Chiara, altrettanto quanto il film di Lattuada resta, nel suo complesso e nella sua complessità, ciò che di più vicino allo spirito del luinese era lecito pretendere in cinema.

Del romanzo pubblicato in prima stampa da Mondadori nel marzo del 1964, pare che Lattuada avesse avuto contezza grazie al suggerimento della moglie, Carla Del Poggio, che lo aveva letto e lo portò alla sua attenzione. È un fatto che già verso la fine del 1964, i diritti per una riduzione cinematografica erano stati acquisiti da Lattuada e nel 1965 la lavorazione del film era data come cosa imminentissima, anche dallo stesso Chiara, visto che invitava Mondadori a pubblicarne un’edizione negli Oscar che avrebbe intercettato l’uscita nelle sale della pellicola. Invece, ancora per tutto il 1966, la quadratura del film stagnò, emergendo solo la notizia che Marcello Mastroianni era stato scelto come possibile protagonista e si era detto disponibile. Ma Lattuada dal giugno di quell’anno era passato a dirigere Don Giovanni in Sicilia e si sarebbe riavvicinato al progetto solo all’inizio del 1968, quando gli sviluppi di sceneggiatura di Kezich e di Bolzoni erano stati ultimati, andando incontro, pare, a trasformazione sostanziale, che a questo punto è lecito ritenere sia stata operata da Lattuada stesso, col nume di Chiara a sovrintendere. Fu lì che tramontò anche l’astro di Mastroianni, altrove impegnato, a favore di Ugo Tognazzi.