Questione di un istante
Gabriele Gasparotti e le Porte aperte del Paradiso
Le Porte del Paradiso, il tuo corto, arriva a bersaglio a partire della forma. L’impressione regina – e prescindo dai contenuti – è che sia stato girato con uno stile che non ha niente a che fare con l’attuale. Ha un impianto, un impatto, soprattutto nei “tagli”, molto cinematografico. Fa venire in mente il cinema…
Le Porte del Paradiso nasce, anche, da un “movimento critico”, mio, interiore, nei confronti di ciò che mi circonda. Voleva essere una risposta a un certo un tipo di omologazione che noto nella produzione contemporanea, una certa banalità: spesso ascolto o vedo cose che mi lasciano inerte, seppur fatte bene, seppur straordinarie dal punto di vista tecnico. Quindi, ho cercato di realizzare qualcosa che potesse colpire lo spettatore, che gli lasciasse una traccia, un segno. Le Porte del Paradiso è completamente indipendente, come i miei dischi, ma l’ho concepito e girato perché piacesse in primis a me e andasse a colmare questo vuoto che sento intorno. E il taglio che gli ho dato mira ad evocare una realtà magica che attragga lo spettatore, che sia accogliente, ma nello stesso tempo inquietante, perché vibra di qualcosa di diverso dalla realtà cui siamo abituati.
Introduci il tema del realismo magico. Associato alla fuga dall’ovvio, dal banale…
Sì. Per questo ho cercato di mettere in ogni inquadratura un “trucco”, usando solo un linguaggio cinematografico, raccontando una storia, creando un mondo che fosse possibile realizzare solo con mezzi cinematografici. Effettivamente, ho voluto mantenermi distante anche dallo stile dei videoclip. Ricordo che quando presentai il mio disco Extrema ratio, e avevo realizzato i video Muga Muchū Morphing Theater, già allora insistevi su questa sensazione, che non fosse “linguaggio da videoclip”, ma che richiamasse il cinema…
Questo è vero…
In effetti, mi sono ritrovato in questo apprezzamento: perché non avevo in mente il videoclip “canonico”… I miei cortometraggi, in generale, sono sempre senza audio ambientale e senza dialogo. Hanno la musica, come se fossero un videoclip, però si discostano dal videoclip, che ha un linguaggio che a me non piace particolarmente, perché è molto finalizzato al commercio. Anche se, ovviamente, ci sono dei lavori bellissimi. Stavolta volevo raccontare una storia un po’ alla Eric Rohmer… le figure di queste ragazze, il clima da vacanza, la gita nella natura… cioè, una realtà concreta, che però in Rohmer è mostrata così com’è, mentre nelle Porte del Paradiso viene “scomposta”, attraverso una lente che focalizza il magico, di questa realtà. In Rohmer non c’è musica, o meglio: non c’è commento sonoro, extradiegetico, che apparentemente sembra essere il contrario del mio lavoro. Invece, qualcosa in comune c’è: nei suoi film, quando ascolti una musica, è perché un personaggio mette quella musica, ad esempio durante una festa, al momento del ballo. Una ragazza mette un disco, parte la musica e quindi nel film c’è la musica.
Musica diegetica…
In Le Porte del Paradiso, la musica c’è nel momento in cui vediamo il filmato delle ragazze, cioè la realtà ripresa e montata, che diventa, quindi, una realtà magica. Ma nella realtà vera, quella che appare a metà del corto, in cui arrivo io nella sala di montaggio e metto il sonoro sul montaggio video, li non c’è più musica: si sentono solo i rumori degli apparecchi, il registratore audio e il proiettore Super 8, con cui sto montando l’audio al video. A me non piace la musica come commento sonoro: infatti la musica per me nasce come script, se vuoi, o come fiamma che dà origine allo script e alla narrazione. Non è un commento, ma l’origine vera del racconto. E poi, sempre in parallelo con la musica e il video, nel corto ci sono alcuni elementi, tipo magari un fiore oppure l’uomo bendato, che compaiono per dare un “colore” in un determinato momento, ma poi spariscono. Ho chiamato in causa Rohmer, ma potrei dirti che anche il cinema di Jean Rollin è presente in traccia nel corto. Storie di ragazze, luoghi bucolici… Ci sono le ragazze in questo viaggio verso non si sa cosa… Con Rollin si evade dalla realtà, con vampiri e altri elementi sovrannaturali…, invece nel mio si tratta, piuttosto, di uno “sfasamento” della realtà: qualcosa che dovrebbe essere in un modo, è in un altro modo, come se ci fossero degli spostamenti del terreno su cui poggia la realtà. Ed è il riverbero del concetto di Tropismo…
Il discorso è denso. Facciamo però un passo indietro e partiamo dalle origini: Le Porte del Paradiso si sviluppa da un tuo pezzo musicale…
Sì, da quest’ultimo mio disco, che si chiama Tropismi, ed è a sua volta collegato al precedente, Instantanee. Cosa succede? Istantanee era un lavoro centrato sul tempo, inteso come Kairós, l’antico concetto greco dell’“istante imprendibile”: il καιρός è il momento in cui sgorga la realtà, il fluito prossimo, quello che arriverà. Instantanee si è sviluppato da questo concetto. L’essere umano, l’artista, nel cogliere questa idea fuggevole, questo attimo, è un po’ un medium: è come se fosse baciato da uno stato di trascendenza, in qualche modo…
Di “illuminazione”…
Esatto. Già in Muga Muchū Morphing Theater aleggiava un concetto simile: Muga Muchū in giapponese indica, infatti, “l’essere fuori da sé” – è un termine che viene usato anche per i sopravvissuti di Hiroshima, a indicare una condizione in cui si è “spossessati” dalla natura di esseri umani: “Non si è più quello che si era prima”. Ma la sua radice allude a qualcosa di trascendentale, di metafisico… Ho il ricordo che allora parlammo, infatti, della rappresentazione di questo stato mentale, spirituale, che si è tradotto letterariamente, ad esempio, nel concetto del “Patto col Diavolo” faustiano… Sei come “fuori da te” e doni le tue energie a quello che stai creando, senza renderti conto che, magari, hai passato dodici ore a scrivere il tuo libro o a comporre la tua musica. È come essere fuori dal tempo. O meglio: come se ci fosse un inizio del mondo in ogni istante. In Instantanee – parliamo del 2019 – cercavo infatti di cogliere l’idea come veniva, come arrivava. Cioè, avevo l’idea e cercavo di svilupparla nel modo più veloce possibile. Avevo visto anche una mostra fotografica, in cui l’autore prendeva degli elementi, veramente poveri, minimi, li disponeva in una stanza e scattava delle foto: mi aveva affascinato. Anche lì ritrovavo la suggestione dell’ “istante” , del momento in cui devi cercare di cogliere una certa luce… Tutto questo mi ha portato a tentare di trasferire nella musica l’idea dell’“istante”, cioè qualcosa che fosse il più vicino possibile a quello che mi arrivava e Instantanee era nato da questo stimolo, da questi stimoli congiunti…
Quindi, approcciare l’ispirazione musicale con la stessa modalità e rapidità con cui si fissa un’immagine…
Sì. Ho provato a farlo. E con Istantanee, nel giro di una settimana venne fuori il disco. Certo, dopo ci ho lavorato sopra, però sono dieci pezzi nati in una settimana, davvero di getto.
Se afferro bene, aveva a che vedere con il “captare”… come posso dire?… i “demoni” nell’aria…
Era diventata anche un’esperienza spirituale, assolutamente… C’era qualcosa che mi portava vicino a letture che avevo fatto, a esperienze, anche meditative, cui mi dedicavo. Sperimentavo l’essere fuori da sé e dentro una dimensione più profonda: l’atto creativo, comportava uno “spossessamento”….
Ti faccio una domanda da un milione di dollari: ma in questi casi… perché è un quesito che, spesso, mi sono posto. È come se queste “cose”, prima li ho definiti “demoni”, in qualche modo esistessero fuori da noi e noi li captiamo? O è un processo di altro tipo? Se devo scrivere, ad esempio, una frase, posso scriverla in molte maniere, ma “so” che esiste una maniera giusta e vado a caccia di quella. A volte ho la sensazione di essere riuscito ad acchiapparla, infatti poi la rileggo e mi rendo conto che doveva essere in quel modo. Poteva essere scritta magari meglio, non dico di no, ma io la dovevo scrivere in quel modo…
Questo era ciò che aveva cominciato a frullare nella testa anche a me… Mi domandavo se dovessi approcciarmi nel modo più spontaneo possibile all’atto creativo…. Su Extrema ratio, ad esempio, mi ero concentrato un casino, però, alla fine, certe cose capivo che avrebbero potuto essere meno “elaborate”. E sarebbero state più fedeli, forse, a un concetto iniziale, ecco, a “quello che dovevano essere”. Instantanee volevo che fossero la cosa più spontanea possibile, che non “tradissero” l’ispirazione del momento. Quindi, cosa ho fatto? Ho detto “basta”… Con i sintetizzatori avevo delle patch… che erano un po’ degli studi, e ho iniziato a svilupparli, in modo che venissero dei pezzi. Ne facevo tre o quattro, … tre di solito, come se scattassi tre foto, e ne sceglievo una. Poi iniziavo a lavorarle “in camera oscura”, cioè in studio col mixer: e tiravo fuori un dettaglio sonoro di più. Dentro un suono, magari chiudi le frequenze alte e senti che nelle medie salta fuori qualcos’altro e che esiste un ritmo, tra questi battimenti elettronici. Come se da una foto, facendo l’ingrandimento, ti trovassi a scoprire dettagli prima ignoti. Non so… hai presente in Blow Up quando nella fotografia del cespuglio sembra di vedere la pistola? Ecco, è un po’, traslato nella musica, il medesimo discorso… E arriviamo così al “Tropismo”. Mi sono accorto che l’”instantanea”, in ogni caso, è impossibile. Devo precisare che io uso ancora apparecchiature degli anni Settanta, non computer, quindi i suoni elettronici sono circuiti, frequenze elettriche: c’è un circuito che si chiama “oscillatore” e produce delle vibrazioni, udibili, poi ci sono vari filtri, l’amplificatore con il quale tu modifichi il suono. C’entra anche la corrente che gira nella stanza… Uno dei sintetizzatori che uso è sensibile anche al tatto, ovvero: se lo suoni tu, produce un suono, se lo suono io, ne ha un altro, perché “prende” anche l’elettricità del corpo e, in certi punti, non suona nemmeno. Una volta andammo a suonare in un cimitero: cinque volte ci provammo, e non funzionava, mentre in un altro camposanto funzionava perfettamente. In una chiesa, il sintetizzatore non andava in alcun modo: per quanto mettessi dei fili di ferro per fare lo scarico a terra, non c’era niente da fare. Alla fine ci siamo riusciti, stendendo un telo di plastica sul marmo e facendo scaricare i fili su me stesso. Ma appena mollavo il filo, lo strumento non andava più. Tutto questo per dirti quanto il sintetizzatore che uso è sensibile e quanto l’ambiente può influire sul suo funzionamento. Per esempio, se io venissi qui a casa tua, coi miei strumenti e volessi registrare un pezzo, la riverberazione in questa stanza, di questa stanza, avrebbe un peso. Anche il mio modo di essere, nel qui e nell’adesso, influirebbe…
Esistono delle variabili, che sono funzione del luogo, del momento e della persona…
Sì… Mettiamola così: il modo in cui l’idea d’origine si evolve, “si sporca” inevitabilmente dell’ego della persona e del momento. Dopo avere fatto il disco Instantanee – che aveva la copertina bianca, proprio per rendere un concetto di “purezza” – ho capito che, suonandolo dal vivo, da locale a locale, da teatro a teatro, il suono, l’idea, cambiava… E il passo successivo è stato domandarsi come essere fedeli, allora, a questo “daimon” che ti suggerisce l’idea. Mi venne in mente una frase di Gustavo Rol: “Io sono la grondaia”. Che esprimeva bene il concetto di far passare, incanalare, canalizzare qualcosa. Però la grondaia è sporca… È sporca dell’ego, perché anche se pensi ai grandi medium, i messaggi che ciascuno riceve, che canalizza, inevitabilmente li “sporca” un po’ della propria cultura. Non so… prendi Don Juan di Castaneda, che ha alle spalle tutto quel suo mondo che attinge allo sciamanesimo sudamericano. In Europa abbiamo le figure degli angeli, tanto per dirne una: agisce sempre il diverso retroterra culturale… Così, mettendola su un piano più creativo, ho riflettuto: “L’idea, che venga da un’altra parte o che sia una sommatoria di cose, e che poi a un certo punto sboccia, non sarà mai pura”. Ma lì ho scoperto anche l’esistenza di un fenomeno, il “Tropismo”, che in biologia indica il movimento di un organismo verso qualcosa che lo nutre. Un concetto che mi pareva applicabile anche all’idea creativa, come se si muovesse verso “un di più”. Un movimento che è alla base della vita, dell’universo. E mi è venuto in mente che era applicabile anche al suono… C’è un libro, Tropismes, di Natalie Sarraute, una scrittrice del Nouveau roman francese. Viene considerato, tra l’altro, il libro capostipite del Nuovo romanzo, ancor prima che Robbe-Grillet ne formulasse il manifesto. Robbe-Grillet citò la Sarraute e il suo testo, del quale avevano tirato pochissime copie e che nessuno si era filato. Lei veva scritto due libri, Tropismi e Ritratto di ignoto. E questo Tropismi è interessante, perché la Serraute focalizza l’attenzione sui movimenti dell’essere umano, interiori, che nelle situazioni, nella storia, nell’incontro con gli altri, si modificano continuamente.
Ma come hai trasferito il concetto di “tropismo” nel campo della musica, del suono?
Sono partito dal suono primigenio: il Big Bang. L’origine del suono, no? Cioè, l’origine di tutto. E nelle Sacre scritture si fa sempre riferimento a questo, anche nel Vangelo secondo Giovanni…
In principio era il Verbo…
In principio era il Verbo, cioè il suono. Quindi, scienza e spiritualità sembrano confluire tutte lì: l’inizio si collega al “Suono”. Ha iniziato ad affascinarmi, il concetto di un suono, primigenio, che ha dato origine a tutto, espandendosi dentro questo universo, che non è un “infinito finito”, ma un infinito in espansione. C’è un saggio molto interessante: Ascoltare l’universo. Dal Big Bang a Mozart, di Tomatis, su questa teoria che tutto è vibrazione, tutto è suono. E in effetti sembrerebbe essere così: se scomponiamo la materia, sotto, alla fin fine, non c’è più nulla, solo vibrazione. Un colore ha una determinata vibrazione, un altro colore ne ha un’altra. La difficoltà era come riportare tutto questo, poi, alla musica, alla mia musica. È avvenuto così: scrissi la musica di Instantanee volume tre. Il 2 non era ma apparso, anche se avev scritto delle cose e voglio realizzarle, prima o poi… Non registrammo subito Instantanee 3, con Benedetta Dazzi: parliamo del periodo in cui stava uscendo il disco Extrema Ratio e dovevamo promuoverlo, per cui cominciammo a portare in giro prezzi di Extrema Ratio e poi pezzi da Instantanee, quello che avevo fatto da solo, e anche da questo volume tre. Avevo iniziato a suonare con Benedetta e davo una certa importanza alla sua parte, lasciandole la libertà di sviluppare le cose come voleva. Facemmo un bel po’ di concerti e passammo anche parecchio tempo in studio. Raccolsi ore e ore di registrato: registravo sempre tutto, anche i concerti. E lì, avvertivo come cambiavano le cose, da esecuzione a esecuzione. Così scegliemmo quelle che ci sembravano migliori, quelle che sentivano “dovessero essere così”. Abbiamo selezionato questi pezzi, che avrebbero dovuto diventare Instantanee volume tre. E invece mi sono detto: “No!”… Perché mi ero accorto che lì era intervenuto un tropismo. “L’istante” era andato verso qualcosa che lo aveva nutrito: io e Benedetta, il nostro rapporto insieme, dove eravamo e quello che era successo in questo tempo. Come si è espanso questo tempo, si è espanso l’universo: sono cose strettamente legate. E si è modificato anche il suono: io, fa’ conto, magari avevo iniziato con un suono del sintetizzatore e, ascoltandolo, ho immaginato altre cose, la mia mente ci ha suonato sopra altre cose. Perché tante volte parti da un suono e la mente, in quel suono, sente altre frequenze e se vai ad esplicitare questa linea, hai già un’altra musica. E quindi crei un pezzo, se riesci a seguire questa linea e le dai un senso compiuto. Così è nato Tropismi…
Nel corto, Le Porte del Paradiso, volevi – quindi – sviluppare anche con le immagini il medesimo concetto…
Una volta realizzato il disco, ho cominciato a domandarmi: “Con il video, come facciamo?”. Volevo qualcosa che rappresentasse il Tropismo: quello che era avvenuto con la musica, mi piaceva succedesse anche con le immagini. Tanti, magari ascoltando la mia musica, ci “vedono” una cosa, altri ne vedono un’altra… Nel caso del disco Istantanee, i titoli dei pezzi sono Instantanea 1, Instantanea 3, Instantanea 7: così, nemmeno erano sequenziali. Questo perché ho realizzato i brani in modo sequenziale, ma poi ho scelto un ordine per come suonavano bene in disco…
Non seguendo un criterio cronologico, “logico”…
Esatto. Però, i pezzi avevano comunque questi titoli, “Instantanea”. In Tropismi, invece, non avevo dato titoli ai pezzi. Perché? Ma perché, appunto, magari Davide sente/vede una cosa, e Tizio o Caio sentono/vedono qualcosa di diverso. È un po’ la magia della musica, no? Ma non volevo che fosse pilotata. Io fornivo all’ascoltatore soltanto materiale che lui poteva “usare” senza che il mio ego, la mia personalità, la mia immaginazione, la mia fantasia gli arrivassero addosso. L’ascoltatore, in questo modo, diventa anche autore, creatore.
Questo è un concetto, tra l’altro, che mi fa venire in mente Alberto Cavallone, che tu ben conosci e apprezzi quanto lo conosco e lo apprezzo io. Il concetto dell’interattività, del rapporto aperto con chi guarda un’opera, cinema, musica, letteratura non importa, che ne diventa in qualche misura anche autore. Anche per Maldoror Cavallone parlava di questo, citando le visioni di Lautréamont che lui aveva cercato di riportare sullo schermo, come di quadri che il fruitore poteva mettere insieme “in maniera molto interattiva”: e sto proprio citando la sua espressione…
Infatti, Alberto io penso che abbia sempre guardato con rispetto allo spettatore… E gli piaceva avere a che fare con l’intelligenza di chi aveva di fronte come pubblico…
Certo, anche se c’era poi una parte più “dura” in lui, che se ne fotteva di tutto e di tutti. Ma i suoi film, sì, erano intelligenti e si rivolgevano all’intelligenza dello spettatore… I concetti di Tropismi che mi stai esponendo mi pare vadano in quella stessa direzione…
Sì, infatti l’idea di questa trilogia di Instantanee è l’interattività con l’ascoltatore, che diventa anche autore.
La conversazione sta prendendo una piega interessante. Mi ci hai portato per gradi e ti sto seguendo molto volentieri su questa strada…
Allora, se tu vedi questa copertina del disco, di Tropismi… Instantanee era uguale, solo con la copertina bianca e con l’indicazione dei titoli dei pezzi. Invece qui, in Tropismi, su un lato c’è Instantanee 3 con i titoli barrati, cancellati e, accanto, la scritta, a mano: “tropismi”. Poi, se tu giri, sull’altro lato, trovi i titoli dei dieci pezzi: questo a significare che, per esempio, l’Instantanea nr. 31 è diventata Anabasi, l’Instantanea 33 è diventata Le Porte del Paradiso, il pezzo che ha ispirato il video, il cortometraggio, e così via. Ti voglio spiegare meglio, ricorrendo all’esempio del pezzo che si intitola, in Tropismi: Il mare le fa oscillare, ex Instantanea nr. 38 – sono tutte cose che esplicito anche nel booklet allegato al disco, che è stato fatto seguendo un concept ben preciso, che volevo fosse esattamente così come è stato confezionato. Mentre Benedetta suonava quel pezzo, io ho chiuso gli occhi… Quando registrai al pianoforte l’Instantanea nr. 38, la chiamai Le campane. Perché erano come delle campane subacquee, c’era questo tintinnio… Invece, quando Benedetta ha iniziato a suonare, ho chiuso gli occhi, e ho “visto” dei puntini luminosi che si muovevano, come fluttuanti, davanti a me.
Hai visualizzato e colto un’altra cosa, un’altra immagine…
Eh… E a un certo punto ho capito che quella era l’acqua nera del mare e i puntini erano i riflessi delle stelle che dal cielo si specchiavano nell’acqua. I riflessi delle stelle che lei faceva ondeggiare su queste note. E quindi l’ho ribattezzata Quando il mare le fa ondeggiare. Se non l’avesse suonata lei, in quel modo, quel giorno, non avrei magari visto quello, capisci?
Sì, la visione è mutata, si è direzionata verso qualcosa di diverso. Tropismo viene da Trepomai, che in greco sta a indicare il volgersi. Vicariamente ha in sé anche il concetto, appunto, di volgersi in una direzione differente… Ulisse era detto polutropos, versutus in latino, era l’eroe capace di volgersi a diversi obiettivi…
Verso cosa ci si volge? Il movimento a cosa tende, se a qualcosa tende? La domanda delle domande: l’infinito dell’universo stesso si espande di continuo, no? Ma verso cosa? Verso il non esistente, verso il Dio, che non esiste, che ci genera…?
Verso il Nulla… O verso qualcosa che gli antichi riassumevano nella formula dell’En to Pan: Uno, il Tutto… “Tutto si crea, tutto si trasforma e nulla si distrugge”…
Io non pretendo di avere risposte. Però, tu fai un suono, al pianoforte, produci una nota: dentro quella nota, non c’è una sola nota, ci sono tutte le armoniche, c’è la prima armonica e l’ottava, poi c’è un’altra ottava, c’è la quinta, poi un’altra ottava e poi una terza….. Questo per dirti che all’interno di un suono ci sono altri suoni. Se tu suoni una nota sul pianoforte, ok, la senti risuonare. Inizi a percepire queste armoniche, magari non la prima, ma la seconda volta. È come se tu vedessi un colore sempre meglio, e iniziassi a vederci dentro anche parte di un altro colore… Quindi, tornando a bomba: con le immagini, per il corto, cosa ho fatto? Sono partito anche lì dal suono. Ho applicato il tropismo partendo sempre dal suono. Quindi ho preso il multitraccia del pezzo, Le Porte del Paradiso, e ho iniziato ad ascoltare quelli che mi ricordavo erano i suoni da cui ero partito per registrare: come interagivano con la mia mente, quindi le immagini che suscitavano. Ho cominciato a vedere delle cose e a seguire come si muovevano, come si sviluppavano. Inforcavo anche delle strade buie, nel senso che magari non mi convincevano. Ma c’era questa storia, c’erano queste immagini che sembravano raccontare una storia, che ho iniziato a scrivere.
Mi hai parlato di una Trilogia…
Sì, è una Trilogia, di cui è stato per ora realizzato solo Le Porte del Paradiso, che è l’opera di mezzo, quella centrale. E parte del primo capitolo. Però l’idea era iniziare con Le Porte del Paradiso, perché era quella da cui era nato il tutto. La storia ha ipreso “a narrarsi” dalle Porte del Paradiso. Ho scritto ascoltando il suono, ma soprattutto è stata una cosa sempre molto improvvisata, nel senso che io avevo queste immagini, queste scene che avvenivano, però non è che poi abbia scritto una sceneggiatura, ecco. Ho proposto a Benedetta e a Carole Dazzi, che è sua sorella, di interpretare la storia. Perché nelle mie visioni c’erano due ragazze, che si muovevano in questo spazio e compivano determinate azioni. E la storia, poi, si narrava. Io però l’ho voluta raccontare scomponendola. Come è raccontata nel video, l’ho scomposta: nel senso che ci sono azioni che potrebbero essere avvenute prima o dopo. E se tu le spostassi, alla fine il risultato non cambia. Un po’, se vuoi, come era il progetto di quel film mai realizzato di Cavallone….
Quello da libro di Marc Saporta, Composition nr 1, con più rulli che in qualsiasi ordine proiettati, avrebbero dato una storia di senso compiuto.
Esatto, Saporta aveva fatto questo all’ennesima potenza, nel senso che il suo testo lo potevi rimescolare come un mazzo di carte e avresti ottenuto comunque una narrazione coerente. Era il concetto di libro permutante all’infinito… La narrazione frammentata in Le Porte del Paradiso presuppone, non so… cose tipo: qualcuno che appoggia il bicchiere in un bar e il bicchiere viene poi ripreso, ma chi ora lo ha in mano è una donna e non l’uomo visto in precedenza e anche il luogo, il contesto è cambiato… Sono un grande appassionato di Robbe-Grillet, come romanziere. Anche come regista ma soprattutto mi sono appassionato ai suoi libri. Il Nouveau Roman mi aveva, globalmente, molto affascinato, questa maniera di raccontare per frammenti, non lineare. Nelle Porte del Paradiso ho quindi cercato di prendere frammenti di immagini, di azioni, che magari iniziano da una persona o da un’attrice e vengono concluse da un’altra. Se io la storia non la narro dall’inizio alla fine, ma offro dei frammenti, sarà poi lo spettatore a raccontarsela: lo spettatore diventa regista. Così come per le ragazze protagoniste che vediamo riprese: io non voglio che si capisca se loro stanno facendo una gita e si stanno filmando o se il loro è soltanto un gioco. Loro ridono, anche: quando Benedetta tira fuori un coltello dalla sabbia, mi guarda e ride. Però dopo diventa seria. Esiste un’ambiguità: c’è un omicidio o non c’è? Stanno giocando o non stanno giocando? Le protagoniste non sono in due, ma sono in tre: c’è sempre un regista, c’è la sua mano sull’obiettivo, c’è lui che le chiama e loro si voltano a guardarlo… È come se fossero frammenti, di un film che doveva essere girato… e che il regista sta guardando proiettato su un muro – il regista sono io, interpreto me stesso. Insomma, come con la musica, volevo dare allo spettatore del materiale per crearsi la sua storia. Quel personaggio bendato, che appare per tre secondi, tutti mi chiedono: “Ma chi è quello? Perché appare così fuggevolmente, per poi non apparire più in tutto il video?”. E io rispondo: “Me lo devi dire tu, raccontarmelo tu per te chi è questo”. Volevo dare una sensazione di sogno, di queste ragazze che vivono in una terra senza tempo. Volevo che fosse un posto senza tempo: quindi ho usato una Cinquecento gialla, vestiti che potrebbero essere di oggi come di sessant’anni fa. Benedetta veste una camicia che era di sua nonna. Ho cercato di eliminare tutti i riferimenti al presente. E per accentuare il senso onirico, spesso il campo è fatto in un luogo e il controcampo in un altro. Oppure, le ragazze si invertono o cambiano vestiti. Giocano a Mosca cieca? Benedetta insegue Carole e, invece, nel controcampo le parti sono invertire…
Tu usi il termine “onirico”. Però Le Porte del Paradiso ha un aspetto materico, concreto. Non ha svolazzi “fantastici”, “fiabeschi” intendo dire: è molto qui, molto presente, molto circostanziato. Potremmo dire che è fatto della stessa sostanza dei sogni, però ha dentro materia, concretezza. Ha questa qualità del fisso da cui si sviluppa il volatile…
Sì, non volevo che fosse una cosa “sognante”. La storia può essere vera, appartiene alla realtà… una realtà ideale, diciamo.
La fotografia di una realtà che assume questi aspetti permutanti…
Surreali… come se la realtà, a un certo punto, “si modificasse”.
Anche dal punto di vista fotografico, il corto trasmette un’idea di assoluta immanenza, non si “sfilaccia”. Non sbanda nell’onirismo “di maniera”, che, francamente, ha rotto i coglioni…
Su questo aspetto del “concreto”, tra l’altro, se ci fai caso, le scene all’aperto sono girate come se fossero un filmino in pellicola. Volevo proprio che dessero l’idea del “filmino”, che avessero una “pasta” che richiamasse la pellicola. Sono girate in modo diverso dalla prima parte. Per avere quell’effetto, ho scelto una fotocamera Micro 4/3. Che sono più piccole e leggere e hanno il formato che è un po’ come il vecchio 16mm. Ho seguito le cose che esteticamente mi piacevano… e che fossero abbordabili, perché, comunque, Le Porte del Paradiso è fatto a budget zero praticamente. Avevo due videocamere identiche, una fissa sul cavalletto con la testa mobile e l’altra sul gimbal, così potevo fare le riprese in movimento. Ogni tanto l’ho un po’ destabilizzato, in modo che non fosse troppo fermo, oppure ho fatte riprese a mano, soprattutto nelle parti in movimento, all’aperto, perché volevo che avesse quell’effetto Super 8, in cui l’immagine trema sempre un po’. Anche la scena in cui c’è il cielo sovraesposto, è volutamente così, perché se tu lo giri col Super 8, te lo “bruci”, il cielo. Se due ragazze e un ragazzo o tre ragazze – al di là del fatto che dietro la telecamera c’ero io – vanno a girare un filmino che deve sembrare amatoriale, ci volevano elementi che trasmettessero qualcosa di amatoriale… Tutte le scene che io visiono proiettate sul muro, le ho passate in VHS, in modo che avessero un effetto “degradato”. Ho mandato indietro con il videoregistratore, ho digitalizzato, poi le ho messe nel proiettore e sembra che siano proiettate dal Super 8. In fondo, il cinema da cui provengo è quello di cui parla Nocturno.
Sam Raimi fece Evil Dead veramente con mezzi spartani… Con escamotages semplici…
Sì, anche se dietro c’è un lavoro della madonna, ti devi fare veramente un culo così (ride). Sai che un amico, tra l’altro, mi ha fatto vedere che una scena di Le Porte del Paradiso c’è anche in Evil Dead, quella dello specchio d’acqua… Io mica la ricordavo… Anche lì, se ti dico come l’abbiamo risolta, questa scena in cui Benedetta è davanti allo specchio nero e allungando la mano la immerge nella superficie che si muove come acqua… Tutta la prima parte del corto l’abbiamo girata a casa mia. I miei genitori, bontà loro, mi hanno permesso di sgomberare tutta la sala e di riarredarla. Quindi con Benedetta abbiamo preso una grande tavola, creando una parete finta, fasulla, identica a una vera, con un buco, grosso quanto la cornice di uno specchio, tappezzata con la stessa carta da parati (ne avevo un rotolo ancora in soffitta). Nel corto appare spesso questo specchio e ogni tanto riflette, ogni tanto non riflette. Per alcune scene abbiamo colorato la parete di marrone tendente al nero, così che, con l’esposizione della ripresa, risultasse nero. Quando Sara D’Aleo passa davanti a questo specchio, c’è un’altra persona di là, dietro la finta parete, che è Carole: sono in realtà due attrici… Ho usato tre attrici, anzi quattro come “doppi” di Carole. Anche mia madre l’ha doppiata, quando guida in macchina…
Cioè, hai creato un riflesso fasullo, in modo che lei si rifletta dentro un finto specchio e quella al di là dello specchio non è lei ma un’altra…
Sì. Ho giocato sul fatto che si assomigliano molto, le ragazze: Benedetta, la sorella Carole, Sara D’Aleo e Nimue Di Siena. Però non sono uguali. Se tu le vedi, dici: “Ma non si assomigliano, queste!”, mentre nel video si crea questa sovrapponibilità. Il “tropismo” ha investito anche loro… Ma si è sviluppato tutto dal suono: la storia, queste immagini… e però poi c’erano loro, sulle quali ho cucito certe immagini…
Il concetto di Tropismo può spingersi fino a livelli vertiginosi, alla fine… Infiltra completamente il corto di questo concetto di base, “permutante”…
Eh, capito? Cercando di tenerlo sempre presente, che non ti sfugga… Comunque, questo testo che ho scritto nel libretto del disco, è datato Milano settembre 2021: e il disco è uscito nel 2024, adesso. Sono anni che ci lavoro… Abbiamo iniziato nel 2019, con Benedetta, ad applicarci al progetto.
Quindi, a questo punto, tu hai creato la parte centrale della Trilogia, Le Porte del Paradiso. Con un prima e un dopo…
Sì, che ho già scritto. Del primo segmento c’è già anche qualcosa di girato. Solo che ci sono stati grossi problemi di produzione: perché si lavora a budget zero, ogni persona ha altri impegni, si va avanti nel tempo e quindi anche la vita di ciascuno cambia. Da parte mia c’è stata tenacia nel portarlo avanti. Inizialmente doveva essere soltanto Le Porte del Paradiso, che era anche l’ultima scelta per diventare materia di un corto, perché era la più folle. Anzi, non era nemmeno tra le scelte: puntavo su altri tre pezzi per fare il video. Perché, comunque, uscendo con il disco, devi promuovere l’album: io fondamentalmente sono un musicista. Le Porte del Paradiso non rientra nel numero dei pezzi “orecchiabili”, oltretutto: molto frammentato, inizia con una parte, poi c’è una parte di sintetizzatore, poi iniziano queste voci, tipo cori, che rimandano agli albori della polifonia, con un alone sacrale. Quindi, piano piano partono gli impulsi di sintetizzatore che portano alla parte finale del pezzo. La frammentarietà del brano, non lo pone tra le scelte per promuovere un disco, rispetto ad altre cose più orecchiabili, come Anabasi, che sarebbe, per esempio, il singolo perfetto. Infatti è il pezzo più ascoltato del disco, anche su Internet. Ma soprattutto il Tropismo mi ha portato verso Le Porte del Paradiso e non è stato nulla di forzato: tutto si è direzionato verso questo pezzo. Devo premettere che quando stavo al liceo feci un corto, Sampled si chiamava, ed ero entrato in contatto con il gruppo dei Cinematatori Apuani, legati alla Fedic, la Federazione italiana cineclub. Loro mi hanno sempre supportato e nel 2019 mi mandarono al Festival del cinema di Venezia, con uno dei miei cortometraggi, e lo presentarono all’interno del Futuro del corto d’autore: erano proiezioni fatte all’hotel Excelsior, Caspita, essere selezionati a un festival così prestigioso fu un’opportunità per portare a una vasta platea un prodotto underground e uno stimolo per me e la crew per continuare a lavorare nella direzione che avevamo preso. Tra l’altro, quando mi telefonarono per dirmelo, credevo mi stessero prendendo per il culo. Un corto girato con zero, tant’è che all’epoca mi avevano persino prestato la videocamera, che non avevo, e con un adattatore ci avevo montato sopra i miei obiettivi analogici. Anche Le Porte del Paradiso è stato proposto a Venezia nel 2023, ma non era la versione attuale del corto: era una versione demo, non integrale, in cui avevo inserito molto più materiale, che poi ho sfrondato. Ad esempio, la figura dell’uomo bendato, che nel final cut resta qualcosa lasciato alla fantasia dello spettatore, perché la completi e la spieghi, secondo quel rapporto interattivo di cui dicevamo prima.
Quando lo hai girato Le Porte del Paradiso?
Tutto il girato, che avevo raccolto tra aprile e giugno del 2023, lo montai per la versione vista a Venezia, che appunto era differente da quella odierna. Poi a Venezia abbiamo conosciuto delle persone, il corto era piaciuto tanto, e quindi ho cercato di rielaborane una versione integrale che era poi quella che avevo in mente in origine. E magari di trovare una distribuzione… Tornando al video: rientrati da Venezia, con Benedetta abbiamo elaborato il cut finale, le cui riprese sono finite ad aprile 2024: lo abbiamo fatto insieme, lei mi ha aiutato tantissimo, è stata l’unica altra persona che c’era sempre. Anche per le luci, perché negli interni sono molto curate e abbiamo fatto tutte le prove prima. Sai, magari c’è chi ti può dare disponibilità solo per tre, quattro ore e quindi tu sai che in quel tempo devi portare a casa il materiale. Con Benedetta, prima, prendevo la luce su di lei, studiavo l’esposizione, tutto il fuoco e poi dopo rifacevamo. Parlo di fuoco perché è tutto fatto manualmente. Anche lì deve uscire, entrare il fuoco: non può essere sempre a fuoco tutto.
Le Porte del Paradiso, dicevi, è a-temporale
Quindi, come tale, può anche essere uno sguardo verso il futuro…
Verso questo istante che è fuori dal tempo: l’ambiguità del Kairós, che non è afferrabile…
Nel momento in cui arriva nel tempo, è già uscito, perché è già passato.
Dovevi però finire di spiegarmi la scena che è simile a quella di Evil Dead…
Allora, c’è Benedetta che allunga il braccio verso lo specchio e quando ci infila la mano, vediamo che la superficie è acqua. Praticamente, ho usato una di quelle bacinelle, per stampare le foto e l’ho dipinta di nero. Abbiamo sdraiato la parete finta, per terra. L’importante era mantenere bene le stesse luci della ripresa della parete verticale, con lo specchio vero. Quella scena l’abbiamo provata un sacco di volte, l’ho fatta impazzire, Benedetta… Un altro snodo interessante è il finale in cui la telecamera sale e inquadra dal lunotto della Cinquecento. Si vede da lontano Benedetta che deposita quelle interiora o quel “qualcosa” che ciascuno interpreterà come meglio crede. E poi la telecamera gira intorno, c’è un piano sequenza lì, proprio intorno alla macchina. L’altra ragazza Nimue di Siena, che alla fine fa quel personaggio che è lo stesso che fa Carole, apre la portiera della Cinquecento ed esce, gira intorno alla macchina e va a prendere il sacco nella macchina con Benedetta e lo portano fuori. Però tutto in piano sequenza. Questa scena, per realizzarla, innanzitutto eravamo in sette, otto. Doveva iniziare in controluce, volevo che fosse in controluce. Doveva essere aperto il tettuccio della Cinquecento in modo che entrasse la luce. Però si vedeva il riflesso nel vetro della macchina, il mio riflesso mentre filmavo. Quindi ho dovuto creare una struttura di legno che due da dietro tenevano, con delle tende: una “camera oscura” mobile, insomma. Io ero l’operatore, ero completamente vestito in nero, con un passamontagna nero. La videocamera aveva tutte le scritte cancellate. Nel buio, la telecamera riprendeva solo quello che stava fuori: non si vedeva il mio riflesso. Ma è stata davvero un’impresa. “Facciamo un piano sequenza”; “Dai sì, che figata!”. Poi arrivi lì e scopri che c’è il riflesso, che la portiera della Cinquecento, se tu la molli, si chiude, quindi ci voleva qualcuno nascosto che la tenesse aperta… Altro aneddoto, divertente. Dovevamo girare una scena di quelle in cui le ragazze giocano a Mosca cieca e avevo deciso di farla in un campo, che si prestava benissimo. C’era anche un rudere, che si vede nel corto. Il problema era che questo campo era circondato da cartelli, con scritto “proprietà privata” e c’era un accesso da un cancellino arrugginito che bastava spingere, sul retro. Le ragazze di solito erano molto attente a non entrare in luoghi privati durante le riprese e mi chiedevano sempre se avessi chiesto i permessi. Ovviamente di permessi non ne avevo chiesti e quel giorno, però, dovevo girare. Quindi non sapendo a chi rivolgermi, la sera prima sono andato al campo e con le forbici ho tolto tutti i cartelli: “proprietà privata”, “divieto di sosta” e poi, con le pinze, ho svitato i bulloni di una cassetta delle lettere. La mattina dopo arriviamo lì. Dico: “Cerchiamo di fare in fretta!”, per non dare nell’occhio. “Ma di cosa ti preoccupi? Non ci sono cartelli”. Iniziano a passare un po’ di persone, finché arriva un tipo molto folkloristico che prende a inveire contro di noi, in un italiano tra l’altro abbastanza stentato, dicendo che non avevamo i permessi. Chi ci ha dato l’autorizzazione di entrare? Le ragazze, dopo un po’ che questo continuava a urlarci contro, vanno verso di lui: “Ma come si permette? Non c’è nessun cartello che indica proprietà privata”. Tutte belle e sicure, no? Io non ho detto nulla e quella sera ci sono ritornato da solo a rimettere tutti i cartelli e la cassetta della posta. Loro non hanno mai saputo niente, fino a che l’ho detto a Benedetta, solo qualche settimana fa… Ma il cinema è davvero una magia e farlo è bello, perché solo allora, operativamente, scopri un sacco di cose…