L’ALDIQUÀ – Kairo contro The Blair Witch Project

Verifiche sull’horror di oggi. Una rubrica di Emanuele Di Nicola
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Poco tempo fa ho rivisto due horror cult degli anni Duemila. Il primo è Kairo (Pulse) di Kiyoshi Kurosawa, datato 2001, di cui è recentemente uscito in sala per la prima volta l’altro capolavoro, Cure. Ventiquattro anni dopo ho proiettato Kairo sul muro bianco di casa mia, con un piccolo proiettore, di notte: l’esperienza è stata terrificante, perfino la gatta tentava di acchiappare i fantasmi dentro le immagini. Eppure il soggetto del film risulta inevitabilmente datato: è la storia – come molti sanno – di un sito internet embrionale che semina disperazione in chi lo visita, gettandolo nello sprofondo fino alla morte. Il giovane Taguchi, che all’inizio si avvolge una corda al collo e si impicca, produce una macchia sul muro nel punto in cui è spirato e “rivive” su un floppy, in cui appare proprio l’immagine del morto fissato da uno spettro… Due storie si intrecciano tra loro all’insegna di misteriose stanze proibite e soprattutto del sito che in homepage chiede: “Vuoi incontrare un fantasma?”.

Kairo (Circuito) parte da un assunto estratto dagli albori di internet: la solitudine nell’epoca del web. Ognuno, uscendo dal mondo e fissando lo schermo, diventa sempre più solo, depresso e angosciato, quindi non stupisce se gli spettri della rete ti avvinghiano a loro portandoti al suicidio. Oggi, però, alcuni elementi disseminati nel film sono cimeli del passato e fanno quasi sorridere: il modem analogico di fine secolo, la connessione pre-wifi che ci mette cinque minuti, i floppy disk… Ma per una sorta di magia nera tutto il terrore resta intatto. Penso per due motivi principali: da una parte la grande intuizione di Kiyoshi che, come tutte le menti geniali, anticipò quello che avvenne dopo, restituendo l’inquietudine della rete prima del dark web, delle blue whale e i suicidi in diretta, prima della fabbrica dell’odio e delle chat Incel di cui oggi parlano tutti. Insomma capì che nel web si annida un “fantasma”, un Male che diventa metafisico e colpisce spietato. L’altra ragione sta nella sua capacità di costruire l’immagine: in piena stagione J-Horror (Ringu era del 1998) allestisce alcune sequenze davvero terrorizzanti, in particolare una, ed esalta lo sguardo nipponico sul genere che è lento, strategico, implacabile.

Poi ho rivisto anche The Blair Witch Project, il cult indipendente americano del 1999 firmato dai due nerd Daniel Myrick e Eduardo Sánchez, che restò famoso per il suo incasso clamoroso: oltre 248 milioni di dollari worldwide da un budget di appena 60.000 dollari. Fu uno degli ultimi passaparola del “vecchio mondo”, prima che il web, i social e gli influencer sostituissero il bisbiglio dei compagni di scuola: “Andiamolo a vedere!”. Così feci all’epoca, a quattordici anni, e poi decidemmo di passeggiare in un boschetto di notte con la sublime idiozia dell’adolescenza. Rivisto oggi, il film è totalmente ridicolo: il classico mockumentary con movimenti casuali di macchina che non ha idea di dove andare a parare, generando confusione in quasi tutte le sequenze sperando nell’equivoco in chi guarda (non lo capisco quindi mi piace). La storia della strega di Blair non funziona da ogni lato la si voglia considerare, sia come scherzo tra amici, sia come spavento indie affidato al fuori campo, sia come possibili interpretazioni delle svolte o del finale, in cui furbescamente puoi vederci un po’ quello che ti pare. Insomma The Blair Witch Project regge solo una visione, funziona una volta, poi si sgonfia miseramente. Il suo unico merito oggi è lo storico rilancio di Cannibal Holocaust, il capolavoro a cui si ispira.

Perché un horror vince la prova del tempo e un altro no? La chiave del mistero non sta negli scenari o negli oggetti datati, presenti in entrambi. La differenza piuttosto la fa l’idea forte alla base, il concetto di ciò che fa davvero paura (il pozzo della rete contro l’ennesima strega) e soprattutto l’estetica, le sequenze minacciose e avvolgenti di Kiyoshi contro la camera a mano scomposta di Myrick e Sánchez: come sempre è questione di sguardo.

LE PUNTATE PRECEDENTI
#1 L’ELEVATED HORROR DOPO NOSFERATU
#2 WOLF MAN, LA BELVA È DENTRO
#3 “QUESTO NON È UN HORROR”
#4 HORROR E AI, C’È UN PROBLEMA
#5 THE SUBSTANCE E L’OSCAR AL MAKE-UP DA NON SOTTOVALUTARE
#6 L’ORRORE DELLA CELEBRITA’