Intervista a Riz Ortolani
Riz Ortolani, la musica, il mondo
Se ce lo consente, vorremmo farle nel corso di questa intervista delle prove di memoria, su tutti i lavori che lei ha fatto, anche se sono talmente sconfinati… e poi ogni brano è come un figlio e non si può dimenticare. Però, se ce lo consente, le faremo delle domande per una prova di memoria. E poi ci sarebbero delle domande da farle così, a bruciapelo…
Sulle amanti…?
No, delle domande a bruciapelo alle quali lei, se lo riterrà, potrà rispondere in maniera secca. Ma come prima cosa, le vorremmo chiedere come è nata la sua passione per la musica e quando ha cominciato a studiare musica, quale ruolo riteneva che avrebbe ricoperto all’interno di questo mondo, concertista, compositore?
Ah, difficilissimo… difficilissimo. Io arrivo da una famiglia di grandi amanti della musica. Mio padre aveva una grande passione per la musica e voleva che noi figli studiassimo musica. Era impiegato postale, però aveva questa grande passione e allora quando c’erano le bande suonava il trombone, quando c’erano le opere faceva il coro e quando c’erano le stagioni estive a Riccione, Rimini, suonava il contrabbasso. E ha suonato il contrabbasso anche con delle persone che facevano la professione, che suonavano il jazz. Non posso dire di essere nato in una famiglia di musicisti, ma quasi… Musicisti, sì, per via dei miei fratelli che hanno studiato musica, perché una sorella si è diplomata al pianoforte violino, un fratello si è diplomato anche lui in violino e poi invece ha scelto la carriera militare ed è diventato generale e lì ha finito, non ha toccato più il violino. Mentre io, bambino prodigio a 4 anni, non mi sono goduto nulla, perché andavo all’asilo e per fare un pezzettino tatta tattat tat ttttata (canticchia e fa il gesto di suonare un pianoforte, ndr) mi davano un cioccolatino, sa, queste cose così che si danno… però non è che fossi molto felice di vedere delle persone che mi guardavano.
Il mistero del suo nome…
Il mio nome è Riziero, il diminutivo, Riz, è nato quando sono andato alla Rai, perché dicevano che Riziero era molto classico come nome, e così hanno detto: «Facciamo Riz!». È stata forse Katyna, mia moglie. Ma è stato un peccato, perché a me piace più Riziero che Riz. Riziero mi chiamava solo mio padre, e mi sentivo importante quando mi chiamava: «Riziero!».
E Riz si scrive senza la “t”, giusto?
Sì, io non sono un hotel! Tutti i giornalisti hanno sempre sbagliato. Gli italiani hanno sempre sbagliato… Invece in tutti i posti in cui sono andato, Germania, Inghilterra, Francia, mi hanno sempre chiamato Riz nel modo corretto, senza la “t”. Io non sono una catena di hotel! L’ho smentito tante volte, ma loro continuano a scrivere “Ritz”. In alcuni film, addirittura, il titolista, sebbene avessero una lista scritta con il nome corretto, metteva “Ritz”. Questa è l’ignoranza.
Studiando musica, cosa pensava che avrebbe fatto?
Io ho studiato solo musica… forse dovevo studiare anche qualcos’altro. Ho studiato solo musica, ho continuato con il mio violino e andavo molto bene. E forse pensavo che sarei stato un buon violinista. Poi ho avuto un incidente automobilistico all’età di otto anni, mi sono fatto male a un braccio e non potevo prendere più la posizione del violino. E allora ho ripiegato sul flauto. Sono entrato al Conservatorio e ho fatto tutti i miei studi di armonia, di contrappunto e in più mi sono diplomato in flauto. Però, nello stesso tempo, all’età di 14, 15 anni, facevo tutte le stagioni… perché io sono di Pesaro… e allora facevo tutte le stagioni a Riccione, a Rimini, come pianista, in queste orchestrine. L’ho fatto mentre studiavo, anche d’inverno, ed era molto duro, perché non c’erano le possibilità di adesso. Lavoravo all’Arengo di Rimini dove si suonava fino alla una e mezzo o le due, poi dovevo andare alla stazione, aspettare tre ore e alle cinque c’era il treno che portava gli operai a lavorare. Prendevo quello, arrivavo a Pesaro alle otto del mattino e andavo al Conservatorio. Poi facevo anche molto le feste per i Comunisti che io odiavo moltissimo, vedendoli, perché avevano un comportamento terribile. E allora suonavo con la testa rivolta a un muro, per non vederli. E questa è stata la mia infanzia.
Lei è anche un grande orchestratore, riesce a orchestrare gli archi con una grazia, una delicatezza, una forza e allo stesso tempo riesce a orchestrare un’orchestra jazz, quindi i sassofoni eccetera con altrettanta perizia, come se venisse solo dal jazz o come se venisse solo dalla musica classica. Quindi una grande conoscenza di tutto il timbro orchestrale, che non le ha impedito, però, di utilizzare in alcune occasioni anche l’elettronica… C’è un film dove lei ha fatto un uso massiccio di questo strumento… (estrae uno strumento da un astuccio, ndr)
Cos’è, la sega? Ah, no, questo è il flauto basso… Sì, avevo un solista bravissimo, Gino Marinacci. Io ero un suo grande amico, suonava con me nell’orchestra della Rai che dirigevo. Finito il contratto Rai, verso maggio-giugno – le orchestre rientravano poi a settembre – ero lì e a un certo punto venne Marinacci: «Ciao Riz…!»; gli chiesi: «Ma dove stai andando?»; «Vado a riposarmi, ho preso una Porsche che non ti dico»; gli dissi di stare attento perché la Porsche sculetta… Ebbe un incidente con questa Porsche e rimase per molti anni invalido. Allora, io, non voglio dire per aiutarlo, ma proprio per averlo, per il piacere, perché era una persona che a me piaceva molto, scrivevo delle cose per farlo suonare… Lui suonava questo flauto basso e lo suonava benissimo, anche se è uno strumento molto difficile, ci vuole molto, molto fiato. Ora, per uno invalido in una carrozzella, era una sofferenza. Però, faceva delle cose. Con lui feci un progressive jazz, di un film che era Una sull’altra.
Cosa ricorda di quel film?
Che lei, Marisa Mell, era molto bellina, un po’ puttanella, però mi piaceva, ecco.
Fulci era difficile…
Ma che difficile! Era così, non scontroso, menefreghista. Se gli si diceva: «Ah, ma che bel film che hai fatto!», lui rispondeva: «Ma che mi importa…». Ma era tutto un atteggiamento. Una persona perbene, brava, preparata. Abbiamo fatto insieme più di un film, anche quello con la Bolkan, Non si sevizia un paperino. Lì c’era un tema per tromba ed archi che era…
Lei ha sempre creato, orchestrato, diretto tutta la sua musica da solo…
Ho vissuto in America perché ho lavorato con la United, con la Paramount, con parecchi altri, e hanno tutti gli orchestratori. La prima cosa che mi chiesero, infatti, fu se volessi l’orchestratore. Io mi sono rifiutato e loro se la sono presa a male. Perché hanno ragione loro: bisogna distribuire il lavoro, è inutile concentrare. Allora, io cosa faccio? Scrivo, poi orchestro e faccio tutto. Invece no, devo fare questo tipo di musica e poi devo cercare di avere un orchestratore o due o tre; John Williams ne ha sette di orchestratori. Cambia tutto, perché uno fa uno schema, dice: «Ecco, guarda, questo è così…» e quelli sono abilissimi nell’interpretare le tue indicazioni. Gli orchestratori americani sono bravissimi e non hanno velleità poi di diventare compositori e maestri. Invece, qua, se un arrangiatore fa una cosa per me o per un altro, immediatamente va vicino al regista e dice: «Sa che quello era un arrangiamento mio?». Ecco, questo è accaduto spesso. Abbiamo un carattere che è il nostro, non c’è niente da fare, siamo fatti così. Dobbiamo far sapere, è questa la cosa… Non c’è il rispetto del lavoro; perché il copista fa il copista, l’arrangiatore fa l’arrangiatore e il compositore fa il compositore. Se poi il compositore ha il talento di trovare dei tempi, delle cose e di scrivere qualcosa di interessante per poter dare poi questo materiale all’orchestratore… quello che poi cercherà i colori, cercherà il tipo di orchestra che deve mettere, capito? Che poi anche questo credo sia falso. Perché se io dovessi dare a un arrangiatore una cosa, io gli darei già tutto, gli direi come tutto va diviso, gli archi eccetera, le trombe… invece di metterle così me le metti strette eccetera eccetera… È anche facile, perché uno può impostare l’orchestrazione e poi farla fare.
Come ha cominciato a comporre musica per il cinema? Eravamo rimasti al periodo in cui lei studiava e suonava di notte…
Mi sono diplomato e lei capisce che a Pesaro avevo degli esempi molto grandi. Quando io facevo il Corso, perché là si faceva il Corso per fare la corte a qualche ragazzina, così, il mio pensiero era sempre non solo per la ragazzina ma per quello che avrei potuto fare nella vita. C’era un bar molto conosciuto, “Capobianchi” mi sembra si chiamasse, dove c’erano tutti i professori già diplomati al Conservatorio di Pesaro, che facevano la fame. Allora, mi dicevo: «Ma questa che è, la mia vita?». Mi avvilivo moltissimo, anche perché la mia non era una famiglia che avesse possibilità… se un musicista ha una famiglia che ha possibilità, non diventa un buon musicista perché non ha le qualità, questo è quello che ho sempre pensato. Il musicista deve arrivare da una famiglia dove non ci sono possibilità, non dico la fame, però… Io volevo andare all’Accademia di Siena per fare il perfezionamento, ma non l’ho potuto fare perché mio padre è deceduto. È finito tutto, capito? Mio padre era quello che più mi sosteneva. Così, dopo il diploma, mi sono spostato a Roma e ho avuto la fortuna di avere una sorella che era sposata con un giornalista, un’altra, non la violinista. Mi ha ospitato per un po’ di tempo, finché non ho iniziato a lavorare, facevo i tè danzanti, pensate un po’… Conobbi dei colleghi che erano in Rai e che facevano anche i tè danzanti o i night club. Mi cominciarono a chiedere che gli facessi piccole cose, arrangiamenti: «Ma ragazzi, non lo so fare io, non l’ho fatto mai!». Questo perché al Conservatorio non insegnano nulla, l’orchestrazione non esiste. Uno studia contrappunto, fuga… che poi, se ce l’ha in testa, lo fa in tutt’altro modo da come lo ha studiato. Comunque… Questi colleghi mi avvicinarono alla Rai, però premetto ancora un’altra cosa: feci un concorso al Teatro dell’Opera come primo flauto, avevo vinto ma non mi diedero il posto perché dovevo fare il militare. Ma queste sono le fortune, perché da queste cose nasce anche la fortuna, l’occasione che si perde da una parte, fa guadagnare qualcosa dall’altra… io mi ritengo un uomo fortunato. Poi andai a Torino per la Sinfonica, un altro concorso, e c’era un collega… sa, quando si fanno i concorsi c’è sempre una gran paura, di entrare, di suonare, di fare l’esame… oddio, tutti molto emozionati, paurosi; allora questo qui aveva una borraccetta, così, e mi ha detto: «Ma dai, bevi un po’ e vedrai che ci facciamo coraggio!». Ho bevuto questa cosa che era cognac – io in vita mia non avevo mai bevuto il cognac – e cosa è successo? Ho sentito un calore, un bruciore in bocca infernale… e nello stesso momento hanno chiamato il mio nome: «Ortolani!». Quello che è accaduto dopo lo sa solo il padreterno: feci tutto il viaggio Torino-Roma piangendo, perché avevo fallito. Però è stata un’altra delle mie fortune. Rientrando a Roma, ho cominciato a fare un po’ di cose con questi ragazzi: «Perché non fai gli arrangiamenti?». Va bene… e diventai un arrangiatore importante, facevo gli arrangiamenti per Trovajoli, che componeva ed era molto più anziano di me. Cominciai quindi come arrangiatore alla Rai e a un certo punto avevo tutte le orchestre, le dominavo tutte io…
Il cinema arriva anch’esso in quel periodo…
Ho fatto lo schiavetto per molti anni, per dei film, per La cieca di Sorrento facevo un minuetto a mille lire, poi facevo una gavotta a duecento lire, queste cose così, per i compositori che facevano i film. Già cominciavo ad avere una mano, a sentire l’orchestra dentro. Ero considerato uno dei migliori arrangiatori, tant’è vero che… Katyna, Katyna Ranieri, mia moglie, aveva avuto un contratto per la RCA Victor, quella internazionale, e per loro aveva inciso il disco La ragazza di Piazza di Spagna e io ero l’arrangiatore. Va bene: non ci conoscevamo, feci questo arrangiamento per Katyna e lei protestò l’arrangiamento. Era con l’orchestra Trovajoli, io facevo gli arrangiamenti per Trovajoli, e allora, a un certo punto, Katyna ha detto: «Chi è quello lì?». Lei usciva dal Festival di Sanremo, era proprio il suo momento…
Perché la protestò?
Essendo sempre alla ricerca di qualcosa, nell’introduzione per canto, io avevo sempre quelle otto misure che mi volevo fare prima, per delle ricerche, per dei colori nuovi, per delle cose nuove. A quei tempi c’era Gillespie e Gillespie aveva fatto il biba tabah tabath, era uscito in quel momento – parlo di quando arrivò in Italia, poi Gillespie ha inciso anche me, tra l’altro… Allora, io questo arrangiamento per Katyna l’ho fatto subito con un’orchestra ad archi e un colore di strumentini a otto oboe e ‘ste cose qua, e l’ho fatto proprio tipo Gillespie, molto strano, dissonante; la cantante doveva cantare Rose rosse… può immaginare. Era impossibile prendere la tonalità. «Ma chi è quello lì?»; Trovajoli le disse: «Guarda che quello è uno grosso, vedrai…»; «Non me ne frega niente, non mi importa, non lo voglio sapere…». Trovajoli si è messo allora al pianoforte e lo ha fatto lui. Poi, dopo poco tempo, Katyna aveva tutta una équipe della RCA Victor per incidere delle cose, e le dicono: «Qui ci vuole un arrangiatore, che abbiamo già trovato»; «Chi è?»; «Ortolani…»; «E per Dio, sempre questo Ortolani!». Da lì è nata la nostra collaborazione e il resto.
È Katyna, che canta all’inizio di Africa addio?
Sì, sì. Ma anche Addio zio Tom ha una cosa cantata da lei. All’inizio erano tutti temi, in cui poi abbiamo pensato di metterci delle parole. Ma vedete, io ero sempre avanti. Quando ho fatto Il sorpasso, l’ho fatto con una sezione jazz: quando Gassman attraversa Piazza del Popolo con la sua macchina con Trintignant, ho fatto un progressive jazz esatonale, perché io avevo Stan Kenton nella testa, il mio studio era quello! Kenton è stato un mio grande amico… Ho lavorato molto negli Stati Uniti e con Stan ci siamo incontrati e poi non ci siamo più lasciati. Voleva che facessi gli arrangiamenti per lui ma io ho detto no, assolutamente; anche a Sinatra…
Però Sinatra ha cantato cose sue…
Sì, ha cantato More, Blue Lace, Forget Domani ma c’era il suo public relation che insisteva molto per fare… e io ho sempre rifiutato. Poi io stavo facendo il cinema, non mi volevo… vabbè… E allora, dove siamo rimasti?
Al progressive jazz di Il sorpasso…
Che nessuno ha capito e se lei lo ascolta, ancora oggi funziona. Cioè, se uno oggi scrive quello, scrive quello!
In una colonna sonora molto bella, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto… lei ha utilizzato l’oboe o il corno inglese?
No, era un oboe, impastato mi sembra addirittura con un sax. Volevo fare degli impasti, perché molte volte voglio cercare di coprire il colore dell’orchestra facendo degli impasti in maniera che non si capisca quello che è… come la questione degli archi: io ho uno stile mio degli archi che nessuno ce la fa ad imitare: li tengo larghi e non metto le patacche. Perché quando uno fa un tema, fa un tema e poi sotto ci mettono delle patacche così, d’armonia, che sono sempre quelle. C’è chi usa questo schema e va avanti e fa cinquanta film in questo modo. Invece a me piace che tutta l’orchestra possa suonare, perché altrimenti si annoiano con le patacche, incominciano a incrociare le gambe… Invece cerco dei contrappunti, sulla melodia, tant’è vero che in tutte le mie cose ci sono sempre dei contrappunti oppure dei fugati, perché quello che io voglio è che sia interessante non solo il tema ma anche, se non più, quello sotto.
Infatti: c’è una colonna sonora con degli archi sopra e sotto dei corni che fanno un altro controtema, credo sia La vergine di Norimberga…
Ah, ma nella Vergine di Norimberga facevo delle cose incredibili, perché mi divertivo. Davo certe sveglie, sempre le trombe… Perché poi avevo degli ottimi esecutori, addirittura delle trombe che mi facevano il Fa, su, l’acuto, Fa Sol, però suonato con tutta la sezione, tutta la sezione tenuta a cinque trombe e con i tromboni allargati! Però, per avere queste sonorità bisogna avere gli altri su e questi qua in giù, bisogna aprire… beh, vabbè, è una tecnica…
Lei ha lavorato molto con Damiano Damiani, anche per Io ho paura…
Lei pensi che io per fare qualcosa, per ricercare, ho fatto Io ho paura con i rototom, ho fatto venire dei rototom che nessuno usa e che nessuna sa neanche che cosa siano. Quattro tamburi intonati, don don don don, poi questo messo in mezzo con l’orchestra. Era un piacere mio, però non capisce un cazzo nessuno. Oddio, ci sono molti che non sono esperti in musica e che capiscono che c’è qualcosa di nuovo, un suono nuovo, questo senz’altro. Che poi, in tutto questo, c’erano degli archi su, messi su così, che fanno una specie di ostinato, un pedale che rimane sempre lì uguale, mentre sotto ton ton ton ton. Per Damiani ho fatto anche le musiche di Uomo di rispetto, La piovra… Noi siamo stati i fondatori della Piovra, facemmo con Damiani otto puntate mi sembra, le prime. Poi a un certo punto Damiano si è ribellato, ha detto: «Io non sono un regista televisivo, io sono un regista cinematografico e non voglio andare avanti!». Piantò tutto e… io dissi: «Damiano, sono solidale con te e lascio pure io!», ma abbiamo lasciato un’eredità a degli stronzi, scusate il termine… tutta roba anonima, perché è facile fare gli SP, le sovrapposizioni, mettendo un coso, un ostinato.. . Va bene, non andiamo avanti, se no…
In Cannibal holocaust lei ha detto di avere utilizzato la tecnica del contrasto, quindi a fronte di tanta violenza abbiamo invece questa musica dolce che aiuta…
Eh, ma dolce mica tanto… lì ci sono degli archi che mettono paura…
No, io dico il tema…
Il tema, diciamo i titoli di testa… ma quello che è più interessante è quello che viene dopo. I titoli li ho fatti con un Vocoder mi sembra. Vu, vuvuvu (canta i titoli di testa di Cannibal, ndr). In quei tempi era venuto fuori questo Vocoder che io ho subito usato, lo suonava il mio pianista che era molto bravo e alcune note faticava a farle uscire perché, mettendo una tonalità, uno dovrebbe conoscere bene il Vocoder per cercare di semplificare, di piegare il brano alla prestazione che dà lo strumento. Ha dato un nuovo colore. Ma lì i nuovi colori sono diversi: se lei nota, a un certo punto io faccio un pezzo con dei sassi, la sinfonia dei sassi… E poi ho usato il contrabbasso distorto, con la penna… Io facevo questo ostinato e portavo tuti gli archi in ascesa che andavano su, tutti dissonanti. È un film che ha avuto più successo di ogni cosa, Cannibal holocaust, all’estero è andato fortissimo. Ho avuto una richiesta di dischi che mi ha lasciato di sasso. Io l’ho fatto cercando di essere molto spontaneo…
Il film ha avuto traversie giudiziarie, accusarono anche Deodato di avere ucciso gli attori…
Beh, ma queste cose le aveva fatte anche Jacopetti. Fecero la stessa causa a Jacopetti per Africa addio! Quando si vede la fucilazione dei negri, dissero che lui li aveva fatti fucilare davvero. E lo denunciò un suo carissimo amico che era Gregoretti, pensi. Lui ebbe dei momenti terribili. Poi c’è stato il montatore che ha trovato un pezzo che avevano scartato dove per fortuna c’era una seconda ripresa di questa scena e avendo una seconda ripresa era logico che non li avevano fucilati. Queste cose accadono perché molte volte ci sono delle gelosie… Deodato è uno in gamba, ha fatto il suo film e lo ha fatto violento, però è un violento interessante. Io so – è logico, sarebbe stupido negarlo – che la musica ha dato un grande apporto al film, perché ho legato le sequenze in modo da dare ancora più forza a quello che lui ha fatto, tant’è vero che gli archi lì sono di una bellezza per come sono divisi, con la forza, in dissonanza, perché non sono consonanze, sono dissonanze fortissime. E avere questa massa d’archi che diventano come dei brass… a sapere usare gli archi, si possono trasformare in un’orchestra di trombe e tromboni, a saperli far suonare.
Ha seguito il montaggio della sua musica per il film?
No, non l’ho seguito affatto il montaggio di Cannibal holocaust; quello invece che ho seguito molto è Mondo cane, poi degli altri film non ho seguito i montaggi. Vado in proiezione, mi fanno vedere, oppure prendo i tempi…
Come andò con Mondo cane?
I contatti con Gualtiero nacquero perché lui sapeva che ero considerato e che mi conoscevano. Ma io non ho mai voluto sapere che cosa fosse quel film, di cosa trattava. Mi interessava solo fare le musiche, perché ero uno che già scalpitava, volevo uscire, da arrangiatore, capito? Io tutta questa cosa di Gualtiero non la sapevo, sapevo che lui era una persona molto in vista, un giornalista in gamba, invidiato, anche politicamente… raccontavano un sacco di cose bruttissime sul conto suo. Entravamo in moviola verso le nove e si usciva a mezzanotte all’una, senza mai alzarsi, per studiare il film, per studiare le inquadrature, c’era l’amore del cinema. Gualtiero aveva un’educazione musicale importante, perché in casa sua, dopo cena, suonavano dei quartetti, la mamma il pianoforte il padre il violoncello, la sorella il violino, ha capito? Allora, questo ragazzo è venuto su, a parte con la sua intelligenza da toscano, proprio alla Indro Montanelli, con il quale erano anche molto amici, alla Curzio Malaparte… Ha fatto questo film che è stato un’innovazione, perché con Mondo cane è cambiata tutta la tecnica cinematografica, sia musicale sia la tecnica di come usare la macchina a mano, perché loro facevano tutto con la macchina a mano, rischiavano. Se c’era una corsa di tori, andavano sotto al toro e hanno preso pure una cornata… Non lo so, ad esempio: a Los Angeles si vedono dei fari, una fila di fari che sembra siano la festa di San Gennaro, a un certo punto questi si avvicinano, si avvicinano, si avvicinano, diventano fari di macchine sulle freeway… e chi le ha inventate queste cose? Poi, dopo, in tutti i film sono state ripetute, ma il primo è stato lui. Lui è stato veramente un grande innovatore; e, nello stesso tempo, la musica da film veniva fatta in un’altra maniera, prima di Mondo cane. Io lì ho avuto la possibilità di sfogarmi come volevo. Ma ora parliamo di More, va bene? More è nata in America…
Quindi lei come primo brano da compositore, partorisce More: ma è incredibile!
No, non è incredibile, perché non lo sapevo manco io… È logico, perché se l’avessi saputo, non l’avrei scritta, dalla paura, per quello che è accaduto dopo. More non esisteva, non si chiamava More, era una cosa che io scrivevo per il cinema, mica avevo un titolo per questa cosa. È nata così: il regista viene a casa da me, e mi dice: «Riz, improvvisami qualcosa, fammi qualcosa»; «Gualtiero, ma che vuoi che ti scriva? Come posso, cosa vuoi che ti suoni?»; mi dice: «Pensiamo a una sequenza… sai, quella dei pulcini di Pasqua, tutti colorati. che li mettono dentro il forno…»; «Gualtiero, quello che ti posso fare, la cosa più originale, è un carillon…»; e lui: «Ah sì sì sì, fai un carillon…». Io mi metto a suonare il carillon e ta tatatatatata ta tata (canticchia il motivo di More, ndr) tutto sugli acuti, perché dovevo fare un carillon per i pulcini. Poi mi fermo. E lui mi chiede: «Che cos’è questo?»; «Non lo so», perché l’avevo improvvisato. «Scrivi subito!». E io ho scritto. «Con questo ci facciamo tutto il film», mi dice. Questa è l’intuizione sua, perché se lui non avesse avuto questa intuizione, io non ci pensavo manco lontanamente. Cioè, il merito, in fin dei conti, è del regista. Io sono andato lì non a portare qualcosa ma a improvvisare un carillon e ho buttato giù delle note, così. È stato lui che ha capito. Per questo io dico, l’educazione musicale, il gusto, la sensibilità, l’abilità, ci sono tante cose. E da lì è nata More.
Mondo cane 2 non l’ha fatto lei…
Eh no, io mi rifiuto, non faccio un sottoprodotto. Eh beh, qui bisogna anche saperci fare. Però, d’accordo anche con il regista, perché era rimasto molto materiale in più e loro, per sfruttare il materiale hanno fatto Mondo cane 2. Gualtiero mi disse: «Riz tu non lo devi fare, lo fanno gli altri, che ce frega?».
Parlando invece di Tinto Brass…
Brass è un regista preparatissimo, uno dei migliori registi che abbiamo in Italia. Va bene? È stato un assistente di Rossellini straordinario. Lui ha fatto un cinema, prima, molto particolare, poi, visto che quel cinema a un certo punto non incontrava, che cosa ha fatto? Ha trovato un suo genere per sfondare, altrimenti non usciva Brass. Però, in tutti i suoi film, le inquadrature, la fotografia, sono belli, sono intelligenti, si vedrà un culo di più, si vedrà qualcosa di più, ma non è questo il punto… È il lavoro in se stesso. Brass è uno che si mette alla moviola e fa il montaggio, è uno che fa le sceneggiature, i soggetti, piglia, taglia, mette a posto, fa tutto. Un grande uomo. A me, personalmente, interessava lavorare con lui. Perché io non devo fare una cosa del genere, qual è il motivo? Questa è una persona che se uno ci parla, è di una preparazione, di un’intelligenza… Poi è anche uno che ha delle possibilità, perché l’hotel Cipriani di Venezia è suo… Voglio proprio difenderlo! Poi, è logico, ha fatto un cinema provocando… ma lei crede che la televisione sia più pulita? Con Gualtiero noi abbiamo avuto certe noie in censura… Io ho avuto delle noie come musicista perché avevo messo T’adoriamo ostia divina, messo in musica, in una sequenza fatta apposta, e poi c’erano delle tette di africane che venivano avanti, con queste tettine, beh, la censura l’ha fatta tagliare. Lei guardi cosa si vede oggi… I pretoni, no? Tornando a Brass: nei film che ha fatto, tutti gli attori più importanti hanno collaborato, pensi ad esempio a Stefania Sandrelli, una che ha fatto la storia del cinema… ha avuto sempre un grande successo. Che bisogno aveva di fare il film con Brass? E s’è fatta vedere tutta.
La sua collaborazione con Pupi Avati risale a molto tempo fa…
È dal 1980 che lavoro con Pupi, ho fatto moltissimi suoi film, il primo era Aiutami a sognare, molto bello, con la Mariangela Melato che abbiamo fatto cantare e un attore americano, Anthony Franciosa. Come coreografo, avevamo addirittura quello di Fred Astaire, che Pupi aveva chiamato apposta. Ho avuto la possibilità e l’onore di lavorare con un grande, uno della Hollywood dei tempi. Quando facevano il tip tap, non è che lui facesse il tip tap lì; andavano a un microfono, con le scarpe, e facevano il tip tap così, con tutti i sync precisi. Queste sono cose che nessuno sa, sono tutti segreti. Abbiamo fatto con Pupi anche Noi tre, la vita di Mozart, a proposito del quale ci chiedevamo che cosa mettere. «È la vita di Mozart, mettiamo le musiche di Mozart, è logico». Però, quando Mozart andava in carrozza con la principessa Caracciolo o non so chi fosse, si fermava la carrozza, ma la musica di Mozart continuava, e non avevamo la possibilità di frenare. Perché la musica di Mozart era quella. Come facciamo? Dissi a Pupi: «Non ci pensare, la faccio io e faccio lo stile Mozart…», e ho fatto tutta la musica sullo stile Mozart, solo che quando arriva la carrozza che si ferma, rallento anch’io, con la carrozza, poi metto un accordo lungo in maniera che loro scendono… capito? Come si fa normalmente in un film. È uscita la critica, e hanno detto: “Molto belle, le musiche inedite di Mozart…”. Tanto per capire dove siamo. Ma il film che io amo di Pupi è I cavalieri che fecero l’impresa, perché lì ho faticato veramente, lì ci sono delle cose dodecafoniche, politonali molto interessanti. Anche Il nascondiglio l’ho fatto in piena libertà, perché Pupi non può entrare lì, perché non può entrare, è ovvio, non è sua la cosa. Può entrare su un tema e dire: «Oddio, questo forse non è bello, forse è meglio…», però, quando ci sono queste cose qua, per me è una festa, perché mi diverto io. Fare tutte le cose dodecafoniche, prendere, per esempio, lo specchietto della macchina e fare delle lame di archi, quando c’è l’inseguimento, capito? Sono tutte cose in cui uno si diverte…
Quindi erano archi?
Le dirò di più: sono un quartetto d’archi, cosa cui nessuno crede, che ho duplicato, quattro più quattro… Le posso dire una cosa: nel 1976 ho fatto un film con De Laurentiis (Paolo Barca, maestro elementare praticamente nudista, ndr) e tra questi brani ce n’era uno, Decimazione amanti: non era un titolo di testa, era una di quelle cose che si fanno in mezzo che servono. Uscì con la Columbia Records. L’anno scorso mi chiama dall’America la Virgin Records e mi dicono: «Scusi maestro, abbiamo copiato un secondo della sua musica…».
Un secondo?
Un secondo, da qui si capisce la truffa… un secondo. Va bene, fatemi vedere che cosa è… Ed erano i Chemical Brothers, che avevano copiato tutto un pezzo mio, uguale. Attenzione, io l’ho scritto nel 1976, ora siamo nel 2008: questi che cosa cercano? Come hanno fatto? So che a Los Angeles ci sono molti dischi miei, e questi sono alla ricerca per trovare delle idee, delle cose; allora, loro hanno fatto We Are the Night, mi sembra, ed è il pezzo mio. Era un pezzo interessante il mio, molto sveglio, swing, con un contrabbasso, con tutte le lastre, con le urla, una cosa terribile, di una forza immensa. Loro l’hanno fatto uguale, però l’hanno fatto elettronico. Mi hanno mandato le due versioni su CD: si ascolta il mio non elettronico e il loro che l’hanno fatto elettronico… Ecco, per dire di cosa vanno in cerca, che cosa copiano. Ma non è il solo esempio, ogni tanto dall’America mi dicono: «Sa, abbiamo copiato quel suo pezzo…». Giovani di 25, 30 anni…
Un grande film che lei ha fatto è Tuareg di Castellari…
Ostia, sì… Eh, ma lì c’è un’atmosfera da deserto eccezionale, sembra proprio di sentire il cammello… poi viene fuori questo tema, stupendo…
Altro film molto bello La ragazza dal pigiama giallo…
In Australia, bello…
E poi quel valzer che c’è in Nella stretta morsa del ragno...
Io ho fatto tutte e due le versioni, Danza macabra e poi questo. Margheriti era una brava persona, bravissima persona. Sfortunato, però molto valido. Sa, quando si lavora e si collabora veramente, ci si adora, c’è un feeling importante, che è la cosa più bella. I film di Avati lo dimostrano. Che significa questo? Che io l’ho sempre servito bene, perché io sono un suo collaboratore, il film non è mio, è suo, appartiene a lui e allora il rispetto del film consiste nello stare attenti a non sforare, nello stare attenti ai dialoghi, nel cercare di servirlo nella maniera migliore in tutte le sfumature del film. Cercare di prendere quell’attimo che uno può avere per uscir fuori un momento, poi andarsene. È questa la tecnica che uno deve avere. Perché se uno strombazza, come qualcuno strombazza…
E Madhouse di Ovidio Assonitis?
Pensi che non ce l’ho, non ho neanche le musiche. Di molti film non sono riuscito ad avere la colonna sonora, i nastri, perché di solito mi davano tutto dopo l’incisione. Però di molti film non li ho conservati, forse perché non mi interessava.
Lei scrive a mano o usa altri ausilii?
No, io mi rifiuto. Se voglio fare musica elettronica… la musica elettronica è basata su un tastino… e poi mettono un’armonia, questa loro la chiamano musica elettronica, perché mettono un pianoforte elettrico, poi mettono una base, che è il solito organo, anche se loro lo chiamano archi e invece è un organo spaccato. E questa è musica elettronica. Musica elettronica, se uno la vuole fare, deve fare una partitura per orchestra sinfonica, normale, poi trasferisce tutti i suoni dell’orchestra sinfonica elettronicamente; una sinfonia di Beethoven si può fare elettronicamente, prendi la partitura e la fai elettronicamente. Allora, per fare l’elettronica ci vuole anche una preparazione. Io scrivo le mie partiture, le dò al copista e il copista se le passa al computer. No, io scrivo normalmente, anche perché ho più tempo per pensare quando scrivo. Non farei mai una cosa meccanica, perché credo sia molto arida e che non serva a niente.
Lei lavora sulla sceneggiatura o sulle immagini montate?
Sulla sceneggiatura non si può lavorare, perché uno legge la sceneggiatura e poi quando va a girare è tutta un’altra cosa, il film cambia. C’è questo da spiegare, che se uno lavora spesso con un regista sa già che cosa vuole, senza neanche aprire bocca: ci diamo una guardata e ci siamo capiti. Non ci sono difficoltà. L’unica difficoltà è che quando uno si mette a scrivere è una gran tortura, perché non si sa mai come incominciare.
La colonna sonora che preferisce?
Non si può rispondere…
Il suo strumento preferito?
Gli archi, forse, ma amo molto anche i brass: sono stato uno dei primi che ha fatto la fusioni di archi con brass, quando ero giovane, perché ascoltavo Dave Brubeck, Lalo Schifrin, che era bravo, però… per me il massimo era Stan Kenton, poi i miei amici come Quincy Jones, che mi ha diretto anche per l’Oscar, quando sono stato candidato all’Oscar mi ha fatto lui l’arrangiamento. Sa quante versioni ci sono di More?
Mmmmmm ottanta… cento?
Ahahahah (risa di scherno, ndr). Lei lo sa che da quando è nato il cinema muto fino ad ora nessuno ha superato nella musica cinematografica, con un tema, il numero di incisioni che ho avuto io? Sono più di mille… Nat King Cole, Frank Sinatra, Quincy Jones, John Williams, Doris Day, Judy Garland, un’infinità… io sono arrivato a duecentosessanta, settanta versioni, non riesco ad averle tutte, Duke Ellington, Stan Kenton, Areta Franklin, Diana Dors… delle cose immense.
Il suo accordo preferito?
Tutta la tastiera, buttare giù tutto con l’avanbraccio e poter orchestrare… sarebbe bellissimo.
Il suo compositore preferito?
Ho una grande ammirazione per gli americani, tant’è vero che il mio stile non è italiano, è molto internazionale. Per questo mi hanno chiamato, ed è difficile che ti chiamino. A me hanno chiamato nel 1963, ero giovanissimo, il primo italiano che ha messo piede ad Hollywood, chiamato dalla produzione, vinto il Grammy, me lo ha consegnato Count Basie.
Il suo regista preferito?
Beh… Pupi, Pupi Avati, Damiano Damiani e Dino Risi, che era veramente straordinario…