Jean Cocteau, il primo nocturniano
Dentro la mostra La rivincita del giocoliere, retrospettiva dedicata al maestro a Venezia
La Biennale, come istituzione artistica, raccoglie le seguenti arti figurative e rappresentative: Arte, Architettura, Cinema, Danza, Musica Teatro e Archivio Storico (inserito a d’uopo come sezione poiché la memoria artistica non vale molto se poi non viene preservata storicamente). Le arti esposte, rappresentate e celebrate dal lontano 1895 (con la sezione Arte… ma trattasi anche dell’anno di nascita della settima arte) si intrecciano da sempre attraverso quella che vuole essere un’Arte, appunto, completa, universale, contemporanea, circuente, immersiva, totale. L’artista contemporaneo sa sapersi esprimere mediante forme artistiche che ricalcano, anche all’unisono, tutte le peculiarità delle diverse forme di espressione artistica. E chi, meglio di Jean Cocteau, incarna questa completa e definitiva figura artistica compiuta e sicuramente immortale.
Abbiamo visitato la mostra Jean Cocteau. La rivincita del giocoliere a cura dello storico statunitense presso la NYU, Kenneth E. Silver, presentata dalla Collezione Peggy Guggenheim. Si tratta della prima retrospettiva realizzata in Italia dell’artista, che si è svolta dal 13 aprile al 16 settembre 2024. Giocoliere appunto, che i curatori della mostra giustamente omaggiano con la splendida fotografia di Philippe Halsman pubblicata sulla rivista LIFE nel 1949, che vede Cocteau destreggiare sei braccia; sei braccia che lo caratterizzano come artista totale e come prestigiatore non solo raffinato, ma anche socialmente calamitante. Un pennello per dipingere il mondo, un paio di forbici per tagliare, montare, manipolare attraverso l’illusione, la realtà che diventa sempre più accattivante in termini audiovisivi; un libro aperto, come in fondo lo è sempre stato Cocteau; onesto seppur discreto, in merito alla sua omosessualità e alla sua dipendenza. E la sigaretta, elegantemente assaporata, a simboleggiare il suo amore per lo stile, per la moda, per la classe di quelle lungimiranti e brillanti donne imprenditrici, come Coco Chanel e Elsa Schiaparelli, che hanno creato non solo un impero, un paradigma, un’arte, ma che sono anche state grandi sostenitrici e amiche di Cocteau, soprattutto nei suoi momenti più bui.
Anche la location è, non solo eternamente e magicamente suggestiva, ma altresì molto significativa. Tra Peggy Guggenheim e Jean Cocteau, infatti, nasce una grandissima amicizia, che li vedrà complici in molte occasioni. La Guggenheim afferma la sua carriera proprio con una mostra dedicata a Cocteau, nel 1938, nella sua galleria di Londra, Guggenheim Jeune, suggerita da Marcel Duchamp. Anche Peggy, donna all’avanguardia, collezionista oculata, assieme a tutta la cerchia di amici artisti, rappresenta un periodo storico per l’Arte universalmente intesa, che raramente tale, si è palesata e concretizzata in passato. Si inaugura il secolo breve, la contemporaneità della psicologia (e psicosi) umana attraverso il supremo e l’estremo del bene e del male, del bello e del brutto. Un’arte che ci ha resi gli uomini e le donne che siamo, anche se sembra incredibile e tendiamo a dimenticarcene, logorati, date evidenti attuali ignoranze politico-sociali. La cerchia di Cocteau comprende nomi quali: il già citato Duchamp, Marcel Proust, André Gide, Pablo Picasso, Amedeo Modigliani, Erik Satie, Sergej Djagilev, Edith Piaf, e Tristan Tzara… tra gli altri.
Cocteau, tuttavia, si distingue e dissocia spesso, si contraddice o si afferma. Egli si cimenta nella realizzazione di opere che spaziano dalla scrittura, alla pittura, il disegno, la critica, il teatro, il cinema, la moda… lascerà anche in eredità una forma di espressione artistica, la pittura murale, che ancora oggi fa fatica ad affermarsi, ma che rappresenta una delle fisionomie estetiche più attuali ed efficaci; la manifestazione democratica per eccellenza quella del graffitismo, che rende l’arte accessibile ed apprezzabile da tutti, l’arte che esce dal museo e colora le pareti cineree delle di un’urbanizzazione feroce, e si fa specchio di una realtà cittadina che ha voglia di spogliarsi del grigio dell’asfalto e dei mattoni. Seguiranno i grandi artisti del nostro tempo, come Keith Haring, Felix Gonzalez-Torres, Jean-Michel Basquiat, Kenny Scharf e Banksy, tutti a loro modo, figli dell’artista parigino (“sono nato parigino, parlo parigino, con pronuncia parigina”, diceva in più occasioni).
Nonostante tale “mutabilità icastica”, egli definisce tutte le sue espressioni, poesia; poésie de roman (romanzo), poésie graphique (disegno), poésie de théâtre (teatro), poésie critique (saggistica) e poésie cinématographique (cinema). Ed è proprio dal “sangue” del poeta che nasce il suo primo film Il sangue del poeta (1930), appunto, primo film di una trilogia che si concentra sulla figura mitologica di Orfeo, suo alter-ego o avatar (per usare un’espressione attuale); figura che lo caratterizzerà artisticamente, culturalmente e psicologicamente per tutta la vita.
Orfeo è colui che non accetta la morte dell’amore, che combatte gli inferi, che commuove e convince Ade, eppure, poi, si dimostra semplicemente uomo e non divino nelle sue debolezze. Orfeo è duttile, trasformista, rappresenta l’artista per eccellenza, il misticismo del misterico, tanto da essere la figura essenziale dell’Orfismo, una vera e propria religione. Egli rappresenta anche la dualità dell’uomo; corpo e anima, che Cocteau ben rappresenta con lo specchio. Una duplicità che non necessariamente rappresenta le antitesi del doppelgänger bilocazionale, quanto il travaglio interno di una personalità artistica che vuole sempre mettersi in discussione. Basti pensare che Cocteau si affaccia in maniera concreta al cinema alla veneranda età di sessant’anni, nel secondo dopoguerra e si afferrerà, come cineasta, proprio trattando le individualità antropiche che presentano bivalenze e sfaccettature tipiche dell’uomo contemporaneo, pur attingendo dal classicismo come il mito di Orfeo appunto — Orfeo (1950), Il Testamento di Orfeo (1960) –, e dalla tradizione fiabesca per il suo capolavoro La Bella e la Bestia (1946); opera presentata al Festival di Cannes l’anno dell’inaugurazione della kermesse. Nel e per il cinema poi diverrà e resterà una figura centrale. Presidierà la giuria a Cannes nel 1953 e nel 1957 riscuoterà il Premio della critica internazionale alla Mostra del Cinema di Venezia. Diventa un’icona e nel 1949 a Biarritz presiede anche il proprio festival del Film Maudit, del cinema maledetto o “cult”. Come per l’arte figurativa, anche in questo caso egli si circonda di amicizie che annoverano tra gli altri, Maria Callas, Marlene Dietrich, Roberto Rossellini e il compagno Jean Marais.
La mostra si snoda attraverso diverse sezioni che vedono omaggiare tutta la presenza personale ed artistica di Cocteau; 13 gallerie che celebrano le sue parole e immagini, il suo classicismo, la sua letteratura, il suo ambiente (tra amici ed amanti), la sua amicizia con Peggy Guggenheim, il suo cinema ma anche la sua debolezza; la sua dichiarata dipendenza da oppio (sviluppata dopo la tragica morte del suo grande amore e protégé Raymond Radiguet). Si disintossicherà poi durante gli anni Trenta, presso la clinica di Saint-Cloud, pagata da Coco Chanel.
Prima grande e completissima retrospettiva mai fatta in Italia, la mostra celebra l’integrità totale e totalizzante di Cocteau, che lo vede esprimersi in quasi tutte le sue fisionomie significative. Presente in mostra anche i gioelli elaborati con la collaborazione della Schiaparelli, il francobollo francese da 20 cent, le scatole regalo promozionali create per il famoso parrucchiere Alexandre de Paris e le scatole di fiammiferi che riportano i segni zodiacali. Unica anche La spada d’Accademico (1955) realizzata per Cocteau, su suo disegno, da Cartier, in oro e argento, con smeraldi, rubini, diamanti, avorio (in origine), onice e smalto, anche utilizzata quando gli verrà conferito il titolo di Accademico di Francia, lo stesso anno.
Insomma, una mostra davvero da non perdere, che si affianca e, a parere mio, spicca tra le proposte sia della Biennale D’Arte di quest’anno, sia di quelle della programmazione della Mostra del Cinema, a dimostrazione che Jean Cocteau è ancora sinonimo di innovazione, avanguardia, sregolatezza concentrata, mirata tuttavia, diligentemente onnicomprensiva. Un artista che dello scorso secolo ha vissuto e trasmesso tutto ma che ha gettato più di qualche base per la comprensione estetica di un secolo che si prevede ancora più “fluido”… appunto.