La piccola cineteca degli orrori – L’invasione dei ragni giganti
Una delle più laide e deprimenti esperienze che la celluloide abbia mai avuto la disgrazia di catturare
Tutti coloro i quali, poveri sognatori, ancora credono fermamente che i gloriosi anni ’70 abbiano partorito solo e soltanto meraviglie, beh, con molta probabilità non hanno mai sentito parlare nemmeno per sbaglio de L’invasione dei ragni giganti. Si perché, in caso contrario, la mitica decade della disco music e della crisi petrolifera assumerebbe tutt’altro sapore. Un saporaccio per intenderci, di quelli laidi e fetenti che non crederesti mai occhio umano possa saggiare nel corso di un’intera vita. E dire che, almeno da cartellone, parrebbe di trovarsi dinnanzi all’ennesimo innocuo monster movie in odore naif ben accomodato fra la serie B e la serie Z, compagno di miliardi e miliardi confezionati all’ombra della cortina di ferro. Robetta del calibro di Tarantula (1955) e Assalto alla Terra (1954) per avere un’idea. Ma attenzione cari amici, poiché, quando di mezzo ci si mette un losco figuro come Bill Rebane, ogni buon proposito, per quanto sano e genuino possa essere, è destinato a finire inesorabilmente nel cesso. Per gli occasionali frequentatori del lurido sottobosco del trash cinematografico basti dire che il nome e il cognome del suddetto cineasta di origini baltiche meritano un posto d’onore fra le più innominabili personalità che mai abbiano messo mano a una macchina da presa. Emigrato in quel degli States poco più che adolescente dopo un breve ma inteso rodaggio scolastico nella Germania non ancora divisa, il nostro caro Bill divenne milionario a soli ventitré anni grazie a un rivoluzionario brevetto di ripresa e proiezione a 360°, ponendosi subito all’attenzione dell’industria dell’intrattenimento come un tizio da prendere particolarmente sul serio. Ma diversamente da altri ben più lungimiranti colleghi che avrebbero certamente preso la palla al balzo per campare di rendita vita natural durante, il nostro decise con gran sorpresa generale di sporcarsi direttamente le mani nell’ambiente, prima come produttore e infine, aimè e ainoi, anche come regista. Ma cuore e baiocchi non bastano da soli a far germogliare il talento laddove regna la più assoluta incompetenza, così come dimostra Monster a Go-Go, il delirante esordio del 1965 salvato in extremis nientemeno che dal leggendario Herschell Gordon Lewis in persona.
Senza tuttavia retrocedere di un millimetro dai propri folli propositi e lontano anni luce dal rinnegare anche solo un grammo di quello stile cialtronesco che lo avrebbero in seguito ben distinto, il tosto Rebane tirò dritto per la propria già accidentata straducola con la testardaggine di un mulo da monta, e dopo l’ennesimo capitombolo con il noiosissimo Invasion from Inner Earth (1974), eccolo pronto a dare il peggio di sé con il roboante L’invasione dei ragni giganti. Un titolo che, insomma insomma, già in sé racchiude la volontà di spararla grossissa senza avere a disposizione né mezzi né talento necessari. Si perché, detto fra noi, trecentomila dollari per dar corpo a una robetta del genere sono davvero una miseria. Miseria che emerge ben vivida e pulsante in ogni singolo aspetto di questo scalcinato baraccone, dalla scrittura alla messa in scena passando per la recitazione e, ultimi ma non meno importanti, i deprimenti effetti speciali. Per ora basti ricordare che l’idea del film, partorita in tandem dall’amico di merende Richard Huff e dall’attore Robert Easton al principio del 1974, di fatto non fu mai veramente portata a termine, costringendo la troupe a iniziare le riprese con solo una manciata di paginette di dialoghi ed esasperando a tal punto Rebane da portalo a rinchiudere i due sfaticati compañeros in una baita sperduta fra i boschi, con la minaccia di non essere nutriti se non avessero letteralmente cavato qualche ragnetto dal buco. Tempo qualche settimana ed ecco che, fra i deliri da malnutrizione, le prime quindici pagine di The Great Spider Invasion videro finalmente la luce, permettendo al buon Bill e alla sua crew di battere il primo ciak in quel del Wisconsin. In sommi capi la storia favella di un misterioso meteorite che, proveniente forse da qualche universo trans dimensionale non meglio specificato, si va a schiantare bello bello in uno sperduto centro rurale del Wisconsin. Dai resti carbonizzati dell’impatto, per qualche strano influsso di radiazioni, iniziano a fuoriuscire ragnacci alieni – in realtà nulla più che, ben nutriti dall’atmosfera terrestre, iniziano a incicciosire sino a diventare grossi più di trenta metri, pronti a rifocillarsi dal lungo viaggio interplanetario con i poveri inermi paesani di turno.
Fra i deliri di un trucido predicatore fondamentalista, le incaute gite in camporella dei giovinastri di turno dall’epilogo decisamente splatteroso e tradimenti amorosi al limite dell’incesto, il povero dottor Vance (Steve Brodie) e l’altrettanto miserrima collega Jenny Lager (Barbara Hale) prima di darsi anch’essi agli amorevoli bagordi d’ordinanza tenteranno con ogni mezzo di arginare la zampettante invasione from outer space prima che della disastrata cittadella non rimanga nulla se non il rotolio degli sterpi al vento. Non serve specificare come, nonostante un cast straordinariamente zeppo di navigati volti hollywoodiani, nel complesso il livello qualitativo della recitazione rasenti lo zero assoluto, particolare che viene ancor più amplificato dalla consueta sciatteria scenografica delle produzioni targate Rebane e, dulcis in fundo, da una fotografia che definire pedestre è certo il più accomodante dei complimenti. Probabilmente il mitico Giovanni Muciaccia di Art Attack e il buon Tonio Cartonio della Melevisione avrebbero svolto un lavoro decisamente migliore di quello confezionato da quel peracottaro effettista speciale di Bob Millay, il quale, arrangiandosi con quel poco che la produzione gli aveva messo a disposizione, non trovò nulla di meglio che imbastire un pedestrissimo aracnoide ricoprendo un vecchio furgone con una polverosa pellicciona color topo morto, sulla quale incollare alla bell’e meglio otto mollicce zampone e, ultime ma non meno importanti, due palle da tennis opportunamente colorate di nero a mo’ di occhietti. In un’abbondante e decisamente debordante ora e quaranta L’invasione dei ragni giganti consegna alla storia del cinema una delle più laide e deprimenti esperienze che la celluloide abbia mai avuto la disgrazia di catturare, ricevendo pesanti e unanimi stroncature da parte della critica fin dal primo giorno di proiezione e venendo inserito a gran merito nel mitico albo dei “100 film più piacevolmente brutti mai realizzati”. E allora per quale stramaledetto motivo siamo ancora qui a parlarne a mezzo secolo di distanza? E soprattutto, chi diavolo ha avuto la balzana idea di tirarci fuori addirittura un musical?!