Luca Magri: “uomo di cinema”

Nelle pieghe del protagonista e produttore di Il paese del melodramma

Conosco Luca Magri da un sacco di anni. Dibattevamo, prima di questa intervista, di quando esattamente ci fossimo incontrati la prima volta. Forse al Police Film Festival, a Bologna, tanto tempo fa. Un giorno mi portò il dvd di un suo film – abbiamo ricostruito potesse essere Nel cuore della notte. Venne nella redazione di Nocturno e gli passai al telefono Fernando di Leo, che conta tra gli idoli di Luca, insieme ad Alain Delon. A significare che le nostre basi sono assolutamente, saldamente, le medesime. Magri ha iniziato come attore, poi, come egli stesso – con grande lucidità – spiega in questa chiacchierata, ha capito che nel suo destino c’era dell’altro nel mondo del cinema. Ho avuto il piacere di condividere con Luca, che ne è il protagonista, una scena dell’ultimo film di Francesco Barilli, Il paese del melodramma, per volontà del regista che mi ha trascinato (per i capelli che non ho più), dentro una fredda mattinata parmense, nella cornice del Duomo di Parma, facendomi indossare i panni di un prete “metamorfico”…

Giusto per inquadrare il personaggio Luca Magri: una breve introduzione a te stesso. A un certo punto, Magri comincia a fare cinema. Perché?

Comincio a fare il cinema, perché, ragazzino, leggevo tutto quello che c’era sul cinema, a cominciare da Nocturno, andavo al cinema venti volte al giorno. A scuola non facevo un cazzo, e quel minimo di retroterra culturale che mi serviva per “campare”… campare, nel senso: come può campare un ragazzo, cioè farmi strada socialmente, interagire con le ragazzine… me lo dava il cinema. È incredibile da dirsi, ma la mia formazione è stata, in parte familiare, dovuta alla famiglia che ho avuto, ma in gran parte è dovuta al cinema.

Sicché, vedevi un mare di film e leggevi Nocturno

Ma da monomaniaco, credimi: ero capace, a 16 anni, di guardarmi cinque film in un giorno. Adesso sono cose che non riesco più a fare, ma sono proprio cresciuto a pane e cinema. Avendo la fortuna di avere un papà che stava a Roma, lui aveva conoscenze nel giro del cinema… e allora, non so, una volta mi presentava Francesco Barilli, un’altra volta Giovanni Bertolucci, un’altra volta Nino Castelnuovo. A differenza di molti miei amici di Parma, avendo questa “doppia vita” romana, con queste frequentazioni, al di là della cinefilia avevo capito cosa voleva dire lavorare nel cinema, molto presto. il mio primo ruolo parlato, una particina in un film, l’ho fatto a diciannove anni. Era Voglio una donnaaa!, prodotto da Luciano Martino, regia dei fratelli Mazzieri, Luca e Marco Mazzieri, con Stefania Rocca, che allora era in grande lancio. Parliamo del 1998. Era una particina di cinque minuti, tipo. Il film lo giravano a Parma, perché i Mazzieri sono di Parma. E niente… mi hanno chiamato… Diciamo che quel film mi è servito da spartiacque, anche perché ero un ragazzo abbastanza estroverso, socializzavo molto, ho rotto i coglioni a tutti e, finita la particina, ho chiesto se potevo restare sul set a dare una mano…

Ti sei infilato, insomma: con quali mansioni?

Nessuno sapeva bene che lavoro facessi all’interno di quel film (ride), perché, non so… stavo una settimana con il fonico e gli facevo da assistente, un’altra settimana stavo attorno a qualcun’altro…

Un factotum, un jolly…

Sì… Erano tutti dei cinquantenni, sessantenni, e io rompevo i coglioni a tutti, gli facevo un sacco di domande e loro si divertivano, perché uno dei pochi aspetti positivi che ho, è di saper parlare con le persone. Questa è una facoltà positiva che ho sempre avuto, un talento naturale: posso parlare con uno di novant’anni, come con uno di tredici, e mi ci trovo bene. Poi, sai, all’epoca era tutto una novità: avevo 19 anni e l’idea di fare un film era come andarsene due mesi in vacanza. E poi perché raggiungevo a livello sociale, ma soprattutto a livello sociale interno mio, la possibilità di lavorare nel cinema. Punto e stop.

Luca Magri

Dopo il film con i Mazzieri, come ti sei mosso?

C’è stata una stagione fortunata, perché a Parma vennero a girare diversa roba, un altro film, altre due serie televisive e mi hanno sempre chiamato. Si era sparsa la voce che ero su piazza e disponibile. C’era la figlia di uno che faceva le magliette per la pallavolo, no? ed era una direttrice di produzione, che non sapeva chi fossi. Ero andato a farmi vedere e mi ero sentito rispondere: “No, guarda, non lo puoi fare. Abbiamo scelto un altro”. Il giorno dopo, si vede che qualcuno le ha detto qualcosa, le aveva parlato di me… Totale, questa mi chiama: “Signor Magri, lei deve presentarsi sul set alle otto domattina!” (ride). Però non scriverlo questo, se no faccio la figura del deficiente (ride).

Ok, non lo scrivo… vai avanti!

Era la fine degli anni Novanta, quel periodo lì. Mi ero iscritto all’università, dove ho dato a malapena due esami, ma io sapevo che volevo fare “quella roba lì”, il cinema. Andavo a Roma ogni volta che potevo, con la scusa di trovare mio padre, perché il cinema era tutto là. C’era un regista di Parma, allievo di Barilli e tuttora esecutivo di alcuni dei suoi documentari, Primo Giroldini. Aveva una ventina d’anni più di me. Un giorno mi disse: “Voglio provare a fare un film che omaggi il cinema noir del passato: ti faccio fare il protagonista”. E realizzò Nel cuore della notte, che fu il mio primo lavoro importante. Mi ha fatto studiare un minimo, mi ha fatto vedere tutti i film con Alain Delon, tutti i film di Melville… Primo mi è servito molto culturalmente, per affinare la mia conoscenza cinematografica. Tutta questa formazione mi è davvero servita tantissimo. Nel cuore della notte era un film praticamente amatoriale: giravamo con una media di un giorno alla settimana e ci abbiamo impiegato un anno per terminare le riprese e due anni e mezzo, tre, per chiuderlo completamente. Successe che a metà della lavorazione Primo finì i soldi, così mi chiese di dargli una mano, tramite mio padre…

Cioè di intervenire economicamente…

Sì, e quindi a metà del film sono diventato anche una specie di co-produttore di Nel cuore della notte: produttore esecutivo, adesso si chiamerebbe così. E quello forse è stato un altro grande spartiacque per me, perché per la prima volta – ti ripeto, avevo 21, 22 anni in quel caso – avevo capito l’importanza di fare un film da protagonista. Perché poi, andando avanti, tanto amatoriale il film non lo era. Cioè, ci eravamo tutti abbastanza immersi nel progetto. Quando a metà dissi: “Vabbè, ti do una mano, lo finiamo insieme, divento il coproduttore”, capii, anche e soprattutto, cosa volesse dire “fare un film”. Fino a quel momento avevo fatto soltanto l’attore… Fu una “finestra” lunga tre anni in tutto, ma che mi diede la nozione del cinema. Dopo venni chiamato in altri film, come attore: ne feci uno con la Cucinotta che non è mai uscito. Si intitolava Fly Light, di Roberto Lippolis, che aveva pure un bel cast, perché oltre alla Cucinotta, c’erano Flavio Bucci, Christo Jivkov: c’entravano un po’ Omar Bussi e il suo socio…

Conosco, conosco….

Perché loro avevano distribuito in dvd Nel cuore della notte. Ero diventato amico anche con loro, quindi: “Beccatevi Luca!” (ride). Vedi, qual è il discorso? Tu fai Nel cuore della notte con 10.000 €. E poi fai un film con la Cucinotta con mezzo milione di euro. Perché Nel cuore della notte esce e quello con la Cucinotta va a finire nel limbo? Te lo spiego: perché ci deve essere, oltre alla passione, una certa forma di professionalità, nel modo in cui ti muovi, nei tecnici che scegli, nella gente di cui ti circondi. Hai capito? Fly Light era un film che aveva avuto duemila problemi e infatti, tu magari ci metti due anni per farlo e non ti esce. E non è la prima volta che succede. Tu di queste storie ne avrai sentite a centinaia…

Hai voglia…

Fly Light è un esempio di quello che ho fatto dopo, solo come attore. Poi, sempre solo come attore, mi ha richiamato Luca Mazzieri. Il film era Cielo e terra, con Gianmarco Tognazzi, Anita Caprioli e lì avevo un bel ruolo. Ero un coprotagonista, tra una decina di persone, bloccate in un teatro durante la Seconda guerra Mondiale. Un film un po’ assurdo, ma non bruttissimo… Ecco, Cielo e terra era uscito, ma era stato un flop. Comunque, tutte queste esperienze mi sono servite per affinarmi. Poi, è chiaro che dai 20 ai 25 anni ripetevo: “Voglio fare l’attore”. Andando avanti nel tempo, ho capito che non sarò mai un attore. Io mi reputo un “uomo di cinema”. Perché se fossi un attore, avrei dovuto studiare, avrei dovuto fare del teatro, tutte cose che non ho mai fatto o che ho appena abbozzato. Ma perché ero interessato a fare altro. Ero interessato a fare film. Allora, quando avevo – ti ripeto – 25, 30 anni, tu mi chiamavi per intervistarmi su La casa nel vento dei morti, e io ti dicevo “Sono un attore” (fa la voce impostata, ndr): ero un povero deficiente. Te lo dico chiaramente. Lo facevo perché godevo a farlo, perché c’era anche la necessità di farlo.

Nella tua definizione “uomo di cinema”, lasciamo perdere l’attore, era compreso anche essere regista…

Penso di essere un “uomo di cinema” abbastanza completo, perché, comunque, ho fatto una marea di film come attore, ho fatto un film come regista, due o tre film come produttore, due come sceneggiatore… Sono interessato a tutto il processo filmico…

Quindi anche al dopo, anche a tutta la fase che segue la realizzazione…

Guarda, io ho lavorato – e te l’ho sempre detto – più alla distribuzione di questi film, che nel fare il mio ruolo sul set, perché ho sempre voluto che i film “avessero una vita”. Forse perché sono rimasto, non so, inconsciamente traumatizzato da quell’esperienza con la Cucinotta. O forse ancora perché era un periodo in cui capivo che un conto era il cinema di serie A, e un conto era il cinema fatto da persone normali che ci provavano e la maggior parte di questi non aveva sbocco. E siccome non sono uno stupido, mi dicevo: “Sono uno tra questi, devo differenziarmi”. Perciò, dal Solitario in poi, avendo imparato come funzionava il meccanismo dai film precedenti che avevo fatto solo come attore, ho sempre curato i miei film anche stando dietro a una macchina da presa o stando dietro a una produzione, alla distribuzione. Quindi, come attore non mi do una lira, nonostante abbia fatto il protagonista dieci volte. Ti dico la verità: sono fortunato, perché ho un bell’aspetto che in alcuni film serve… questo me lo hai detto sempre anche tu, cioè bisogna avere la faccia per fare certe cose. Ecco, sono fortunato da questo punto di vista, perché ho il fisico di un protagonista, la faccia di un protagonista, cioè comunque mi stai a vedere, se guardi il film. Non ho la tecnica. Guarda, ho avuto un problema anche un mese fa: sono stato chiamato a fare un piccolo ruolo in un film, no? Avevo difficoltà a memorizzare le battute, poi tutto non mi piaceva perché era estremamente complicato eccetera. Non c’ero entrato dentro, perché, lavorandoci un giorno o due, non c’entri dentro. Un’esperienza del cavolo. Mentre, se fai il protagonista tutto un film, che viene modellato su di te, qualcosa ti esce fuori davvero. Per questo ti dico che non sono un attore, perché un vero attore può fare una particina di due minuti o fare il protagonista di una serie televisiva di 20 puntate, e te la fa bene: perché è un attore.

Il solitario

Mi pare sia molto onesto da parte tua questo discorso. Molto lucido…

Sarei un cretino a dire il contrario. Bisogna aggiungere che è molto importante anche il compagno che hai sul set. Perché, se tu hai un attoretto-macchietta, non vieni fuori tanto, anche se sei protagonista. Ad esempio, la nostra scena in chiesa nel Paese del melodramma, io te la cito, ma non perché ci sei tu. Te la cito perché tu eri entrato nel ruolo, eri il prete, e nonostante l’abbiamo fatta senza una lira, senza la troupe, senza niente, come una pezza di seconda unità, è venuta la scena più interesse del film. Perché io ho bisogno anche di personaggi che mi stimolino…

Come dicono i francesi, quello che ti consente di dargli la replica. Con tutto che in quel caso, tu non avevi di fronte un attore, perché io attore non sono né lo sono mai stato, sia chiaro…

Guarda, non c’entra che tu non sia un attore: in quel caso avevo davanti qualcuno che mi agevolava. E poi devo ringraziare in tutto questo percorso Francesco Brarilli, perché Francesco non è come gli altri registi con cui ho lavorato. Francesco è un vero talento, un vero autore. L’altra sera sono andato, di notte, al cinema qui a Parma, a rivedermi per la prima volta su grande schermo Il profumo della signora in nero. E io, rivedendo per conto mio quel film, da solo, interiormente ho capito, al di là dell’amicizia, al di là del rapporto ormai quasi parentale con Francesco, di avere avuto a disposizione un grande autore, che mi ha insegnato tantissime cose. Quello è un caso diverso: per L’urlo, per Il paese del melodramma ho avuto la fortuna di avere Barilli di fianco a me. Gli altri registi che ho avuto in passato non sono così, senza parlare male di nessuno. Era gente alle prime armi, oppure gente che “ci provava”…

Qual è stata la prima collaborazione, definiamola stretta, professionalmente, con Francesco Barilli?

L’ho conosciuto che avevo 16 anni… e tra l’altro mi diceva delle cose orrende: “Non ti farò mai fare una parte in un film! Devi studiare, torna tra vent’anni! Fai schifo…”: delle robe allucinanti (ride). Però devo dire che, nel tempo, mi ha preso in simpatia. Lui aveva fatto una parte nel Solitario, di Francesco Campanini. Allora, siccome io ero il protagonista, se l’era presa anche un po’ a cuore, mi dava dei consigli: ho cominciato in quel periodo a frequentarlo di più e per La casa nel vento dei morti abbiamo avuto la bella idea, di concerto con Francesco e con Campanini, di renderci entrambi protagonisti. È un film corale, ti ricordi? Con più protagonisti, tra i quali Francesco ed io. Tra l’altro, lui di quel film, tarantinianamente parlando, ha anche il credit di special guest director, perché effettivamente ha girato un segmento del film, per fare un favore, anche pubblicitario, a me e a Francesco. Ha girato il film nel film, quello “del regime”. E quella è stata la prima volta che mi ha diretto: due giorni meravigliosi. Da quel momento, ho cominciato a rompergli i cioglioni tutti i giorni per dieci anni: “Facciamo un film, facciamo un film, facciamo un film!”. Allora pian pianino è arrivato L’urlo, che era un corto, ma ha avuto una realizzazione produttiva e soprattutto distributiva da film cinematografico. Era anche il remake di una cosa di culto, del vecchio cortometraggio omonimo di Camillo Bzzzoni, con Francesco allora protagonista, che la gente conosceva. Io non ho mai visto che per un cortometraggio ti facciano una foto pazzesca sul Corriere della Sera e te lo paragonino a La Jetée. Perché poi, se ti porti dietro un nome importante come quello di Francesco, ha anche un valore da quel punto di vista lì. Capisci quello che intendo?

Certo: fa da traino…

Paraculescamente parlando, ragionando da produttore, ma questo l’ho scoperto dopo, lavorandoci eccetera. Allora, forte di quell’esperienza, ho detto: “Abbiamo fatto un film piccolino, ne facciamo uno lungo?”. Gli ho rotto le palle per due o tre anni. Francesco ormai era stabile a Parma. C’è stato il Covid di mezzo, quindi ha avuto il tempo per pensarci e, secondo me, con Il paese del melodramma abbiamo fatto un film interessante…

L’urlo

L’idea del Paese del melodramma arriva totalmente da Francesco?

Solo da lui. Non è un regista, come Campanini o come Mazzieri, al quale puoi suggerire le cose, non è così. Lui è un autore. Il mio lavoro è stato un lavoro “pressatorio”: “Voglio fare un film, lo voglio fare con te”. Ogni volta che uscivamo, che andavo a casa sua, glielo ripetevo, tipo mantra. E allora pian pianino… Già con La casa nel vento dei morti Francesco si era reso conto che eravamo riusciti a fargli avere una buona circolazione. Perché poi, alla fine, ridendo e scherzando, è stato il nostro film più visto. È quello che è piaciuto meno, ma è quello che è stato visto di più. Francesco stesso è incazzato nero, perché dice sempre: “A Parma non mi fermano per il film di Bertolucci, per le fiction televisive, mi fermano per questa cagata!” (ride). E lui forse lì deve aver capito che non giocavo, che non scherzavo. Quando ha visto che ho fatto Il vincente, da solo, stessa cosa… Avevo cercato comunque, anche come regia, non di fare un film di genere, col Vincente, ma di raccontare una realtà che conoscevo, e Barilli ha capito, forse, che giocavo sul serio. E quindi abbiamo fatto prima L’urlo e poi Il paese del melodramma. Cioè, con queste due o tre cose, deve aver capito che c’era più maturità in me rispetto a quello che poteva sembrare in apparenza, anche perché poi con Antonio Amoretti e Pietro Corradi abbiamo creato una casa di produzione che prima non c’era, la Avila Entertainment. Ci siamo messi in moto anche coi cofinanziamenti. Era ormai diventato un mestiere vero, il nostro. Si è fidato e secondo me è andata bene, io sono contentissimo del Paese del melodramma. Francesco è riuscito a fare un film a ottant’anni, che non è da tutti, lo sai benissimo. E io sono riuscito a fare un film con un autore. Secondo me siamo entrambi molto soddisfatti.

Tu sei il protagonista del Paese del melodramma. Era già nelle cose che saresti stato tu il protagonista del film…

Beh, per forza, insomma…. Io scherzavo con lui: “Sono il tuo feticcio, sono il tuo feticcio!”, però Francesco negli ultimi dieci anni ha fatto tre film, e alla fine sono il protagonista di tutti e tre. Quello che voglio dirti, è che non è che sono il protagonista di tutti e tre perché lui mi ha scovato in un teatro e mi ha scelto. Sono il protagonista di tutti e tre perché gli ho rotto le palle, bonariamente, si intende, però alla fine deve avere anche capito che forse potevo essere una persona giusta. Per Il paese del melodramma, secondo me lui ha fatto un ottimo lavoro, ha cercato di mettermi del peso di responsabilità addosso e posso capire che dal suo punto di vista non sia stato facile. Perché un conto è avere dei professionisti come Francisco Rabal e Luc Merenda, un conto è avere Luca Magri. E gliene sarò sempre grato, perché è difficile per un autore conosciuto, che finisce sui giornali, dire: “Faccio il film con Luca Magri”: è stato molto coraggioso da parte sua. Molto. Ha avuto un coraggio da leone: altri non lo avrebbero fatto.

Beh, forse però c’entrava anche il fatto che pensava, in quanto regista, di avere un attore che gli poteva dare quello che voleva. Da quello che ho visto, non credo che tu sia stato lasciato a te stesso. C’erano delle indicazioni che Francesco ti aveva dato e c’era della materia su cui lavorare…

Sai, Francesco secondo me è più un regista con dei riferimenti pittorici, perché anche se tu ti vedi il suo capolavoro che è Il profumo della signora in nero, va più “a sensazioni”, non è un film da trama, da storia…

E questa è anche una delle ragioni per cui è un film che non è affatto invecchiato…

E lui credo abbia cercato di fare qualcosa di simile anche con Il paese del melodramma e avendo a disposizione il sottoscritto, che sapeva che certe cose non gliele poteva dare, si è inventato diversi escamotages per potermi valorizzare. Ad esempio, la storia dell’alcoolismo. Posso capire che a livello di trama poteva funzionare bene, come idea, ma secondo me lo ha fatto anche perché, paradossalmente, per me come attore, così era più facile rendere il personaggio interessante, facendolo da alcolizzato. Ciondoli, porti gli occhiali da sole, sei sbragato: ecco, è stato scaltrissimo in questo… Io, nei cinque, sei anni precedenti al Paese del melodramma, ho fatto solo due film da protagonista. Uno era Il vincente, dove facevo me stesso, o meglio facevo Antonio, che è il mio miglior amico, prendendo anche dal “Butta”, che è un altro amico mio. Il personaggio principale del Vincente nasceva da una fusione mia e degli altri due miei amici messi insieme: persone che ho sempre visto, che ho sempre frequentato e quindi, semplicemente, ero me stesso, mentre nel Paese del melodramma dovevo interpretare un ruolo. Nell’Urlo correvo, manco parlavo: qui invece dovevo proprio entrare in un ruolo.

Con Luc Merenda, Il paese del melodramma

Un ruolo complicato, anche…

Complicato, con delle sensazioni da esprimere, emozioni, sfumature… E per questo dirò sempre grazie a Francesco perché ha fatto di tutto per facilitarmelo, questo ruolo. Dal punto di vista emotivo, le scene più complesse per me erano quelle dove vedevo i fantasmi di mia moglie e mia figlia, perché erano situazioni poco credibili. Allora, io non sono nella testa dell’autore, quindi dovevo dire: “Provo a farla…”, ma ci credevo poco. Però anche lì mi sono aiutato. Mi sono aiutato bevendo qualcosa veramente, mi sono aiutato cercando di creare un’atmosfera. Lui stesso mi ha aiutato e devo dire che alla fine, sì, non sono Albert Finney in Sotto il vulcano (ride), ma penso di essere abbastanza credibile. Non ho trovato delle grandissime recensioni negative che parlavano di me, diciamo che sono sgusciato abbastanza bene (ride). Forse voi critici mi avete anche un po’ aiutato, avete detto “Diamo a questo ragazzotto una possibilità”… Però non credo di essere l’elemento negativo del film.

Dimmi del rapporto con Luc Merenda

Con Luc direi che è stato un rapporto complicato. Io a Luc voglio molto bene, mi piace starci del tempo insieme…

Era un tuo mito…

Ma certo! Da ragazzino, grazie a Nocturno, vedevo i suoi film. All’inizio volevo piacergli, volevo diventargli amico. Dopo, quando l’amicizia è arrivata davvero, è nato un rapporto anche un po’ conflittuale, ma nel senso bello. Ecco, un paio di volte mi ha anche sgridato e aveva ragione. Capito? Quindi è un rapporto strano, io gli voglio bene, gli ho anche offerto una parte nel nuovo film che farò. Spero che accetterà. Comunque, sono sinceramente affezionato a Luc, mi piace come persona, anche quando mi fa incazzare (ride).

Parliamo un attimo della realizzazione del film. Materialmente, quando e come è avvenuta?

Il paese del melodramma è stato girato nel 2022. Lo ‘abbiamo spezzato in due parti, per una questione produttiva. Perché metà del film è ambientato al Teatro Regio di Parma, e quindi dovevamo attenerci alla loro disponibilità. Abbiamo girato la prima parte in maggio e la seconda parte l’ultima settimana di luglio e la prima settimana di agosto: grossomodo abbiamo fatto quattro settimane. In seguito c’è stata la scena del sassofonista e la scena della Chiesa che abbiamo realizzato tra dicembre 2022 e febbraio 2023. Quella del sassofonista non è male, sembra ispirata a un film russo. E poi c’è la tua, nel Duomo di Parma, che secondo me è la migliore del film.

Addirittura?

Non lo dico perché ci sei tu, credimi, ma perché lì viene per la prima volta analizzato il concetto di “morte”, vista addirittura come una cosa positiva, come una cosa rassicurante, all’interno dell’incubo di uno che ha paura di morire. Rende il film molto affascinante, quella scena. Poi c’è la location che è bellissima. Insomma, sotto il Correggio…

Io di quella scena al di là di tutto, sono rimasto veramente stupito dalla qualità fotografica del risultato. Lo stavo rivedendo oggi: la panoramica sull’affresco, in alto, ma anche sulla Pietà dell’Antelami, ha una luce eccezionale…

È stato complicato girare dentro il Duomo. Abbiamo dovuto chiedere molti permessi, fare intervenire tanta gente. Francesco avrebbe potuto scegliere un’altra chiesa, tra le molte interessanti di Parma. Invece, ha fatto bene a insistere e noi abbiamo fatto bene a rompere le scatole a molti, perché è una scena incredibile, semplicemente a livello scenografico. Punto. Ma è anche una scena importante, perché si vede la solitudine del personaggio, che riesci a tirare fuori tu, con le tue domande. Perché anche tu sei una persona che ci ha messo del suo in quel ruolo lì. Anche tu non sei un gran vitaiuolo, sei una persona che ama stare da solo…

Io mi ricordo benissimo che pensavo di fare solo un’apparizione, poi mi vedo arrivare questo papier da imparare a memoria: tre pagine con dialogo! Mi ero anche un po’ spaventato, ma poi parlando con Francesco: “Non ti preoccupare, tu impara le battute, non ti preoccupare…”. E quel giorno, tutto sommato, le cose sono andate assolutamente lisce…

Davvero, è la scena più bella del film, cioè le altre, nonostante avessimo una troupe di quaranta persone, con tutta Parma a nostra disposizione, di tutto e di più, non sono così… Perché è anche un po’ la scommessa e la costrizione del basso costo, che ti dà un rigore morale, secondo me. È per questo che Il vincente è rimasto, perché è stato girato tutto così. Guarda, senza falsa modestia, ti dico che il fascino del Vincente è che è stato fatto così. Perché quel tipo di cinema qua, ha una sua sofferenza da parte di chi lo fa, mentre quando tu giri un film normalmente con tutta la produzione, tutte le comodità, è diverso. Non so come spiegartelo: vai più rilasciato, hai meno paura. Ma io te lo dico come attore: nelle altre scene non avevo quella tensione che avevo quel giorno nella scena con te in Duomo. Anche il fatto che Barilli non stava benissimo, ce lo siamo detti anch’io e lui, probabilmente ha aiutato nel creare un’atmosfera di gravità. Il fatto che i preti non avessero acceso il riscaldamento e facesse un freddo della madonna, ha aiutato a creare un’atmosfera di gravità. Quando, ad esempio, ho girato la scena del provino in cui avevamo tutto a disposizione, il teatro eccetera, io non avevo quel rigore morale che avevo in quella scena nel Duomo…

Con Davide Pulici, Il paese del melodramma

Quindi, tu dici che è uno sprone in più sentire il “peso” di una certa situazione ambientale…

Assolutamente, perché se tu giri un film in quelle condizioni lì… e ti porto di nuovo l’esempio del Vincente, che praticamente ho girato tutto in condizioni simili…

… aiuta emotivamente a far sbloccare qualcosa e aiuta emotivamente nel convincere la gente…

Assolutamente… Se mi viene a prendere un autista che mi porta a tre metri da casa mia, al Teatro Regio, scendo e ho 40 ragazze carine che mi offrono il caffè, e l’assistente poi mi dice educatamente che devo andare al trucco eccetera, si determina un clima rilassato che, almeno per me, finisce per dissipare l’energia…

Il paese del melodramma ha avuto vita al cinema, quindi su piattaforma e adesso è uscito in dvd e Blu-ray…

Io sono molto contento del percorso che gli abbiamo dato, perché ormai distribuire un film è diventato pressoché impossibile. Siamo riusciti a tenerlo un mese nelle sale. Io lo dico sempre: il film non è uscito, “è scappato”, che è una frase che ha coniato Bruce Campbell per il secondo film che ha fatto con Sam Raimi, I due criminali più pazzi del mondo, che secondo me è un film che abbiamo visto io, te e Manlio Gomarasca. Basta, punto. Nessuno l’ha visto quel film lì. È scappato. Anche Il paese del melodramma “è scappato”. Però è stato uno scappare, che poi fondamentalmente è servito, perché sono uscite delle recensioni positive, un minimo di pubblico, di pomeriggio, con degli orari incasinati, andava a vederlo. Si è sparso un pochettino il passaparola, e questo ha fatto in modo che Prime ce lo prendesse, che questa società, Terminal Video, ce lo distribuisse in DVD in Blu-ray. Diciamo che il primo mese di programmazione nelle sale è servito per creare un minimo di legacy positiva. Poi è chiaro che il grosso pubblico lo sta trovando adesso, con quest’altra forma di fruizione.

Qual è il prossimo progetto di Luca Magri, a questo punto? Domanda retorica perché io lo conosco, ma, per quello che puoi/vuoi dire, raccontalo tu…

Il progetto principale è quello di fare un film che parli delle stesse cose di cui parlava Il vincente, però, togliendo l’elemento della vita di provincia, della vita da quartiere, che è già stata narrata, ma portandolo in una dimensione più nazionale, più realistica. Perché sono convinto che le tragedie che trasmette quel tipo di ambiente, intendo il gioco d’azzardo, la compulsione al gioco, sono impareggiabili, basta che tu ti rilegga Il giocatore di Dostoevskij, non è che sono il primo ad averlo pensato. E quindi il mio obiettivo è quello di fare un film così. Infatti lo intitolerò I vincenti, anche in omaggio al primo. Ed è quello su cui sto scommettendo, sto facendo di tutto per farlo partire. Deve, però, a differenza del primo, arrivare più immediatamente a un pubblico più ampio. Il mio obiettivo come cineasta, come attore, come produttore, è quello di farlo arrivare a un pubblico più vasto.

Sul set del Paese del melodramma, con Francesco Barilli

E come si fa? Conta il budget?

Assolutamente. Il Vincente è stata probabilmente la cosa migliore che ho fatto nella mia vita. Perché è costato 50.000 €, è uscito di soppiatto e poi ha trovato la sua strada. Io vorrei rifarlo con un budget adeguato, un milione di euro, mezzo milione, adesso non lo so di preciso quello che sarà…

Però, alzare il tiro, fondamentalmente…

Alzare il tiro, guadagnare spettacolarità, perché comunque questo è un tipo di storia che il grande pubblico deve capire. La ludopatia è una piaga universale, però non è avvertita dalla maggior parte delle persone come tale. Cioè è un male paragonabile alla droga, all’alcolismo, a queste cose, ma non è pubblicizzato come tale, non è percepito nello stesso modo. Io voglio che lo sia, questa è la mia missione sociale. La missione artistica, invece, è quella di fare un bel film che intrattenga un pubblico vasto. Purtroppo noi abbiamo trasformato, e parlo di noi come italiani, una florida industria in qualcosa di diverso. Purtroppo non c’è più un’industria cinematografica, o meglio c’è solo per quei venti o trenta film che ogni anno escono e vengono pubblicizzati a dovere. Ecco, per questo prima ti ho detto che ambisco a una cosa del genere. Perché se io spendo altri tre anni della mia vita per fare un altro film, come attore e come regista, deve averlo un pubblico. Per Il vincente magari non era così. Mi accontentavo di una semplice uscita, per dire, vediamo come va. Tutto è stato fatto in modo pauperistico, siamo stati anche fin troppo fortunati probabilmente. Capisci quello che intendo? Gli altri magari non hanno queste fortune.

Credo che quello che stai dicendo sia una sana doccia di realismo che è raro trovare…

Perché, tu trovami un cineasta che non gode a far vedere le sue opere! Sarebbe una contraddizione in termini…

Mi farai fare un ruolo nei Vincenti, temo…

Ah, stanne certo (ride)…