Dracula
2020
Dracula è una miniserie tv del 2020, creata da Mark Gatiss e Steven Moffat.
Quanto è complicato, Dracula? Non il romanzo, ci mancherebbe: è complicato il personaggio. Se ne lamentano più volte i protagonisti della nuova serie di Mark Gatiss e Steven Moffat, e l’intento non è neanche tanto nascosto. Come applicare a un personaggio simile il “trattamento realismo” che tanto bene aveva funzionato con Sherlock? Il Conte è una metafora (di quello che ci pare: l’eros, la morte, la paura, la superstizione, l’aristocrazia, pure la mascolinità tossica, perché no); i suoi tratti distintivi non sono coerenti. Teme le icone cristiane? E il sole? I paletti lo uccidono? Devono essere di frassino? Può entrare in casa solo se invitato? E’ vero che può trasformarsi in nebbia, in animali, ipnotizzare le persone? Deve dormire nella terra natia? O dentro una bara? O dentro una bara piena di terra natia? Se ti morde muori, o diventi un vampiro, o cosa? E l’aglio, che c’entrava? “Nulla ha senso con questi vampiri!”, si lamenta Van Helsing a più riprese. Ed è in un certo senso il via libera che si danno i due autori nell’approcciarsi ad un Dracula in cui vale tutto, poco o niente ha senso, le regole cambiano in corsa e il motore degli eventi è solo il divertimento, il gusto di raccontare e di sorprendere. Parlare di un “trattamento Sherlock” è in realtà corretto fino a un certo punto; se il personaggio di Benedict Cumberbatch, complice il contesto moderno, della controparte letteraria aveva giusto il nome, il Dracula Netflix-BBC mira veramente a confrontarsi con il Mito. Ripartire da Stoker, e proporre una nuova lettura in scia a quelle del passato.
Dracula è ormai un testo che vive di rielaborazioni (come Pinocchio, o Spiderman, o l’Odissea); quella di Gatiss e Moffat non può che incarnarsi nel particolarissimo stile narrativo della coppia, bene o male il marchio di maggior successo della serialità inglese recente. Impossibile allora spendere più di due parole sulla trama: basti sapere che il Conte è Claes Bang di The Square, e che la serie comincia come il libro, per poi procedere per fatti suoi. Il personaggio di Dracula ha in fondo molto più in comune con Sherlock Cumberbatch di quanto non appaia. Come lui, il Conte vampiro sintetizza magnificamente le caratteristiche all’Eroe Classico di Gatiss e Moffat: super-witty, un po’ psicolabile, molto cool, sempre aristocraticamente “superiore” agli altri, lieto di dare lezioni di vita a tutti e sciorinare la propria weltanschauung ad ogni occasione, come un personaggio di Sorrentino. Le sue avventure nelle quattro ore e mezza della mini seguono quel tipo di narrazione caratteristica dei due autori, ormai riconoscibile come un protagonista aggiunto; l’avvio classico, il cambio di prospettiva a 2/3 del racconto, la chiave di lettura meta, il contro-cliffangher finale che rilancia la posta per quello dopo ribaltando completamente le carte in tavola. Stilemi applicabili ai singoli episodi come, in scala, alla miniserie stessa. Un gioco forse un po’ castrante per in primis gli sceneggiatori, costretti ormai a lottare con la ripetitività dello schema e l’occhio allenato dei fan (già nell’ultima stagione di Sherlock la differenza con una fanfiction semi-parodistica era dura da cogliere). Bisogna amare veramente Gatiss e Moffat, e chiudere compiacenti mille occhi, per godersi questi tre episodi. Se lo si accetta, è il solito spasso. Quanti Dracula esistono, al cinema? Riducendo in archetipi, almeno tre: quello romantico maudit di Oldman e Coppola (responsabile indiretto delle aberrazioni degli ultimi decenni, da Stephanie Meyer e True Blood); il non-morto agonizzante dei Nosferatu tedeschi; e quello iper-sessuato e vagamente stupratore dei seduttori Lee/Lugosi.
In barba ai vampiri recenti, borghesi e innamorati, gli autori rispolverano la terza lettura (con un’anima herzoghiana nascosta), spingendo verso un gradito ritorno a quelle vibrazioni rapey proprie delle primissime incarnazioni. E’ quindi un Claes Bang strabordante a fare la serie: il suo è il Dracula gender fluid della golosità orale, del succhiare ossessivo, del godimento ricercato e accumulato senza controllo. Un protagonista talmente potente da mettere fuori gioco di riflesso lo scialbo cast di contorno; a partire dall’insopportabile nemesi Van Helsing, l’ennesima fantasia di personaggio femminile forte come concepito da scrittori maschi (una macchietta spara-battute a cui mettere in bocca brillanti e anacronistiche opinioni “giuste” su tutto lo scibile umano). Anche sul piano estetico, il Dracula Netflix è una festa Hammer: i primi due episodi sono un trionfo di neoclassicismo horror, dai colori alle inquadrature, fino alla nebbia, i passaggi segreti, i quadri che seguono con gli occhi. E’ un Dracula rispettoso, filologicamente quasi nerd, e pertanto immediatamente simpatico: da Joss Whedon a Jesús Franco, ogni vecchia incarnazione è presente. Così tante idee fanno però fatica a incastrarsi con ordine nel formato della miniserie. La solita bulimia sensazionalistica dei due autori perde presto il controllo, e arrivati al terzo episodio sono troppe le scene improbabili, che non funzionano, o che, semplicemente, non hanno senso. Proprio lì, quando la serie dovrebbe decollare grazie al suo twist più potente, si va invece incontro ad una chiusura forzosa e anti-climatica, che infanga il super-ritmo dei primi due episodi e tarpa sul nascere le ali ad un proseguimento, al momento, non previsto. Anche la rilettura del mito con cui i due protagonisti ci lasciano non è nuovissima, e la sensazione finale resta più quella del divertissment che dell’opera compiuta. Difficilmente entrerà nel Canone dei grandi adattamenti: ma nel luna-park Gatiss e Moffat resta impossibile tenere il muso.