The Deliverance
2024
The Deliverance – La redenzione è un film del 2024, diretto da Lee Daniels.
Lo sappiamo: quando un artista non avvezzo all’ horror si avvicina al genere è sempre un rischio. A volte ci si trova davanti a delle vere e proprie rivelazioni, sguardi nuovi e inaspettati. Senza tirare in ballo mostri sacri come Shining di Kubrick o Nosferatu – Il principe della notte di Herzog, ci sono stati diversi casi in tempi recenti, vedasi l’ex comico Jordan Peele o Luca Guadagnino. A volte invece viene da porsi la triste domanda: “ma perché questo regista ha fatto un horror?” Ancora non si spiega la scelta di affidare a David Gordon Green – autore di commedie come Strafumati e Lo spaventapassere – gli ultimi tre film della saga di Halloween, uno peggiore dell’altro. Dopo la visione di The Deliverance – La redenzione purtroppo la domanda sorge spontanea. Il regista Lee Daniels torna a parlare di personaggi al limite, in difficoltà con le loro vite che sembrano non riuscire più a tenere sotto controllo. Protagonista della pellicola è infatti la famiglia afroamericana Jackson, composta dalla madre alcolizzata Ebony (Andra Day, già comparsa in Gli Stati Uniti contro Billie Holiday), e i tre figli: Andre (Anthony B. Jenkins), Shante (Demi Singleton) e il piccolo Nate (Caleb McLaughlin, giovane star della serie Stranger Things). A completare la foto di famiglia la grande Glenn Close, nel ruolo di Alberta, nonna bianca malata di cancro, oltre che tossica ripulita grazie a una ritrovata fede in dio.
Ispirata al fatto di cronaca che ha coinvolto Latoya Ammons nel 2011, la trama del film segue la famiglia Jackson alle prese con l’ennesimo trasloco in una casa nuova, e i tentativi di Ebony di affrontare dipendenze e servizi sociali per non farsi togliere l’affidamento dei figli. Se sulla carta sarebbe una trama perfetta per un horror si riscontrano subito diversi problemi. Intanto la scelta di prendere l’ennesima storia vera con elementi paranormali inspiegabili è rischiosa, vista la mole di titoli che negli anni partivano da tali premesse. Insomma vedere l’ennesimo figlio di The Conjuring (o forse sarebbe meglio dire l’ennesimo nipote di Amityville) fa mettere subito sull’attenti, e non in senso buono. Se poi questi personaggi non hanno un guizzo o un elemento che li differenzi davvero da quelli di altri mille horror di infima categoria allora c’è un problema. Fatta eccezione per Glenn Close che spezza un po’ la monotonia, il resto della famiglia Jackson appare come uno dei tanti nuclei perseguitati da presenze paranormali. Tutti i rapporti genitori-figli sono superficiali, senza un reale disagio. Siamo lontani dal meraviglioso scontro tra Essie Davis e Noah Wiseman di Babadook, in cui i rancori sopiti strisciano lentamente fuori dal buio dell’anima per infettare l’amore tra madre e figlio. L’unico scontro realmente interessante sarebbe quello tra Ebony e Alberta, a cui però non viene dato il giusto spazio per lasciare spurgare il marcio che contiene. Ma tutto questo sarebbe ancora perdonabile se almeno il film portasse alta la bandiera del cinema di genere, proponendo una componente horrorifica degna di questo nome. Purtroppo è proprio qui che torna la domanda: “perché un horror?” La prima parte cerca di mantenere il paranormale più sotto tono, concentrandosi sui personaggi ma non avendo la forza di una messa in scena adeguata. La casa viene inquadrata come una normalissima abitazione, senza soffermarsi sui quei pochi elementi che potrebbero costruire davvero la tensione. Non sembra esserci una reale consapevolezza da parte del regista di come usare gli spazi a sua disposizione.
Quando poi si arriva alla scena della scuola, dove i giovani Jackson mostrano i sintomi della vicinanza alla creatura demoniaca, il tutto risulta depotenziato dalla presenza di troppi personaggi. Sarebbe bastato proporre solo uno o due figli massimo, concentrandosi su pochi elementi disturbanti. Neanche con la seconda parte il film riesce a ingranare. Quando l’orrore, il demoniaco esplode si rifugia in soluzioni visive per nulla originali e una serie di cliché anni settanta. Stanze che diventano gelide, arrampicate sui muri e stigmate che compaiono sulle mani sono tutte trovate che potrebbero galvanizzare qualche giovare visitatore dell’horror, ma a chi visto almeno una decina di film sulle possessioni ormai comunicano poco. Sul lato tecnico poi c’è poco da dire: una fotografia curata ma troppo pulita, patinata e che gioca quasi solo sul contrasto luce calda-luce fredda, senza distaccarsi troppo dal resto dei prodotti di Netflix. Si possono segnalare un paio di movimenti di macchina leggermente più ispirati ma per il resto la regia di Daniels non offre particolari spunti di riflessione. Insomma non si capisce perché Lee Daniels si sia impelagato con questo film: viene da pensare che non ci sia un reale interesse verso questo genere, ma solo una voglia superficiale di creare l’ennesimo prodotto da consumare in streaming senza farsi troppe domande. Perché se è vero che l’horror è il genere perfetto per veicolare argomenti scottanti, scomodi, sociali o politici, è altrettanto vero che bisogna conoscere il mezzo e sapere come utilizzarlo.