Nera italiana: ritorno e pregiudizio
Tra SanPa e Veleno, la docu-serie nell’era della post-verità
La storia del giornalismo e della televisione italiana ci dice una cosa: l’oscurità, il delitto, il torbido sono la narrazione che ha da sempre affascinato di più gli spettatori. Storie private (da distinguere da quelle pubbliche che non sono mai state da e di meno) intrise di sangue, segreti, colpi di scena e finali amari. Appassionante più di un film, reale nell’entrare, a volte anche di prepotenza, in case e vite che poco hanno di diverso da quelle di chi osserva e, catturato, si appassiona. Sono proprio le persone, i luoghi, tra paesino e provincia, a far scattare la molla: poteva succedere a me o nella città dove vivo. E infine c’è il mistero, sempre, anche quando l’assassino viene preso; perché la realtà può dare risposte ma non eliminare dubbi. La storia del nostro paese è piena di mostri o presunti tali, da riempirci un camposanto. La sottile e fascinosa linea nera che la aggancia al pubblico è tratteggiata da uno studiato quanto spietato gioco al massacro. L’opportunità è quella di essere parte di una giuria da tribunale americano, senza però che sia richiesto di fare come Henry Fonda nel famoso film di Sidney Lumet. L’obiettivo è il dibattito, creare fazioni di colpevolisti e di innocentisti, all’occorrenza anche di complottisti. Se poi il lavoro viene svolto coscienziosamente, allora si può dare al pubblico qualcosa di più prezioso di una sentenza: un resoconto più esauriente possibile dei fatti e uno strumento di sopravvivenza come il ragionevole dubbio, oltre alla consapevolezza che certe storie non parlano solo di vittime e di carnefici, ma anche della nostra realtà sociale. In Italia, ci siamo spesse volte dimostrati ondivaghi nel parlare di nera. Durante il Fascismo, ad esempio, Roma fu sconvolta dai brutali omicidi di cinque bambine. Il regime, per convincere il popolo della propria infallibilità, si adoperò affinché il caso venisse risolto in tempi brevi e a tutti i costi: venne arrestato Gino Girolimoni, un fotografo che si rivelò presto assolutamente estraneo ai fatti. La campagna mediatica colpevolista agitata nei suoi confronti, tuttavia, gli fece concludere comunque la propria esistenza come “mostro di Roma”. Nel film che racconta la sua vicenda, diretto da Damiano Damiani nel 1972, si assiste ad una cosa che corrisponde a verità: ancora oggi “Girolimoni” a Roma viene usato come sinonimo di “pedofilo” o per indicare un uomo avanti con gli anni che ci prova con ragazze giovani.
Un caso mediaticamente dirompente, oltre che mai risolto, è stato quello del mostro di Firenze. Uno spettacolo, si può tranquillamente dire, dove i brutali omicidi che avrebbero dovuto essere il centro della narrazione hanno lasciato presto la ribalta alle grottesche deposizioni in tribunale dei rinomati “compagni di merende” e dei vari testimoni o presunti tali succedutisi negli anni. Nel mezzo, le folte schiere dei “Pacciani libero” e dei criminologi della domenica che sono poi rimasti in eredità fino ad oggi. Un giornalismo e una televisione che si avviavano carponi verso l’era del reality e del televoto: non il racconto obiettivo e spassionato di un caso, ma la sua rimodulazione spettacolare. Puntate su puntate il più delle volte prive di contraddittorio quando una vicenda sembrava volgere verso una soluzione, l’interpellanza di questo o quell’opinionista o addirittura dell’uomo o della donna comune in studio. Il medium si scopriva capace di manipolare a piacimento il racconto, ogni volta che l’opportunità lo richiedeva. L’era dei social ha poi amplificato di n-potenza questo meccanismo, arrivando a quella che oggi molti studiosi chiamano col nome composto di “post-verità”. L’immediatezza e la capacità di oltrepassare i confini cui il racconto mediatico tradizionale era giocoforza obbligato è stata l’arma in grado di rimettere in discussione anche le vicende più chiuse della nostra narrativa. È in questo entroterra che hanno trovato spazio, recentemente, anche docu-serie come SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano e la freschissima Veleno. Con le dovute e giuste distinzioni che verranno spiegate di seguito. SanPa e Veleno, oltre all’approccio di revisione alle vicende di cui rendono conto, hanno in comune anche il contesto. Piccole cittadine, che affiorano nell’immensa campagna basso-padana e reggio-emiliana: teatri di storie che ricordano il gotico avatiano, oscure vicende avvenute nella silente connivenza di una chiusa comunità rurale. Sono storie altisonanti, che nei decenni hanno visto verità date per acquisite essere poi smentite, con il conseguente disvelamento di altri dettagli non meno inquietanti. Rappresentano entrambe, almeno nell’intenzione, l’occasione ultima di rimediare ad anni di supposizioni e prese di posizione acritiche. Un tentativo finale di tornare a raccontare, più che di emettere sentenze. Questa è la differenza fondamentale, anche se non per forza perseguita fino in fondo, rispetto ad un modus narrandi che ha come unico obiettivo quello di dire che tutto quanto sia stato detto precedentemente è sbagliato o falso.
SanPa, ad esempio, nasce dalla necessità, dichiarata nel sottotitolo, di offrire un racconto asettico nella sua “chiaroscuralità”. Viene riavvolto il nastro sulla storia di Vincenzo Muccioli e della sua comunità di recupero per tossicodipendenti, stavolta attraverso il racconto diretto degli intervistati. Ognuno viene racchiuso nel rettangolo dell’inquadratura, libero e prigioniero al tempo stesso nel riferire la sua versione. È l’ultima chiamata, sia per dire come andarono veramente le cose sia per tracciare una linea netta su un’esperienza personale che li ha visti partecipare al gran ballo delle colpe e delle ipocrisie. Attraverso questi resoconti, aspetto profondamente calcolato, l’incompiutezza deve emergere come l’unica sopravvissuta alla vicenda. Non si tratta più di decidere se Muccioli fosse un santo protettore dei drogati o un folle tiranno accecato dal potere, ma di narrare una storia divenuta più grande anche dei suoi protagonisti, e questo è probabilmente ciò che ha fatto imbestialire chi invece era in attesa di assoluzioni o condanne postume. Non si può poi tenere conto, invece, della natura più derivativa di Veleno, prendendo essa come base l’omonimo podcast e libro di Pablo Trincia. Quella dei Diavoli della Bassa Modenese è una vicenda ancora più ostica da affrontare rispetto a quella di San Patrignano, anche perché tutt’oggi non sembra trovare l’ombra di una fine. Trincia non è un dubbioso, ma un convinto sostenitore di una tesi: i Diavoli non sono mai esistiti e molti bambini sono stati ingiustamente portati via dalle loro famiglie, accusate di crimini che superavano ogni limite di crudeltà, ma anche di credibilità. Un secondo vaso di Pandora, dunque, che ha dischiuso scenari non meno spaventosi, ossia quelli in cui psicologi e assistenti sociali avrebbero instillato nei loro piccoli assistiti falsi ricordi di abusi e violenze per farli allontanare dai loro genitori. Una crudeltà che prendeva il posto di un’altra crudeltà. Due posizioni, due ipotesi estreme e prive di scappatoie. Qui sta tutta la differenza del mondo tra SanPa e Veleno, laddove quest’ultima rinuncia in modo chiaro ad essere arbitro super partes. Non lo fa solo a partire dalle due puntate finali, in cui la narrazione è palesemente sbilanciata a favore delle tesi di Trincia, prendendo anche i famosi e recenti fatti di Bibbiano come supposta prova del nove, ma sin dai primi minuti del pilot, quando la voce del giornalista, di nuovo in sala di registrazione, funge da narratrice della vicenda.
Dopo più di vent’anni, un podcast e un libro, poteva benissimo essere l’ora delle medias res. Non perché esse corrispondano per forza alla verità, ma per il semplice motivo che, persone coinvolte nei fatti escluse, della verità non se ne gioverebbe più nessuno. Raccontare l’oscurità e il mistero è ben altro lavoro del cercare risposte certe. Lo spettatore non dovrebbe essere messo nella posizione di dover scegliere il testimone a cui credere; se al figlio di Muccioli o al “pentito” ex autista Delogu, se alla psicologa di Mirandola o alla madre cui sono stati tolti i cinque figli. Nessuno deve e può essere più credibile di qualcun altro, specie in un prodotto così costruito e montato. Le storie, quelle vere, passano mentre accadono, si consumano senza attendere che qualcuno abbia capito tutto e lo possa spiegare agli altri. Scorrono, così come scorre la Storia che però lascia delle tracce assai più evidenti. Come quella della politica italiana, spesso interessatasi (verbo dal doppio significato) pubblicamente a quanto accadesse a San Patrignano e tra Finale Modenese e Mirandola. Raccontare di come un’intera classe dirigente si fosse affidata a Muccioli come largo tappeto per nascondere la polvere della tossicodipendenza diffusa, senza crearne valide imitazioni e mascherandola come un’operazione di salvezza e salvaguardia per i tanti giovani drogatelli del paese, è sicuramente più interessante del sapere quante sberle o catenate volassero a San Patrignano. Così come lo sarebbe stato approfondire la realtà dei servizi sociali e della psicologia infantile in luoghi dove la religiosità più ancestrale e patriarcale è ancora forte, invece che perdere così tanto tempo tra fantomatiche messe nere e lavaggi del cervello da parte di ambigui guru della neuropsichiatria. La nera italiana può dunque trovare in questo tipo di prodotto audiovisivo (e rigorosamente televisivo) un ottimo entroterra dove spiegarsi e redimersi, dove raccogliere e rendicontare sono gli unici strumenti per dire qualcosa in più di quanto già riferito. Nel rispetto, ovviamente, dei protagonisti reali, ma soprattutto delle vittime certe e non di quelle supposte. Non è più tempo dello scandalismo di sistema o dell’ancora più bieco sciacallaggio mediatico apertamente schierato; il medium televisivo può solo dare il buon esempio svestendo i panni di guardia, giudice e boia e tornare semplicemente al distacco, alla distanza di chi osserva e nutre legittimi dubbi.