The Gift. Il film più sottovalutato di Sam Raimi
Rivalutare l'horror del 2000. Il mistero negli occhi di Cate Blanchett
Non ci sono molti misteri nella vita: la realtà è quella che tocchiamo.
Wayne Collins interpretato da Greg Kinnear
La genesi di The Gift (2000) è incredibile, quindi vera: su soggetto di Tom Epperson a scrivere la sceneggiatura fu l’attore Billy Bob Thornton, rielaborando la sua esperienza autobiografica. La madre di Thornton, Virginia Roberta Faulkner, era infatti una medium che basava la sua attività extrasensoriale sulla lettura delle carte Zener: il mazzo inventato dallo psicologo Karl Zener negli anni Trenta, composto da venticinque carte con cinque figure che si ripetono cinque volte, ovvero il cerchio, la croce, il quadrato, la stella e l’onda. Pensate al test di Venkman in Ghostbusters. La signora Faulkner faceva quelle carte e così la protagonista del film. Tra le previsioni più famose della medium ci fu il successo del figlio come attore: la mamma aveva predetto al giovane Billy la riuscita nella sua professione ben prima che il ragazzo vi si affacciasse. Anche se sembra strano per un film su una sensitiva, dunque, il racconto è “ispirato a una storia vera” e vanta un punto di partenza realmente “extrasensoriale”. A finanziare è la casa di produzione Lakeshore Entertainment.
Da parte sua, nel giro di secolo Sam Raimi si trovava in un momento particolare della sua carriera: aveva chiuso per il momento la fase più ironica e cinefila con il western Pronti a morire (1995), tripudio di citazioni che funzionava anche come giocattolo cinematografico impeccabile e spassoso. Poi aveva spiazzato tutti con l’ultimo capolavoro degli anni Novanta, Soldi sporchi (1998), un apologo immorale sul fascino del denaro scolpito nelle nevi del Midwest: l’elemento più sorprendente è la svolta di regia che, seppure mantenendo un’intrinseca cinematicità, depura l’ironia, diventa rigorosa e inflessibile per inscenare la scabrosa vicenda degli amici che si ammazzano tra loro per una borsa di soldi. Ecco, The Gift fa parte del Raimi di questo periodo: cupo, oscuro, privo di umorismo se non in sprazzi minimi, capace di costruire un’angoscia tesissima che si taglia col coltello. Quando arriva la proposta Raimi aveva appena finito Gioco d’amore (1999): i fan non gli perdonano il radicale cambio di genere nella storia del giocatore di baseball Kevin Costner, che viene equivocata probabilmente a causa di un’aspettativa (per molti Raimi era ancora il regista de La casa), senza capire l’operazione che venne tentata. Il cineasta del Michigan, amico di Thornton che aveva diretto proprio in Soldi sporchi, si tuffa nel progetto The Gift.
La protagonista della storia è la sensitiva Annie Wilson interpretata da Cate Blanchett, che vive in una piccola città della Georgia: un marito morto, tre figli a carico, la donna cerca di arrotondare attraverso la lettura delle carte agli abitanti del paese. La pratica si abbina al dono extrasensoriale di “vedere” nitidamente le situazioni più occulte e misteriose (per esempio una violenza sepolta nel passato). È molto dolce Annie, aiuta davvero i concittadini come dimostra l’inizio, quando riconosce la malattia di un cliente e si offre di intervenire. Un figura simile, però, collocata in una realtà ridotta non piace a tutti, è sempre a rischio: può essere scambiata per una strega con cui accendere un moderno rogo. Intorno a lei ruota una serie di personaggi, tutti incarnati in attori riconoscibili: c’è Valerie, la donna picchiata dal marito (Hilary Swank), il duro e violento Donnie (Keanu Reeves), il meccanico complessato e problematico Buddy (Giovanni Ribisi), il preside della scuola Wayne (Greg Kinnear) e soprattutto la femme fatale Jessica King, ossia Katie Holmes, che sta per sposare Wayne ma ha troppi amanti. È lei l’innesco dell’intreccio: quando la ragazza scompare la polizia brancola nel buio e si rivolge proprio ad Annie, tra scetticismo e possibilità. Quale carta esce dal mazzo? L’onda, naturalmente. Il cadavere di Jessica viene ritrovato in uno stagno che Annie aveva “visto”, all’interno della proprietà di Donnie: il caso sembra chiaro ma…
Cosa distingue The Gift nell’universo dei film con protagonista medium? Prima di tutto c’è la regia di Raimi. E si sente. Basti prendere la sequenza del primo sogno di Annie: scandita dai rintocchi di una pendola, il regista ovatta l’immagine calandola nell’onirico. Si lancia in una ripresa dei rami storti, così come “storta” è l’umanità della cittadina, mantenendo in sovrimpressione gli occhi di Annie, quelli che vedono oltre la percezione concreta e tangibile. La donna cammina per strada sola, poi raccoglie un fiore che le appassisce subito tra le mani: qui il sogno cambia, diventa nebbioso e gotico. Raimi si produce in una panoramica dello stagno salmastro, che si conclude ancora una volta sul viso. Tutti gli elementi esterni e ambientali confluiscono sempre nel volto e nella linea dello sguardo, perché è dentro la sua mente che sta avvenendo la visione. Annie trova una catena insanguinata e un suonatore di violino che si riflette nello specchio dell’acqua, poi si sveglia. La magistrale direzione raimiana, attraverso segni e simboli, insinua in modo subliminale gli indizi per ritrovare Jessica.
Il cineasta agisce sull’estetica del bosco, il fogliame, le notti di luna piena: grazie alla scenografia di Neil Sisak cesella quadri visivi che sembrano usciti da un dipinto di Caspar David Friedrich, tra alberi morti e figure nella nebbia, creando così una sorta di luogo incantato, ma di un incanto nero e perennemente minaccioso. Qui la realtà può chiudersi a fisarmonica, lasciando spazio all’inspiegabile e al sovrannaturale: ha torto il preside Wayne quando propone il suo approccio razionalista (“La realtà è quella che tocchiamo”), la sua pretesa di una vita senza misteri. Ha ragione Annie nella gentile ma ferma convinzione che, parafrasando Montale, “la realtà non sia quella che si vede”. C’è qualcosa dietro il velo, un’essenza sotto la superficie: ecco che il Buddy di Giovanni Ribisi, il comprimario migliore, si lascia andare a un’esplosione di violenza in cui tenta di bruciare vivo il padre abusatore. Raimi gira una ripresa disperata, cattiva, che ottiene esattamente lo scopo: far emergere il rimosso stratificato nella normalità apparente. E ci fa provare per lui, vittima che si vendica, una pericolosa comprensione al limite dell’empatia.
Il regista gioca con i simboli primari, come l’acqua e il fuoco (l’acqua in cui si trovano morti, il fuoco che brucia streghe o stregoni) e incide l’affresco di un villaggio dei dannati, restituito con un meccanismo di angoscia pura che non viene intaccato dall’ironia postmoderna: fa “solo” paura. Se il lavoro sullo stereotipo prevede un deja-vù consapevole, due sembrano i riferimenti principali in filigrana: il primo è il seminale Twin Peaks di Lynch e Frost che continua a lasciare tracce, rinvenute nel cadavere di Katie Holmes che cita Laura Palmer, e in generale nell’archetipo dell’omicidio nella piccola città che scoperchia il lato “twin”, il gemello, il nascosto. Qui è il dono di Annie a svolgere questa funzione. L’altro è una serie sottovalutata: Millennium di Chris Carter, all’epoca appena andata in onda per tre stagioni (1996-1999), con il profiler interpretato da Lance Henriksen capace di vedere con gli occhi dei serial killer. Scrutare oltre e vedere abissi: plausibile che Raimi, regista cinefilo come pochi, abbia guardato a quello show di fine millennio.
Nella parte finale The Gift scioglie il suo whodunit e rivela il colpevole, ma come sempre non importa chi è stato bensì cosa è successo: negli ultimi memorabili venti minuti, sempre attraverso Ribisi, assistiamo alla conferma definitiva che il sovrannaturale c’è, è una parte di noi e il dono non fa altro che mostrarlo. Ecco perché suona ambiguo l’idillio finale, in cui Annie è riunita amabilmente con i figli e finalmente libera: perché c’è una nuova consapevolezza nel quadro, l’esistenza di un “altro mondo” è ormai attestata e bisogna imparare a conviverci. La statura del racconto passa per l’interpretazione di Cate Blanchett che, dopo Elizabeth (1998) e poco prima della fama planetaria, si concede con intelligenza l’incursione di genere: l’attrice allora trentenne si muove nel film con la sua diafana bellezza e insieme fragilità, appare piegata e quasi raggomitolata nei momenti più drammatici, ma allo stesso tempo sfodera una tenace determinazione nell’indagine, convinta con fierezza del suo “dono”. Una figura, donna sola con tre bambini, che piacerebbe al tempo del nuovo femminismo.
Blanchett rende credibile il personaggio tosto e vulnerabile della sensitiva collocandola, con la sua fisicità quasi eterea, al confine tra due mondi, il nostro e quello dei fantasmi, come se fosse sempre sul punto di scomparire. Partendo da un budget di 10 milioni di dollari il film ne ottiene 44,6 in tutto il mondo. Non entrò nella storia, d’altronde era appena uscito Il sesto senso (1999) che dominava l’immaginario paranormale. Poco dopo Raimi si lancerà nella trilogia Spider-Man: tornerà a “scherzare”, con l’ironia del ragno declinata in sequenze mirabolanti che urlano amore per il cinema. Ma The Gift non è da meno. Resta uno dei titoli più criticati del regista, considerato a torto un’opera di passaggio. Invece ancora oggi, quasi venticinque anni dopo, il mistero nello sguardo di Cate Blanchett ci fa sospettare un’altra dimensione.