The Hateful Eight
Manovre di avvicinamento
Spend the holiday with someone you hate, passa il Natale con qualcuno che odi davvero! Una tagline strepitosa per annunciare che il nuovo film di Quentin Tarantino arrivava sugli schermi USA in concomitanza con l’arrivo di Santa Claus, con il quale ha condiviso anche paesaggi invernali e tanta rossissima neve. Frenate il fomento voi, italici picchiatelli, voi no, ne godrete solo a febbraio, l’intellighentia distributiva ritenendovi incapaci di sorbire al contempo lo Star Wars canonico e pure l’ottava meraviglia, l’ottavo film del Maestro. Non siete i soli a brontolare però, ché in America è tutta una levata di scudi in plexiglass, tonfa e simpaticissimi sindacati autonomi di polizia, uno su tutti, il Fraternal Order of Police. Sembra un’invenzione di Elmore Leonard all’apice della sua ironia, e invece è il nome della più grande associazione di poliziotti a stelle e strisce: in risposta alla discesa in campo di QT contro le violenze sui neri e i killer cops, i Confratelli lo hanno apertamente minacciato non solo di boicottaggio, ma di azioni legali che comprometterebbero l’esito del film e financo la libertà dell’artista.
Boicottaggio, dossieraggio, killeraggio mediatico non si sa, certo è che questo è solo l’ultimo dei boati che precedono The Hateful Eight. O è esso stesso The Hateful Eight, come lo è l’odissea virale della sceneggiatura rubata abbandonata riscritta; lo è la colonna sonora anch’essa trafugata modificata reinterpretata in parte in parto originale da Ennio Morricone; lo sono gli attori che interpretano il film e quelli che non lo interpretano ma avrebbero potuto farlo. Perché Quentin Tarantino ha portato il pop a una prospettiva altra, avant almeno tanto quanto retro, spingendo la sua arte al livello quintessenziale in cui l’opera, la creazione artistica, non è più necessaria. Non nella sua interezza, bastano pochi frammenti, trailer o footage, ufficiali o apocrifi. Tant’è, tutto il mondo ha già vissuto The Hateful Eight, anche se non tutto il mondo vedrà The Hateful Eight. Che il film sia il secondo capitolo di una trilogia western, improbabile proprio perché annunciata, a nostro avviso rileva poco: più importante è notare che sia il secondo film scritto e diretto da QT senza l’ausilio vitale di Sally Menke editor e amica, che stava a lui come Thelma Schoonmaker sta a Scorsese. Sally morì precipitando in un canyon californiano nei giorni del grande caldo del 2010, da allora qualcosa è cambiato per Quentin, il viaggio tra i generi cinematografici è diventato un ritorno a territori già battuti quindi cari. Nello specifico, l’incipit di Inglorious Basterds, il tranquillo ménage della famiglia di Shoshanna dentro una stanza, sconvolto e reso grandioso, definitivo, immortale, dall’avvento di Hans Landa: a detta di QT è questa la vetta del suo cinema e della sua scrittura, e insieme a questa il gioco di società e la mattanza dentro la taverna, sempre dei Bastardi senza Gloria.
Partiamo da qui, apriamo la porta e guardiamo fuori in campo lunghissimo dentro The Hateful Eight, come anche noi fossimo John Ford. Somewhere in Wyoming, inverno postumo alla guerra civile, una diligenza nella tormenta che trasporta una condannata alla forca e il suo cacciatore, destinazione Red Rock; sul percorso un bounty killer che chiede un passaggio e monta su; insieme giungeranno a Minnie, locanda, baita, rifugio, non luogo, in attesa che il tempo migliori. Da Minnie incontreranno altri pessimi elementi, un totale di quattro nemici al bar, di intenzioni ambigue ma incerte, perché niente e nessuno è come sembra, e in verità vi dico che uno di loro tradirà. Pensate ai Dieci piccoli indiani di Christie, a La cosa di Carpenter, a Sergio Leone, non sbagliate. Forse. Perché QT pensa in detour, e dichiara che la sua ispirazione viene dal piccolo schermo, Bonanza, Ai confini dell’Arizona, The Virginian pure ambientato in Wyoming. Il western televisivo seriale di inizio anni 70, quando le serie tv erano immaginario e visioni e non “sceneggiature filmate” (copyright by Luca Guadagnino), attorno a un episodio chiave classico, ciclico, come un pomeriggio di un giorno da cani: fuorilegge dall’oscuro passato asserragliati a detenere un eroe ostaggio.
Uguale ma diverso, niente eroi in The Hateful Eight, Tarantino dixit: «Volevo fare un film interpretato solo da quei personaggi. Nessun eroe, solo un gruppo di motherfucker in una stanza, a raccontare vecchie storie vero-false. Ho pensato di chiuderli in una stanza con una bufera di neve fuori, di dare loro pistole e proiettili, e vedere cosa sarebbe successo». Un fumetto, 8 pagine scritte da QT e illustrate da Zach Meeyer per il Playboy deormonizzato dell’oggi, ci introducono alla galleria degli 8 odiosi che odiano. Kurt Russell, il Boia, acconciato come nel coevo meraviglioso Bone Tomahawk: la ferocia di un toro, l’arguzia di un bisonte, incatenato ad una killer che l’odia. Jennifer Jason Leigh, lei, il prigioniero, prossima al cappio: è killer? è pazza? Farà niente per liberarsi? Samuel Jackson, il cacciatore di taglie: freddo come un cetriolo, letale come una vipera. Walton Goggins, forse il nuovo sceriffo di Red Rock. Demian Bichir, il messicano, tanto mistero sotto il sombrero. Tim Roth, il boia di Red Rock, oscuro (da) scrutare sotto il suo British bon ton. Michael Madsen, il cowboy solitario, giunto alla Minnie-locanda per cause tutte da chiarire. Bruce Dern, leggendario generale confederato, con un passato sanguinario e un futuro sanguinoso. Attorno agli otto, pochi altri personaggi a far da texture, su tutti Channing Collo Tatum e la rediviva affezionatissima Zoe Bell. Set in Colorado – negli stessi luoghi di El Grinta 1969 –, 44 milioni il budget di produzione, esiguo rispetto al centone sganciato dai Weinstein per Django Unchained e ai 75 per Inglorious Basterds, quasi ai livelli del rinnegato Grindhouse e di Kill Bill. QT ha girato su pellicola in 70 mm, formato grandioso, glorioso, giubilato da 20 anni. Un ripercorrere filologicamente alcuni passi del suo sentiero di mattoni gialli, anche in questo così sembra. Eppure, rimarchiamo come per la prima volta si sia mostrato incline al nuovo non già riprodotto, commissionando al fischiettante Morricone pezzi di nuovo conio, strano questo, come strana pare l’assenza nella soundtrack di pezzi o tracce o eco da Riz Ortolani. Assenza dissonante, come dissonante, anzi assordante, anzi contundente appare il doppiaggio dei dialoghi in italiano, già dal trailer: ma si sa, l’Italia in immagini o voce è tutta un b-movie. #stayitalian, #stayhateful.