Tony Arzenta e il tempo
L'appuntamento: una frase, un gesto, una canzone
Se la vita, come il mondo, si misura a triangolazioni, anche quella di Tony Arzenta è compresa tra tre punti. Una musica, una frase e un gesto. L’appuntamento che fa da colonna sonora al film di Duccio Tessari, parla di un incontro fallito, di qualcosa, un amore, che non esiste più. La frase, che Alain Delon, cioè Tony Arzenta, pronuncia a lettere di marmo, parlando al suo boss, Richard Conte, dice: «Chi fa un mestiere come il mio, ha sempre un proiettile che gli viaggia contro». Perché Arzenta è un killer. E il gesto è quello di Tony, appena prima dei titoli di testa, quando un pomeriggio di febbraio, alla festa di compleanno di suo figlio Carlo, nove anni, gli tocca uscire di casa per portarsi, da Milano a Torino, a colare il piombo in bocca a tizio dell’organizzazione, Gesmundo, che ha sgarrato. L’uomo guarda l’orologio, marca Baume & Mercier, e capisce che deve andare. Tony Arzenta e il tempo, il tempo che corre… e non basta. Nicoletta Macchiavelli, la moglie, gli tocca gentilmente una spalla, prima che lui esca: «Ma devi proprio…?». Deve proprio, sì: non ha scelta. O meglio, una scelta l’ha già fatta, e questa volta sarà l’ultima in cui ammazza a contratto. Il triangolo che dà il senso della vita (e della morte) di Arzenta è, mutato quello che c’è da mutare – non molto, in verità – equivalente al cerchio rosso della citazione spuria dal Buddha, messa da Melville in esergo a I senza nome (Le cercle rouge, appunto, in originale): «Buddha prese un pezzo di gesso rosso, tracciò un cerchio e disse: Se è scritto che due uomini, anche se non si conoscono, debbono un giorno incontrarsi, può accadere loro qualsiasi cosa e possono seguire strade diverse, ma al giorno stabilito, ineluttabilmente, essi si ritroveranno in questo “Cerchio rosso”». Un tracciato del destino da cui non si evade. Ma se ci mettiamo per le citazioni apocrife melvilliane, quella sulla solitudine del samurai che non avrebbe paragoni se non con la condizione della tigre nella giungla, calzerebbe a Delon/Arzenta come calzava a Delon/Frank. Sempre Alain Delon. E anche nei Senza nome, era Delon.
Dunque: il significato di una musica, quello di una parola e quello di un gesto. Arzenta, esecutore oltre la legge, un giorno decide di appendere la pistola al chiodo, perché il cacciatore è stanco di tirare ai piccioni – altra frase dal film, che ha dialoghi memorabili, alla di Leo. Richard Conte, con la sua faccia da furetto, e che anche nel film si chiama Nick come si faceva chiamare nella vita, gli domanda che si metterà a fare. Conte è uno dei quattro capi al servizio dei quali Tony lavora. «Che hai, t’è presa paura?». E Delon gli butta addosso la frase sulla pallottola che è nell’aria per chi vive come vive lui, per chi ha finora vissuto come lui. «Chi fa un mestiere come il mio, ha sempre un proiettile che gli viaggia contro». Non glien’è mai importato nulla. Ma adesso c’è Carlo, suo figlio… «Su decisione presa, non si torna induetro». Arzenta in quel preciso istante sa, oscuramente ma indefettibilmente, di essere uscito da qualcosa che non è soltanto “il giro”, il “milieu”. Lo sceneggiatore Roberto Gandus diceva che questo è il vecchio canovaccio trito e ritrito dell’uomo che vuole chiamarsi fuori dalla malavita ma glielo impediscono. Qui però non così. Può darsi lo fosse a livello di scrittura, nel copione che in origine era stata pensato perché fosse un western. Ma non avevano fatto i conti con Delon. Arzenta riafferma, a Nick: «Su decisione presa non si torna indietro». E da lì il tempo, sul suo Baume & Mercier, ha cominciato a scorrere in vista di un nuovo appuntamento. L’Appuntamento. Nella versione francese curata da Delon stesso, c’è il countdown sulle immagini, il conto alla rovescia verso quello che non può che essere l’ultimo Appuntamento. Alain omaggiava Melville (e se stesso), Le samourai. Ma se ne era ricordato in quel giro di stagioni Fernando di Leo, che aveva messo il conto alla rovescia verso il Caos anche a Gastone Moschin, in Milano calibro 9.
Le sequenze che veramente contano, in Tony Arzenta, non sono quelle di azione, che pure rimangono tra le meglio realizzate nella storia del cinema noir. Senza esagerazioni. L’agguato davanti al cimitero di Musocco o quello nella parte girata a Coopenaghen fanno scomparire qualunque cosa vista nei poliziottari del periodo. No. È il Delon meditativo e scuro che gira per la casa vuota dopo il funerale, risentendo al magnetofono la voce del figlio che non c’è più e sfogliando le novella del Verga che leggeva sua moglie, che anche lei non c’è più, divampata nel tritolo con cui i padrini gli hanno imbottito la macchina, pensando che… E invece. Oppure quello che guida per le vie di Milano diretto al suo bersaglio, sui titoli di testa (inquadrature dal basso, a sinistra dell’abitacolo). Sono le scene dove Arzenta è solo. Perché Arzenta è solo, anche prima di perdere moglie e figlio. È come quella tigre melvilliana nella giungla. Arzenta è Delon e non potrebbe che essere Delon per essere, il film, quel capolavoro che è. Perché Delon è, lo è sempre stato, un uomo solo. Uno di quelli che veleggiano attraverso l’Oceano della vita in solitaria. Il noir è il genere della solitudine, dell’isolamento di un personaggio affrontato a un destino contro il quale sa che è destinato a perdere e nondimeno lotta, pur nella certezza del fallimento. L’antico presupposto della tragedia greca. Sono partite grosse. Altro che poliziotteschi.