Daniela Poggi

Con amore e con passione
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Daniela, lei è in questi giorni nelle sale con Dark Matter, di Stefano Odoardi e ho sentito che a breve ci sarà un altro film di imminente distribuzione…

Sì, si tratta di L’anima in pace di Ciro Formisano, che credo che uscirà in autunno. Abbiamo fatto una proiezione per il cast e la troupe, poi farà il percorso dei festival e quindi verrà distribuito, come le dicevo, in autunno. Certo, fermo restando che esiste il solito problema del cinema indipendente che fatica ad avere distribuzione, a trovare le sale, perché le Majors e i “potenti” se ne appropriano. Però, esiste sempre il cinema delle province, che, almeno qui a Roma, riesce a fare una programmazione straordinaria. Venendo a Dark Matter, io sono molto contenta di avere lavorato con Stefano Odoardi, perché è un regista particolare: lo ritengo un maestro e un autore, nel senso vero del termine. Cioè, a mio parere, l’autore è libero da assoggettamenti al sistema. Scrive quello che desidera scrivere, lo realizza come piace a lui e non vuole fare l’occhiolino al pubblico… o più che al pubblico, al mercato, cercando il compromesso tra quello che egli intende esprimere e la direzione in cui, appunto, il mercato procede. Trovo che Odoardi sia un autore puro, estremamente onesto e che in Dark Matter abbia scelto di trattare una tematica molto particolare. Che è sì la Materia oscura, a livello fisico-scientifico, dell’universo, ma anche la Materia Oscura della mente umana. Questa è la cosa che mi ha affascinato: chi siamo noi? Che cosa rappresentiamo? Fino a dove possiamo andare a perderci? Il film può piacere o non piacere, ma è realizzato con uno stile molto nord-europeo, essenziale, svuotato da orpelli o da dialoghi melensi o artefatti. Dark Matter ha dei dialoghi che sono asciuttissimi e delle scene, quelle con Angélique Cavallari e il piccolo Giulio Cecchettini, che sono estreme, sintetiche, eppure possiedono ed esprimono una potenza incredibile. Certo, lo devi guardare con un occhio attento… non so come dire… Spesso e volentieri,  soprattutto noi che facciamo questo lavoro, noi addetti, ci poniamo di fronte a un film con un occhio già colmo di pregiudizi prima ancora di vederlo: non ci si rilassa mai, non ci lasciamo prendere. Mentre a me piace proprio questo: essere coinvolta e presa dal film. E quindi sono rimasta molto piacevolmente sorpresa che Odoardi sia riuscito a dare alle immagini di Dark Matter la stessa potenza che aveva la sua scrittura.

Un film che ha tradotto con fedeltà lo spirito del copione, dunque…

Esatto. C’è questa – ripeto – essenzialità, ci sono questi campi larghi, questi vuoti, questi bianchi, questa sovraesposizione della fotografia, questi silenzi. C’è una casa svuotata di anima, che è la casa del padre e della madre di Giulio, la visione del mare… che sintetizza perfettamente il vuoto interiore. E sono rimasta affascinata dalla scrittura di Monica, la donna che interpreto, alla quale ho anche contribuito, proponendo a Stefano qualche piccola aggiunta, per poter far entrare un po’ meglio il personaggio nel “chi è” Monica, chi era e che cosa ha rappresentato Monica, che in poche, pochissime scene, regala, invece, un’interiorità molto forte, una capacità di essere nella sua integrità, nella sua riservatezza, nel suo silenzio, una donna piena d’amore. Ed è colei che rivela al protagonista: “Guarda che tuo padre ti amava follemente, sei tu che non l’hai capito”.

Il tema del pregiudizio degli addetti al lavori, è interessante. Quindi, il problema non è solo quello dell’occhio di un pubblico che ormai è abituato a un cinema “facile”, superficiale, molto facilmente fruibile…

In Italia… (ride)

Però, da questo punto di vista, il proliferare delle piattaforme e quindi anche di un certo tipo di offerta, hanno agevolato un decadimento diffuso rispetto a quello spessore cui lei faceva riferimento prima…

Beh, certo, perché i film da piattaforma tu te li vedi mentre stai mangiando la pizza a casa, stai fumando la sigaretta, ti alzi per andare in bagno e metti in pausa, senti i ragazzini che urlano, il telefono che squilla, chatti sul cellulare e magari ti addormenti sul divano. Ma questo non significa essere spettatori, questa è una visione frammentata, caotica.

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Daniela Poggi ha una filmografia di oltre ottanta film, cominciata negli anni Settanta. Come è cambiato, visto dall’interno, il sistema cinema nel corso di questi decenni? Che tipo di cambiamento ha avverto, al di là di quello basilare per cui la pellicola è stata sostituita dal magnetico e dal digitale?

Intanto: ben venga il digitale, per l’amor di Dio, però l’uso della pellicola dava anche una preziosità del tempo. Più tempo tu spendevi nel girare, più pellicola utilizzavi e più il costo aumentava. Quindi, c’era una stra-preparazione prima di andare sul set. E c’era una condivisione maggiore tra il tuo personaggio e il rapporto con il regista. Oggi, con il digitale che ti permette di girare a iosa tutto quello che vuoi, il costo è zero. Certo, ti costa poi in post-produzione il montaggio eccetera eccetera. Poi, il direttore della fotografia ha un rapporto, oggi, con noi attori, completamente diverso. Io mi ricordo, allora, i famosi dink dink, che venivano posizionati perché si illuminassero gli occhi in un certo modo, c’erano una cura e un’attenzione nettamente superiori. Un film lo giravi in otto, dodici settimane, mentre oggi in quattro settimane tu giri un film, anche in meno, a volte. Si è tutto velocizzato.

Mi pare di capire che la frenesia abbia investito anche i rapporti umani e professionali sul set…

Certo! Anche l’organizzatore, aveva un rispetto diverso e sui set si creava una famiglia meravigliosa. In quel momento, si faceva quel film e quel film era il film più importante della vita. Con i tempi giusti. Oggi, la società non riesce a dare più il giusto valore, al tempo, perché tutto è stato troppo accelerato. La misura del tempo è identica, ma all’interno di quello stesso tempo, oggi fai miliardi di girato, addirittura esagerato, secondo me. L’attore ha bisogno di provare, di integrarsi con i colleghi. Allora, si creava una situazione in cui avevi, prima il lavoro a tavolino, quando ci si incontrava e si studiava la sceneggiatura, poi ci si ritrovava sul set, si facevano le prove trucco-parrucco, conoscevi gli altri attori, c’era uno scambio, si intonavano le voci… Oggi, spesso e volentieri, tu vai su un set dove non sembra esserci tempo per nulla… parlo soprattutto del cinema indipendente, del quale io, ultimamente, ho fatto più parte, perché non sono entrata in un mega cast di Bellocchio o di Sorrentino o di Matteo Rovere, ecco… probabile che loro abbiano la tradizione di un tempo più lungo, non lo so… però, tutti mi dicono che per noi attori il problema è ovunque lo stesso, ovvero che devi avere una velocità nell’apprendimento mnemonico e soprattutto nell’essere dentro al personaggio. Mentre un personaggio, tu lo costruisci anche cammin facendo, ossia, non è detto che tu lo abbia in mano dal primo ciak. Questo per tornare al discorso che facevo prima, quando sul set si creava una famiglia, c’era un momento in cui tutto si fermava… questo, almeno, è come io l’ho vissuto… e tu entravi nel film che stavi girando, quindi con nuovi compagni, nuovi fratelli e sorelle. Oggi, non è più così. Perché oggi tutto costa molto di più, perché le diarie non esistono, tutto è stato ridimensionato e poi c’è una assoluta mancanza di rispetto nei confronti di noi attori. Assoluta. Come se noi non servissimo a niente. Senza di noi, il film non può uscire, però, contemporaneamente, non abbiamo garanzie, non abbiamo diritti, non siamo riconosciuti, non c’è rispetto. Soltanto il number one, il protagonista, o il co-protagonista sono considerati. Tutto il resto, i comprimari ma anche le comparse, i generici vengono trattati malamente…

Tuttavia, è indiscutibile che vi sia stata anche una cospicua decadenza, per quanto riguarda la professionalità dell’attore. Le faccio l’esempio banalissimo delle fiction tv, specie delle reti ammiraglie, in cui ci si rende conto che molti degli attori che agiscono in esse, sono quantomeno improvvisati. Il problema qual è? Che non c’è un regista che li segue e li dirige o si tratta di un difetto, per così dire, nel manico? Nel senso che c’è una eccessiva facilità nell’ingaggiare persone, definendoli attori, che non hanno i requisiti minimi?

Esatto, ma certo che è così. Lei parla ora della fiction… la politica si è talmente impossessata di tutti i ruoli interni Rai e quindi viene messa bocca anche nei casting. Che ci sia un degrado culturale nel nostro Paese, anche in senso più lato, mi sembra evidente, da più di trent’anni. Che la meritocrazia non esista, mi sembra anche questo evidente. Che per lavorare tu debba avere un padrino o una madrina, lo sanno tutti ormai da anni. Quando io ho cominciato a lavorare, non era assolutamente così. Spesso e volentieri, io dico che, forse, era perché c’era il pentapartito (ride), il mitico pentapartito… e quindi ognuno prendeva quello che secondo lui rappresentava politicamente quel canale…

Quindi, spinte di questo tipo c’erano anche allora?

Ma certo, perché la Rai, comunque, è sempre stata oggetto politico. La Rai non è mai stata un’azienda scevra da pressioni, solo che probabilmente, all’epoca, forse io ero un po’ più ingenua e, secondo, c’era molto più lavoro per tutti, c’erano molti più soldi che giravano, e poi, ripeto, politicamente, esistevano cinque partiti che gestivano tutto il sistema. La DC gestiva il primo canale, il PCI gestiva il terzo canale e il PSI il secondo.

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Mentre nel cinema non mi pare che esistesse una lottizzazione simile…

No, io nel cinema non ricordo che vi fossero pressioni del genere, allora… La pressione nel cinema, oggi, ci può essere per avere i finanziamenti, questo sì. Anche lì c’è tutto un giro: riesci a fare cinema se hai le carte giuste da giocare, che sono, come sempre, gli appoggi politici. Ma il nostro è un Paese fatto così. Quando dicono che siamo un Paese mafioso… beh, noi la mafia  l’abbiamo nel DNA. Il nostro è un Paese che si è perso nei meandri della politica, degli affari, a discapito del bene comune, della cultura e del merito. Adesso, per l’amor di Dio, tu non puoi paragonare un attore che ha 40 o 50 anni di esperienza, a chi fa spettacolo solo perché è magari apparso venti volte in televisione e a chi fa quelle fiction alle quali lei alludeva prima.

Certo, gli “attori” arruolati dal Grande Fratello o da idiozie analoghe. Glissons… Daniela, quando è stata la prima volta in cui lei ha messo piede su un set…

Guardi, sono un po’ confusa (ride). Perché, da una parte mi ricordo Tre sotto il lenzuolo… il nome del regista non mi viene… ma era con Walter Chiari. Quindi, penso questo fu uno dei primi. Poi, ricordo di avere fatto un provino per Oh Serafina! di Lattuada, però non ero stata scelta e il film lo fece Dalila Di Lazzaro. Mi sembra poi di avere fatto qualcosa a Cinecittà

Beh, fece Belli e brutti ridono tutti, che era un altro film a episodi della PAC, e anche qui c’era Walter Chiari, con la regia di Domenico Paolella. Lì interpretava l’amante di Cochi Ponzoni, che era alla disperata ricerca di un bagno dopo aver mangiato un micidiale yogurt…

Sì, Paolella lo ricordo. Quello a Cinecittà, invece, poteva essere Telefoni bianchi, qualcosa del genere…

Dunque, lei esordì con Walter?

Sì, con Walter ho lavorato spesso. Quello che mi ricordo molto bene è il lavoro con lui in teatro, quando facemmo Hai mai provato nell’acqua calda? Però, lì era già il 1978. Nel 1977 avevo fatto l’incursione sanremese con i Matia Bazar, ballando come Bazarettes… Però, prima, dato che io ero iscritta come modella in una agenzia, la Caremoli, avevo fatto in cinema già alcune cose.  Forse, ora focalizzo, il primissimissimo film era stato Son tornate a fiorire le rose, di Vittorio Sindoni…

E infatti anche lì c’era Walter Chiari…

Io sono iscritta al collocamento dal 1976, il periodo in cui iniziai era quello…

Le piacevano quelle commedie, tipo Tre sotto il lenzuolo e gli altri che abbiamo citati? Sono film a sketches molto divertenti e molto ben fatti…

Sì ed era un cinema per nulla volgare…

Erano film dove anche faceva capolino il nudo…

Diciamo che il mio corpo è stato abbastanza utilizzato, nella commedia brillante italiana … si poteva vedere il fondoschiena, il seno eccetera, però non c’è mai stata una morbosità o un voyeurismo o una volgarità, sia nel linguaggio sia nell’utilizzo magari di quella parte fisica scoperta, ecco. C’era un ricerca maggiore nel nudo, allora. Personalmente, avrei avuto grossi problemi ad affrontare un film con Tinto Brass, per esempio, anche se non mi è mai stato proposto. Per come sono fatta io, l’erotismo era quello che veniva rappresentato in film come Belle de jour, un erotismo cioè elegante, affascinante, più creativo, più immaginifico o immaginario.

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Deve gettare dalla torre o cinema o televisione: lei ha lavorato moltissimo sia nell’uno sia nell’altra…

(ride) Butterei la televisione…

Per la tv fece comunque cose molto interessanti, come quel Sound di Biagio Proietti, se lo ricorda?

Certo che lo ricordo… Lì a un certo punto mi ritrovavo a letto con… Peter Fonda (ride). Tra l’altro, io ho partecipato alla Lulu di Wedekind, di Mario Miassiroli, con Stefania Sandrelli che interpretava Lulù. Stiamo parlando della fine anni Settanta, più o meno. Per la tv, poi, ho un bellissimo ricordo di Solo, che ho girato nel 1989, per la regia di Sandro Bolchi, dove c’erano Ray Lovelock e Jacques Perrin, entrambi bravissimi, straordinari, e io ero la protagonista femminile. Due puntate, strepitose, e anche lì un lavoro dove il girato era pochissimo ogni giorno, perché si provava, si riprovava, con una grande attenzione e dedizione, con amore e con passione. Ecco, quello che oggi manca è proprio la passione.

Anche negli indipendenti, per tornare al discorso che facevamo in partenza?

Sa, gli indipendenti devono lottare con i mezzi e devono, poverini, fare i conti con zero soldi. E zero soldi ti impongono la velocità massima di tutto. Cioè, in una giornata devi portare a casa dieci scene, e in un film normale con un po’ di budget, ne gireresti massimo due. E quando scrivi un film che sai già sarà prodotto indipendentemente, devi limitare le tue richieste di location, di spazi, di movimento: tutto è ridimensionato, l’apparecchiatura tecnica. Poi, per l’amor di dio, se riuscissimo a fare un film come The Whale, che io ho amato pazzamente… Io sono davvero impazzita per quel film, tutto girato in un unico ambiente. Strepitoso, per il significato, la potenza interiore, il messaggio che ti lascia. Ecco, se fossimo capaci noi di girare in un modo del genere…