Francesco Foletto: fuori dai denti
Intervista con il regista e sceneggiatore di IndieVolpe (prima parte)
Ho conosciuto Francesco Foletto di rimbalzo, dopo avere conosciuto la sua partner, nella vita e nell’arte, Elisa Carrera Fumagalli, che a sua volta avevo conosciuto grazie a Shivabel Coeurnoir. Foletto e la Fumagalli hanno dato vita a una importante e pregiata realtà indipendente, IndieVolpe, delle cui produzioni ho scritto diverse volte, nel tempo, sulle pagine di Nocturno. Di recente, un paio di mesi fa, ho incontrato Foletto e la Fumagalli nella cornice della piazza Gae Aulenti di Milano. Avremmo dovuto apparentemente parlare di altro, ma in realtà, grazie a Elisa, abbiamo messo Foletto di fronte al fatto compiuto che lo volessi intervistare. Tecnicamente, gli abbiamo teso una trappola. Lo scopo era conoscere tutta la storia dietro a IndieVolpe. E Francesco Foletto ha accettato di ripercorrerla da alla a alla zeta. Fuori dai denti…
Mi racconti la tua/vostra avventura? Intanto, come ti presenteresti?
Come un Film-maker…
Dall’età di…?
Diciamo che più regista e non solo sceneggiatore, da quattro anni. Come sceneggiatore ho iniziato sei anni fa, quando è stata creata IndieVolpe, sostanzialmente.
Spiegami un po’ cos’è IndieVolpe…
Devo partire da lontano, per raccontarla. Io facevo giurisprudenza a Milano. C’è stato un momento in cui ero al terzo anno e sono mancate le mie nonne a distanza di sei mesi l’una dall’altra. La cosa mi ha destabilizzato, ho cominciato a fare dei ragionamenti e a chiedermi se fosse esattamente quello che avrei voluto fare: stava già scemando, la mia “passione” per il diritto che, in realtà, non è mai esistita. Ero molto appassionato di fumetti e di cinema. Ho lavorato in una fumetteria nei momenti liberi, ma sono sempre stato un criticone, quindi dicevo: «Va beh, ma questo cos’ha scritto…?!» eccetera… e allora mi è stato detto «Scrivilo tu!». così ci ho provato. Sono andato in Giappone, il viaggio mi aveva caricato. Di solito scrivo, dopo un viaggio, e quindi ho provato a scrivere questo noir per i fumetti. Ho trovato una disegnatrice che mi avrebbe fatto da supporto per presentarlo a una casa editrice e, sostanzialmente, mi è andata malissimo, perché questa non ha mai finito il lavoro, nemmeno le tavole di presentazione. Per presentarlo a una casa editrice servono una decina di tavole, più i vari character designer. Era il 2014, però, nel frattempo, ne scrivo già un altro, sempre per i fumetti, perché il mio sogno era quello di fare lo sceneggiatore di fumetti. Trovo un altro disegnatore, che, a questo punto, è molto più presente e riusciamo a portare a termine la presentazione, ma il mondo dei fumetti è peggio di quello cinematografico, perché è ingolfato. Lo presentiamo ad alcune case editrici e ci risponde solamente una che ci dice che non trattano quel tipo di genere perché era un horror fantascientifico lovecraftiano, però la scrittura la reputavano buona e i disegni avevano bisogno di qualche modifica, quindi si offrirono di darci qualche suggerimento. Il disegnatore, però, prese male la critica e quindi il progetto è naufragato velocemente.
Ma come si scrivono le sceneggiature dei fumetti?
Come le sceneggiature italiane dei film. La descrizione ti rimane da una parte del panel e dall’altra tieni le battute.
E quanto è lunga, una sceneggiatura di un fumetto?
Variabilissima, da trenta pagine del seriale alle graphic novel da 128 tavole. C’è come nel cinema una grammatica da rispettare.
Quindi parti con i fumetti. E poi che succede?
Succede che Elisa…
Elisa Carrera Fumagalli, la tua donna…
Sì… Elisa finisce l’Accademia, io ormai stavo già facendo questa cosa e lei era partita fortissima, perché l’avevano presa due volte al Franco Parenti, però nello stesso momento voleva creare un progetto suo insieme ai suoi ex compagni e quindi mi dice: «Dai… ma prova a scrivere una sceneggiatura». E ne scrivo una per il teatro. Era un po’ sperimentale e su commissione dei miei compagni. Era basato sull’Elettra. Doveva essere corta, un cerchio che quando si chiudeva ricominciava. Ad oggi, una cagata bestiale. Ma ero libero di scrivere questa sceneggiatura, solo con il vincolo di ispirarmi all’Elettra e di adattarlo alla compagnia. Io compio, però, il mio solito errore di sopravvalutazione iniziale, quello di pensare che le persone siano generalmente intelligenti e invece non è mai così. Quindi cosa succede? Che faccio quello che tutt’ora faccio, ovvero scrivo principalmente personaggi femminili, perché mi annoiano gli uomini, sono di solito più monodimensionali rispetto alle donne. E quindi succede che ci sono due uomini all’interno di questo cast. Uno era il regista e io – ho pensato – gli do una parte minore, dato che era anche il suo esordio alla regia, così può gestire meglio il tutto, ma chiaramente questa cosa non è andata giù. Viene fatta, quindi, una riunione chiedendo che io non ci fossi e tentando di farmi fuori. La cosa non va giù a due o tre ragazze del gruppo, tra cui Elisa, che aveva la parte da protagonista. E quindi succede che si mandano a fanculo tutti e che la compagnia esplode ancora prima di cominciare.
Quindi non avete poi fatto lo spettacolo.
No, no, non si è mai fatto. A questo punto, Elisa aveva appena finito di girare un film e allora mi metto in contatto con i due registi per cui aveva lavorato e insieme giriamo un corto, Catene familiari, che non si trova da nessuna parte. È un piccolo corto con quattro personaggi ispirato sempre all’Elettra, aggiornata ai tempi nostri. Giriamo questo corto, da doppiare, perché non avevamo il fonico, perché questi dicevano «No, no ma doppiamo che è meglio».
Ma chi lo produceva?
Io, da zero, autoprodotto. Avevamo speso pochissimo. Questo corto qua va in post produzione. Non lo monto io, perché non ero capace…
Ma come hai fatto a dirigere? Ti sei inventato regista all’epoca?
No, io ho detto al direttore della fotografia che faceva anche il regista: «Guarda, ho scritto questa sceneggiatura, diamoci una mano a vicenda. Tu non conosci la storia, io ormai sono quattro mesi che ci lavoro, così ci aiutiamo». Chiudiamo questo corto. Con loro, poi, c’eravamo trovati bene eccetera, e lo deve montare sempre questo ragazzo. Ci mettiamo tre mesi per farlo, ma io, nel frattempo, stavo scrivendo un lungo che avrebbe “profetizzato” Onlyfans quando ancora non esisteva, con tutte queste modelle alternative che poi facevano anche altro. Lo scrivo e questi qua ci convincono a girarlo. Intanto facciamo i casting, la sceneggiatura nel frattempo l’avevo conclusa e ci organizziamo per girare il lungo quell’estate del 2016.
Titolo?
Silent girl. Cominciamo a girare. La regia non la facevo io, la faceva Elisa, perché era un film tutto di donne e secondo me non c’era nessuno che potesse farlo se non una donna. Ragionamento cazzata. Comunque, cominciamo a girarlo. Nel frattempo, c’erano stati mille problemi con il cast, perché due si erano innamorati tra loro, prime scappatelle: io mi ero incazzato perché non avevano studiato la sceneggiatura e la tizia aveva pensato che io mi fossi incazzato perché volevo farmela. Invece era perché non aveva studiato la sceneggiatura. Cose così. Comunque, iniziamo a girarlo, ma noi eravamo sotto organico, a livello di produzione. Non c’era l’attrezzatura per girare un lungo e nemmeno la tecnica per farlo. Queste persone, non erano in grado di fare un lungo. In più, non essendo pagati, perché c’erano solo rimborsi spese, piano piano, sia per colpa nostra che per colpa del cast che si metteva di traverso e cominciava a non esserci, si cominciano ad incrinare i rapporti, fino al giorno in cui sbottano tutti, da tutti i lati. Decidiamo di fare una riunione e di incontrarci a fine estate. Eravamo in ritardo del 50% delle scene. Io, intanto, durante quell’estate sono riuscito a fare tutto un cerchio di quello che era successo: perché io, essendo dentro le cose, non riuscivo a capire le dinamiche che stavano esplodendo.
Di cosa parlava questo film?
Di modelle alternative. Un amore saffico tra due sorelle. Io arrivo a Settembre e dico che il progetto salta. Doveva essere un film erotico thriller. Dico basta, perché tanto stava andando verso l’edulcorazione. Dovevano esserci, per esempio, scene di nudo e il giorno stesso delle riprese, le attrici si tiravano indietro.
IndieVolpe in quel momento già esisteva?
Sì, viene creata come produzione per il corto Catene familiari. Comunque, il progetto si interrompe. Fino a quel momento io non avevo conoscenze nel mondo audiovideo, quindi diciamo che al progetto partecipavo come maestranza, sceneggiatore e produttore, ma ero un 30%. Il 70% delle conoscenze le portava Elisa. In quel momento, le dico che con quella gestione non stava funzionando, proviamo a rifondare IndieVolpe. Così, nel 2017 IndieVolpe viene rifondata e così le quote decisionali vengono spostate più su di me che su di lei, perché lei tentava, all’epoca, di vedere il buono nelle persone. Io invece all’epoca ero molto più stronzo di adesso e quindi ho detto «Andiamo come i treni e sfruttiamoli come hanno fatto loro con noi». E nel 2017 io scrivo e non dirigo, ma produco, l’ultimo corto senza la mia regia: Oph, Ophelia, altro progetto che non si trova.
Ma, quindi, a quel punto i progetti realizzati sono due?
No, nessuno. Perché Catene familiari non era terminato, mancava il doppiaggio. Comunque, giriamo questa sceneggiatura basata sull’Ophelia, sull’immigrazione come tema principale: era un progetto sociale un po’ su commissione, un po’ no. Lo giriamo, ma il direttore della fotografia ci pacca all’ultimo. Ne chiamiamo un altro, ma va male lo stesso, perché la mia sceneggiatura viene ritoccata e quindi perde il succo del lungo. Nel 2017 si chiude il primo progetto di Indievolpe, Oph, che viene chiuso a Giugno. Durata 10 minuti. A questo punto dico ad Elisa che non ci siamo, c’è qualcosa che ancora non funziona. Il prossimo ci provo io, compriamoci l’attrezzatura e facciamo da noi. Nel frattempo lei ed io avevamo conosciuto Domiziano Cristofaro che ci dà il progetto per girare all’interno del DeepWeb un frammento. Qui giriamo a Febbraio Eucarist, che è il primo mio corto da regista. Da lì ho detto “il prossimo lo provo a girare io”. Scrivo un corto sociale, ancora convinto che fosse più facile, e però voglio il fonico per farlo in presa diretta. Elisa conosce, per vari contatti, Roberto Marelli, ma lui è uno che già lavora e i cortometraggi lo sappiamo che non li fa più. Però abbiamo un jolly da giocare, ovvero la sua ragazza. La sua ragazza era la mia ragazza quando avevo 15 anni. Elisa scrive a lei, e lei convince Roberto a fare questo cortometraggio che si chiama Il mentalista, la storia di un neonazista che non sapeva nemmeno lui che cosa facesse. Un po’ grottesco, bruttissimo, molto più brutto di Eucarist, perché molto più costruito.
Dici che era sbagliato da un punto di vista tecnico?
Sìsì, tutto sbagliato. Arrivo alla fine della produzione, fa schifo e non vedrà mai la luce. A questo punto, mentre facciamo la post produzione di Il mentalista, conosco Mario Leclair, che è poi stato il direttore della fotografia di Lover’s Inn, di Innamorarsi e di Marmellone, quindi la vera nuova era IndieVolpe. Comincio con il progetto di animazione 3D alla fine del 2017. E nello stesso momento inizio a fare uno spot in live action da inserire all’interno del trailer del progetto di animazione, perché ancora volevamo proporre il trailer ad una casa di produzione che conosceva il disegnatore che avevamo nel team.
Ma che cos’è il live action?
È il primo frammento di Lovers Inn, perché tra il primo e il secondo frammento sono passati due mesi. A febbraio giriamo quindi il primo frammento di Lover Sin con Mario Leclair. Finiamo di girarlo ad Aprile. Intanto il progetto di animazione era fallito e allora ho deciso di chiudere il frammento da tre minuti e cerchiamo di tirarlo a 7 o 8 minuti, ci facciamo un corto e vediamo. Finisco il corto, lo chiudiamo e cominciamo a mandarlo ai festival. Un corto cyber punk, ma di cyber punk non c’è nulla se non nei temi. E infatti non ci caga nessuno. Poi piano piano da quell’esperienza io ho cominciato a capire come funzionavano i festival.
E come funzionano? Spiegami un po’
Funzionano male.
Hai fatto solo festival italiani?
No no, dappertutto. I festival che contano, li enumeri sulle dita di due mani. Il problema dei festival è che in questi è impossibile entrare, a meno che tu non abbia la corsia preferenziale e agevolata, normalmente è quella distributiva, ovvero: devi avere una distribuzione forte. Però, anche lì, le uniche distribuzioni che ti assicurano la forza di entrare in determinati festival, sono mostri sacri. Sotto, ci sono le distribuzioni medie. Ma, ad oggi, sei tu, produttore, che devi pagare per farti distribuire il film. Al cinema non ci va più nessuno o meglio non ci va più nessuno perché non c’è più una proposta che regge. Se tu fai una proposta unica, di un solo tipo, questa cosa si rifà sulle società di distribuzione, che sono quelle dei festival. Poi, ci sono anche distribuzioni che ti distribuiscono il prodotto perché ci tengono, ma non distribuiscono corti a livello festivaliero. Succede allora che tu gli mandi il film e loro come fanno a farsi belli con gli altri? Loro, gratis prendono quelli che avrebbero comunque il posto in determinati festival importanti; ad esempio, i film del Csc che alla Settimana della critica, al Festival di Venezia hanno dei posti assicurati. Tutti gli anni vai lì e ci sono cinque corti del Csc. Tu quindi sai che non ci sono tutti i posti disponibili, ma ce ne sono solo quattro. Quindi succede che si fanno belli con una vetrina di corti grossi, che magari vengono presi dalla Cineteca di Bologna, dalla Settimana della critica eccetera eccetera…
C’è una backstory che va raccontata, presto o tardi, ma che nessuno ha voglia di raccontare per non compromettere rapporti lavorativi. L’Italia, no?…
Poi l’analisi che ti fanno non c’entra un cazzo con il prezzo finale. Il prezzo è uguale per tutti. Loro ti danno la falsa speranza che lo abbiano visto, ti fanno il loro prezzo, ma non dicono nulla in più rispetto a quanto tu già non sappia. Quindi la cosa contrattuale è: 1200 euro all’anno più iva per la distribuzione oppure 900 euro più iva per 6 mesi. Chiaramente lo fanno apposta per prendere 1200 euro più iva perché per 350 euro in più non ha alcun senso non darglielo per un anno. Sto parlando chiaramente di piccole produzioni, non di produzioni grosse. Perché per le grosse produzioni tutta questa filiera ha altri tipi di accordi. Cosa succede? Che loro ti fanno questa proposta ma dentro questi soldi non c’è l’iscrizione al festival. I costi del festival te li sobbarchi tu. Quindi tu non solo non hai controllo sui festival, ma alla fine ti presentano un conto e tu lo devi pagare. Ad esempio, loro ti chiedono se ti va bene essere iscritto a tale festival perché se ti va bene, devi pagarlo, non rientra nella cifra del contratto. Questa cosa ti permette di andare a più festival rispetto a quelli a cui siamo andati noi, per esempio, con alcuni corti? Nemmeno per sogno. Io ho i casi: uno è quello di un ragazzo che aveva fatto un corto, un corto bruttissimo. L’ha mandato a questa notissima distribuzione se l’è fatto distribuire e lo sai dov’è andato quel corto? Ad un festival. Questo festival aveva come nome un acronimo. Io ero distrutto, allora, perché Lover’s Inn non veniva preso da nessuna parte all’inizio: “cazzo, vuol dire che non sono capace”, perché io mi metto sempre in discussione. Questo corto arriva al festival, io lo vedo, è proprio brutto, girato male, vado a vedere l’acronimo e si chiamava il Festival della merda: era la rassegna dei film più brutti. Non si era accorta (spero), la nota distribuzione, di aver mandato il corto a questo festival. Peggio ancora, non se n’era accorto nemmeno il regista, quando lo pubblicizzava. Non si era accorto, entrato sul sito, che quello era il festival dei peggiori corti. Peggiori.
Il Festival della merda… sembra una barzelletta…
Altro caso: l’anno scorso siamo andati a un altro festival e ho incontrato il vincitore della categoria cortometraggi: era girato abbastanza bene. Allora lo fermo, il regista. Io ero ubriaco. All’inizio lui se la mena un po’, ma lo massacro. Gli ho chiesto se l’avesse mandato lui al festival e mi dice di no. Di fianco c’era il produttore, suo fratello, tipo, e mi fa «No, no ci ha contattato una distribuzione». Allora gli dico «Ah, vi hanno contattato! Cazzo, strano! Ma quanto avete pagato?»; «Guarda, non lo so, dovresti chiedere a lui», perché, intanto, il produttore stava parlando con uno degli organizzatori del festival. Allora, quando si stacca, lo incalzo: «Ma quanto avete pagato?»; «No, ma ci hanno contattato loro»; «Ah, strano perché io so che chiedono circa 1200 euro… Dai smettila, non ci credo che ti ha scritto la distribuzione, dimmi la verità»; «Va beh sì, gli abbiamo scritto noi, ce l’hanno accettato e gli abbiamo dato quelle cifre lì». Quindi vuol dire che è sempre quella cifra. Poi gli ho chiesto se fosse l’unico festival a cui li avessero iscritti e mi ha risposto di sì. Io li seguo su instagram e ho visto che sono appena stati selezionati per un altro festival, dopo un anno. Due festival in un anno e mezzo, 1200 euro.
Beh, non male… Io ho sbagliato tutto nella vita…
Il punto è che quelle piattaforme festivaliere sono aperte a tutti. Tu puoi mandare il tuo prodotto a chi vuoi. Io poi lo so se mi guardate il corto, perché con Vimeo e con le dashboard si vede, se lo vedete fino alla fine ecc. E so che solo circa il 30% dei festival a cui l’ho mandato, ha visto il mio corto. Vuol dire che voi fate una richiesta di invii, ma il 70% non li guardate. Quindi voi fate una selezione che già conoscete ma che dovete fare per forza, ma soprattutto che vi portano entrate, perché le iscrizioni sono botte di dieci euro. Con il mercato che c’è ora, tu fai i milioni. E poi si dividono in due, festival online e non online. Solo online vuol dire che tu non esisti, non hai affitto, non hai nulla, prendi i soldi netti e basta. C’è gente che si vanta di essere selezionata a festival che non esistono di fatto. Virtuali… (1/continua)
Un ringraziamento particolare a Francesca Romito, per la collaborazione