Memorial Carlo Lizzani
Carlo Lizzani, per un cinefilo che abbia un approccio nocturniano alle cose, era, è, un personaggio complicato da abbordare, che spaventa: da una parte, la sua storia affonda profondamente le radici dentro il terreno del neorealismo – è lo sceneggiatore, pur sempre, di Riso amaro – con tutto quello che di accademico e anche di un po’ iniziatico, questo comporta. Poi, Lizzani era un uomo di sinistra, dichiaratamente di sinistra, e ho sempre avuto l’impressione – forse un po’ bambinesca – che registi di questo tipo, engagé, ossia impegnati, fossero della stessa pasta di quelle cose che si studiavano per gli esami all’Università – parlo dell’Università di trent’anni fa, quella seria. Insomma, il concetto potrebbe essere “un autore mattone”, ideologizzato, che se lo affronti ti tocca affrontare anche tutto ciò che di pachidermico e di mastodontico, come storia, anzi come Storia, si porta dietro.
Sto parlando, attenzione, del Lizzani in astratto, quello che si annusava nell’aria, dell’istituzione Lizzani. Poi, però, c’era il Lizzani, come dire?… de facto, pragmatico, che faceva i film che vedevamo, quindi non l’idea platonica ma la sua incarnazione. E i film erano grandiosi, poderosi, non avevano nulla di intellettualistico o di noioso. Lizzani non era Maselli o roba di quel tipo. Certo, per noi nocturniani, magari non Il processo di Verona ma Svegliati e uccidi!, la biografia di Lutring; non Lo svitato o L’oro di Roma, ma Banditi a Milano o Roma bene. Quindi, il secondo Lizzani più del primo: praticamente la sua opera omnia degli anni Settanta e gran parte di quella degli anni Ottanta; per alcuni fino al film sul caso Dozier del 1993 ma secondo me anche più in su, spingendosi fino al 1998, anno di un ottimo film televisivo giallo con Antonella Fattori, di cui oggi in pochi hanno memoria, purtroppo: La donna del treno.
Dal neorealismo si era portato evidentemente dietro il gusto di raccontare i fatti della vita, non quale scabra cronaca ma riuscendo a dargli dignità di racconto senza tuttavia snaturarne la forza di verità. Un equilibrio difficile da raggiungere ma che Lizzani sapeva compiere, coniugando il dato nudo e crudo, la registrazione, con l’elaborazione fantastica che lo fa diventare Cinema. Le storie nere lo attraevano e aveva una predisposizione naturale a saperle narrare: nel 1960 girò Il gobbo, sulle vicende del celebre Gobbo del Quarticciolo, interpretato da uno splendido Gérard Blain, il personaggio che, al netto di tutte le idiozie che si sono dette e scritte, fu il punto di partenza del successivo Gobbo di Tomas Milian.
Pier Paolo Pasolini faceva un ruolo, era Leandro detto er monco. E a parte nei propri film, Pasolini non accettò mai di fare l’attore per nessuno tranne che per Lizzani, qui e nel successivo western Requiescant. Il che vuole certamente dire qualcosa. Lizzani continuò lungo la medesima linea nera con due cronache criminali di prim’ordine come Svegliati e uccidi!, la biografia di Luciano Lutring, “il solista del mitra”, e Banditi a Milano, ricostruzione ad armi ancora fumanti e sangue ancora caldo delle gesta delinquenziali della banda Cavallero. A parte deprecare l’assurdità per cui film del genere non sono disponibili su nessun supporto e da considerarsi, quindi, “rari”, sia il primo sia il secondo, ma più il secondo del primo sono il manifesto del Lizzani migliore e rappresentano l’atto fondativo del dramma d’azione interfacciato con la contemporaneità in Italia. In Banditi a Milano c’è praticamente già tutto: tutte le Roma violente e a mano armata a venire. Gli altri hanno rifinito, Lizzani ha creato.
Il bello del film, al netto di Volonté e della sua strabordante caratterizzazione di Cavallero (un delinquente sanguinario con personalità istrionica), che poteva rischiare di oscurare tutto il resto, è che mantiene sugli eventi una visione distanziata e non paternalistica, non ideologica (è un regista di buon senso, da non confondere con i buonsensai) e inserisce cose che altri con la medesima estrazione politica di Lizzani avrebbero giudicato sconvenienti o corrive. Mi torna sempre in mente la telefonata in Questura della ninfomane interpretata da Carla Gravina: non ho idea se si tratti di pura finzione o se si siano documentati e una telefonata del genere fosse storica, fatto sta che è un bell’intervallino morboso, forse inutile, in stile Cronaca vera, ma Lizzani ce lo mette e ci sta bene, perché ci racconta anche questo un pezzetto della società in cui Cavallero tracciò il suo cammino di sangue. In questo scarto, anche in questo scarto, ossia nel non rifiutare a priori il “basso” sta la grandezza di Lizzani, che più avanti, nel cuore degli anni Settanta, non si vergognerà di firmare film crudi e scorretti come Storie di vita e malavita o come San Babila ore 20 un delitto inutile. I critici tipo manico-di-scopa-su-per-il-culo, non gradivano, perché trattare di prostituzione minorile con quei toni esacerbati e seminando nudi ovunque, rappresentava una deminutio capitis. Il pubblico la pensava diversamente, però, e anche Lizzani, che giunse a realizzare nel 1977 lo stranissimo Kleinhoff hotel, dove si faceva intendere che Corinne Cléry e Michele Placido, sul set e sotto l’occhio della mdp, lo avessero fatto per davvero. Anche se poi Lizzani, con una battuta, sosteneva di non averlo diretto lui, quel film, ma che lo aveva girato un collega.
Uomo alto ed elegante come quasi tutti gli uomini alti, che raramente sono intelligenti – secondo quanto recita l’antico proverbio – ma quando lo sono, sono intelligentissimi, Lizzani aveva in sé quel quid di malvagità che fa la differenza tra un buon regista e qualcosa più di un buon regista. La terza parte di un ideale trittico sulle personalità criminali, dopo Svegliati e uccidi! e Banditi a Milano, rappresentata da Barbagia (La società del malessere) è una di quelle anse segrete della filmografia lizzaniana, penalizzata, come già detto, da ampie zone di odierna invisibilità (ora però qualche anima pia ha caricato il film su Youtube). Lizzani vi ricostruiva la storia di Graziano Mesina facendolo interpetare a Terence Hill, con sprezzo del pericolo e del ridicolo e con risultati, tuttavia, non indegni; perché vi è questo da dire del regista, che non è mai stato al di sotto dei propri standard anche nei film che consideriamo minori solo perché meno noti degli altri. Penso a Roma bene, che trova parecchi giusti estimatori, nonostante la sua circolazione sia stata affidata sostanzialmente a dei circuiti carbonari di collezionisti. Un discorso sulla cattiveria di Lizzani dovrebbe passare attraverso l’analisi di questa storia, sceneggiata da Luciano Vincenzoni e Nicola Badalucco, che con gli occhi di Manfredi, un commissario di polizia, e del suo assistente Enzo Cannavale, spolpa l’alta società capitolina fatta di marchettari, mignotte, assassini e truffatori. Un’umanità sommersa che nell’allucinante parte finale viene anche fisicamente sommersa e affogata in una celebre sequenza dove tutti gli occupanti di uno yacht si gettano in acqua dimenticandosi, ahiloro, di calare anche la scaletta per tornare a bordo. Benché l’esercizio di crudeltà meglio riuscito sia quello su cui culmina Storie di vita e malavita negli ultimi, allucinanti, metri di pellicola. Non dico che cosa accade: andatevelo a vedere.
Lizzani era un grande direttore di attori e non soltanto quando si circondava di fuoriclasse come Volonté, a proposito del quale è memorabile un aneddoto legato a Mamma Ebe. Mentre il regista stava preparando il film, interpellò per un ruolo Volonté, il quale rispose che avrebbe accettato solo se gli fosse stato concesso di essere lui Mamma Ebe. Purtroppo, la cosa non andò. Ma Lizzani – e in questo era persino meglio di Damiano Damiani – riusciva a fare recitare anche i sassi.Di Terence Hill già si è detto. Anche l’altra parte della storica coppia, Bud Spencer, si trovò ad essere diretto da Lizzani in un noir non bellissimo ma dal cast bizzarro assai e sufficiente ragione per disseppellirlo e onorarlo di una visione, che comprendeva, oltre a Pedersoli, il cantante Nicola Di Bari e il Pinocchio televisivo Andrea Balestri: Torino nera del 1972. Nel suo unico film americano, che Lizzani gira di lì a un paio di anni con la produzione di De Laurentiis, Crazy Joe, riesce a rendere credibile il Fonzie di Happy Days, Henry Winkler, con un paio di baffi, in una parte nemmeno troppo semplice. La formazione neorealista lo aiutava a maneggiare materiale grezzo per cavarne il meglio, come risulta evidente guardando Storie di vita e malavita dove tutte le giovani protagoniste, eccetto un paio, sono completamente vergini al cinema. E Lizzani riesce a far fare loro cose incredibili.
Quando all’inizio degli anni Ottanta Lizzani comincia a lavorare per la Rai, nella sua filmografia si apre una fase nuova, interessante e importante, sebbene oggi chi la voglia valutare o riscoprire debba fare fatica, poiché i film restano perlopiù inaccessibili. Per un Fontamara, da Silone, che è stato pubblicato quest’anno in dvd, è pressochè impossibile procurarsi quell’Inverno di malato, da Moravia, inserito all’interno della serie Dieci registi italiani, dieci racconti italiani che la Rai produsse e trasmise nel 1983. Chi scrive lo rammenta però ancora bene, ambientato in un sanatorio e con protagonista Giovanni Guidelli. Una direttrice che da letteraria si fa storico-politica con Un’isola (1986), la biografia di Giovanni Amendola, ma sempre con l’occhio fisso ai fatti contemporanei: come nel complesso apologo sul fenomeno del terrorismo rappresentato dal dimenticatissimo Nucleo zero (1984), che nasceva dal romanzo omonimo di Luce D’Eramo scritto nelle settimane del sequestro Moro. Anche qui, il Lizzani migliore, diretto e conciso pur nella fluvialità della lunga durata televisiva e con attori che si ricordano eccellenti, soprattutto Patrick Bachau e Antonella Murgia che Lizzani si era portato appresso da Fontamara. A questo ganglio temporale, ed esattamente al 1983, risale il primo lungometraggio girato da Lizzani dopo il quadriennato di direttore della Mostra del Cinema di Venezia: un thriller, strutturato nella forma di uno psicodramma, asfissiante e tagliente, La casa del tappeto giallo, da molti considerato come l’ultimo grande esemplare italiano di questo genere, insieme a Tenebre di Argento, con tutto ciò che di assurdo comporta accoppiare due film e due filosofie di regia che più distanti sarebbe impossibile.
Lizzani fece anche altri gialli per la televisione, Assicurazione sulla morte (da James Hadley Chase) del 1987, con protagonista Patricia Millardet che era stata lanciata dalla Piovra, La trappola (1989), con Johnny Dorelli, Mario Adorf e Florinda Bolkan (per chi volesse deliziarsi con un prodotto fine anni Ottanta, è visibile su Youtube) e, con un salto temporale di dieci anni, La donna del treno (1998), dal quale era difficile non restare colpiti da una visione contemporanea, per l’ingegnoso impianto della storia (scritta da Lizzani con Romolo Guerrieri e Roberto Gianviti): una donna magistrato trascorre una notte d’amore con un ragazzo incontrato casualmente su un treno, trovandosi poi coinvolta nelle indagini relative a un omicidio di cui il suo amante occasionale potrebbe essere responsabile. E per l’ottima tenuta drammatica garantita dalla regia di Lizzani e dall’interpretazione della protagonista (anche nuda) Antonella Fattori. Non dimenticherei, però, Stato d’emergenza, la ricostruzione lizzaniana dei giorni del rapimento del generale Dozier condensata in un film televisivo del 1993, che sfrondava tutte le dietrologie e le teorie di complotti internazionali, concludendo per un tentativo esperito dalle sole BR nostrane di alzare il tiro e il livello del loro attacco.
Domandano a Lizzani, in un intervista tra le molte reperibili su Yt, di esprimere una riflessione sui suoi film “politici”. E Lizzani, che stringe tra le mani il suo libro autobiografico: Il mio lungo viaggio nel secolo breve, risponde operando un distinguo tra i suoi film in cui la politica è un elemento interno e quelli in cui essa è invece qualcosa di esterno. Citando titoli come Mussolini ultimo atto, Il processo di Verona, Il gobbo e Fontamara, Lizzani argomenta che possono essere definiti film politici in quanto si muovono all’interno di temi come il fascismo e l’antifascismo e attingono a personaggi reali. Nell’altra categoria, alla quale appartengono, per esempio, film come Cronache di poveri amanti, la politica fungerebbe come una sorta di reagente per far emergere vicende umane di personaggi immaginari. Io credo che questa distinzione non esista, sia un sofisma, e che Lizzani abbia fatto solo dei grandi film che non accettano di venire scissi in componenti più o meno precise. Mussolini ultimo atto è un film poderoso che non si riesce ad accettare possa essere ridotto nel letto di Procuste dell’aggettivo “politico”. Tantomeno con il significato rozzo e degradato con cui il termine potrebbe venire speso oggi sulle pagine di un qualsiasi Giornale di un Feltri qualsiasi.
Al viatico dei lavori fin qui citati (e con la precisazione che il Lizzani cineasta e documentarista storico di prim’ordine, non lo abbiamo colpevolmente ricordato e lo facciamo così en passant), necessari per farsi un’idea di cosa sia stato il cinema di Lizzani, piacerebbe aggiungere anche un’opera collettiva: si tratta dell’Addio a Enrico Berlinguer, girato in occasione dei funerali del segretario del Partito Comunista il 13 giugno del 1984. Quaranta cineasti, tra i quali Lizzani, ripresero tutte le fasi di qualcosa che restituito dagli schermi così come dovette essere anche nella realtà, possedeva l’aspetto di un evento monumentale ed epocale. Un filmato apocalittico, che ha a che vedere con la fine dei tempi, con una morte che non è dramma singolo ma catarsi collettiva. Trovate questo reperto.Può insegnare molto.Anche su Lizzani.