Laura Mogliamante

Alla riscoperta del film di Marco Vicario che anni fa avevamo trattato in modo troppo inclemente.Oggi ne raccontiamo la storia completa. Apprezzandolo molto di più...
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Nel secondo volume dei Misteri d’Italia (Dossier nr. 58, marzo 2007, 4 euro come arretrato) una scheda compilata da chi scrive aveva fatto giustizia sommaria di Mogliamante e lo aveva sepolto in terra sconsacrata. Perentoriamente, definitivamente. Affrettatamente, aggiungo oggi a distanza di sette anni. E ci metto sopra anche uno stupidamente, se è il caso. È il caso? Forse un po’ sì. L’attenuante generica era legata alle attese da voyeur – parlo sempre di me – a fronte delle fotografie di scena più universalizzate del film, in cui Laura Antonelli, Willy Berger e Annie Belle (o in una variante Olga Karlatos) stavano insieme in un lettone.

Marco Vicario, il regista, non sembrava tipo da circonlocuzioni, per cui se c’era quel profumo nelle immagini di scena, uno si aspettava di trovarci poi l’arrosto, dentro nel film, cioè la carne. Invece, una volta che si riuscì a vederlo, Mogliamante, in una videocassetta greca in italiano con sottotitoli, si scoprì che era un film piuttosto bromurizzato, salvo che in un paio di occasioni in cui Annie Belle, capello corto non ossigenato stavolta, faceva vedere quella che il regista Renato Savino era solito chiamare la “besuina”. Anch’essa non ossigenata. La Antonelli, invece, accollatissima; e ostentava un comportamento talmente casto da sembrare persino programmatico, salvo in una scena in cui si tocca ma non si vede nulla.

Passa il tempo e dopo anni ci si ritorna su. Con la scorta di quanto si è letto e che non si sarebbe mai sospettato potesse annidarsi dietro, oltre, prima e dopo il film. Alludo ai racconti di Rodolfo Sonego, il dimidiatus Sordi ossia la metà e forse qualcosa di più del grande Albertone, che aveva scritto la sceneggiatura di Mogliamante e che la considerava, con il conforto di un certo numero di eletti amici, la migliore che mai avesse fatto. Allora, viene da ripensarci. E l’uscita di un dvd italiano nella storia recente, incentivava a riguardare il film, a dargli un’altra occasione, indipendentemente dagli etti di besuina che ci si vorrebbero trovare e continuano a non esserci.

Prima però i fatti: Mogliamante tratta di un vinaio socialista (Mastroianni con folta barba) che – mi cito – “di fronte al rischio di vedersi accollare un omicidio politico che non ha commesso, si dà per morto, nascondendosi in un granaio che affaccia sulla sua abitazione. Di qui ha modo di spiare la rapida marcia verso l’indipendenza e l’emancipazione (sessuale e in senso lato) della moglie (Antonelli), infelice e malata di nervi finché permaneva sotto il giogo maritale, ma ora padrona di sé e consapevole, a misura che, pian piano, le si disvelano tutte le abituali pratiche di libertinaggio cui il coniuge si dedicava. Il salmo comunque finisce in gloria, perché la Antonelli, sgamato che Mastroianni è vivo e la tiene sott’occhio dalla finestra di fronte, dopo avergli dato le bastonate fedifraghe che si merita, gli riapre l’uscio di casa e torna ad accoglierlo tra le coltri. Secondo nuovi presupposti e mutate regole sentimentali, s’intende”.

ALTRI TEMPI, ALTRE ATMOSFERE

In mezzo alle foto di scena del film, dall’archivio Cinemabis è emerso un foglio dattiloscritto, con alcune noterelle introduttive a Mogliamante. Una velina della produzione a beneficio della stampa: “Marco Vicario sta per terminare il suo ottavo film Mogliamante e lui stesso dichiara che sarà un’opera che segnerà una svolta decisiva nel suo curriculum di regista; abbandona la commedia, abbandona il grottesco a cui la sua vena era stata finora così intimamente legata e che gli ha dato tanti lusinghieri successi. «I tempi sono cambiati – dichiara il regista – il pubblico è profondamente diverso e io, che credo di essere legato al mio tempo, sono cambiato con loro e adesso mi interessano altri tempi, altri atmosfere».

La commedia e il grottesco sono la sintesi degli ultimi film che Vicario aveva diretto: Il prete sposato, Homo eroticus, Paolo il caldo e L’erotomane, che risaliva a tre, quasi quattro anni prima. Mogliamante esce nella seconda metà del 1977. “Questo film – prosegue la nota – è dedicato a una donna. È infatti una storia d’amore incantata, dolorosa, anche drammatica ed è insieme l’evoluzione di un personaggio femminile. Una donna che si accorge con sofferenza che il suo rapporto matrimoniale sta logorandosi e diventando sempre più scolorito, sempre meno vivace, assecondata in questo dal suo atteggiamento tradizionalmente sottomesso, passivo, ciecamente conservatore, una posizione di vittima rassegnata che è stata, fino a poco tempo fa, accettata e sofferta dalla maggior parte delle donne del mondo”. Un film quasi femminista, insomma.Negli anni Settanta, parlando di cinema, c’era sempre la tendenza a universalizzare, a massimizzare i sistemi.

Vicario femminista? Dal Pelo nel mondo a qui sarebbe un gran passo. “Bisogna anche tenere conto del fatto che la storia è ambientata in un paesino del Veneto (Cison di Valmarino, provincia di Treviso, ndr) al principio del secolo, ed è questo che rende anche più stupefacente il mutamento che il tentativo di salvare la sua storia d’amore opera sulla psiche della donna, che supera la passività, la dipendenza, il vittimismo, si trasforma fino a diventare autonoma e cosciente di sé. Determinante”. Accanto a Mastroianni e all’Antonelli, si citano Gastone Moschin, Leonard Mann, la Belle e il fiorentino Stefano Patrizi, anch’egli barbamunito. Non sono menzionati né Olga Karlatos né il “faunesco” Ezio Robutti, il prete-inquisitore del paese – “figura deprimente, caricaturale ma in senso squallido”: mi cito ancora e sottoscrivo. “Il film nasce da un soggetto di Rodolfo Sonego che insieme a Marco Vicario ne ha scritto la sceneggiatura ed è prodotto da Franco Cristaldi per la Vides, con grande impegno produttivo, prevedendo una grande e minuziosa ricostruzione d’epoca e i più prestigiosi collaboratori: la scenografia è di Mario Garbuglia e la fotografia di Ennio Guarnieri”.

ASSOLUZIONE PIENA

Affidando il giudizio d’appello al dvd Vides – ma dalla vhs greca, in italiano, con titoli finali francesi ne era corsa di acqua, nel frattempo, e il film aveva avuto passaggi sul satellite – va concluso che l’assoluzione piena di Mogliamante è un diritto e non un’elargizione clemente. Si capisce che avrebbe potuto riuscire meglio, che soprattutto la seconda parte, quando lei d’amblé si imputtanisce man mano che rivà sulle orme del coniuge che crede morto e che invece la sbircia e si rode da una feritoia nella finestra della casa dirimpetto – le lame di luce sugli occhi di Mastroianni sono una delle due ricorrenze ossessive ed esasperanti del film; l’altra è la musica che mai s’arresta di Armando Trovaioli –, non ha un governo composto; soprattutto quando interviene la figura retorica del giovane medico filantropo interpretato da Manzella, che ha fama di recchione ma Mastroianni capisce subito, da ciò che gli racconta Moschin, che non è vero – e ha ragione. L’ Antonelli lo raccoglie da un cimitero dove ha appena sotterrato una gamba (dicesi gamba: l’hanno amputata a un poveretto) e gli dà uno strappo in città sul suo calesse, così Manzella le attacca un pippone larmoyant sul proprietario della gamba che morirà lasciando moglie, quattro bambini e un vecchio padre.

Da ridere, anche se non si è cinici. Laura divina è la proprietaria delle terre su cui vivono quelli come tanti altri disgraziati. Sono schegge, shrapnel di contestualizzazione sociale della vicenda, insieme all’attività politica carsica di Mastroianni, del quale la moglie va scoprendo che è un anarchico, ateo e rivoluzionario, pamphlettista apostolo di Bakunin, oltre che vinaio e puttaniere, che danno l’impressione o di essere rimaste lì dai riaggiustamenti di qualcosa di precedente e più corposo e strutturato, o di essere stati buttati dentro carlonescamente, in sede di riaggiustamento – i titoli di testa accreditano a Sonego il tutto ma aggiungono l’allarmante voce “revisione della sceneggiatura” come di Marco Vicario. Sedimenti o abbozzi. Sonego raccontava nel 1979 a Lorenzo Codelli (lo riporta Tatti Sanguineti nel suo volume esemplare Il cinema secondo Sonego), che Mogliamante nacque da un racconto della sua infanzia: un cavallo comperato a un’asta che su una certa strada di un certo paese era uso arrestarsi davanti a tutte le osterie per via delle abitudini potatorie del suo vecchio proprietario. L’idea è questa e viene innestata sulla “fragile Penelope” cioè l’Antonelli che si trova di colpo costretta a “imbarcarsi sulla nave del suo Ulisse” quando lui è dato per morto e bisogna mandare avanti il suo lavoro.

La nave sarebbe un calesse tirato, perlappunto, da uno stallone che scarrozza la Antonelli in tutti i posti dove il marito ha piantato – continuando con le metafore – il proprio chiodo, e lì si blocca. Tra parentesi, il richiamo a Ulisse e Penelope doveva essere esplicito nel copione di Sonego, perché quando Laura divina si concede il triangolo con Berger e Olga Karlatos – donna emancipata, che ha studiato medicina e che sessualmente va à voile et à vapeur  – butta là un proverbio per giustificare il triolismo che anche Mastroianni aveva sperimentato insieme alla Karlatos ed Annie Belle: «Dove è passato Ulisse, può passare anche Penelope». Per Sonego la questione di una donna che si mette in testa di ricalcare, in tutto e per tutto, le orme del marito, trascendeva, però, la pedestre e facile sfera del libertinaggio. Attraverso lei, voleva svelare lui, le profondità pagane e studiose dell’uomo – gli aggettivi sono quelli che usa Sonego. Finché la coppia alla fine si riunisce, pronubo un nuovo equilibrio. “Il regista e gli attori che hanno preso in mano il film sono stati spaventati da quella tesi di egualitarismo accanito e hanno manipolato la sceneggiatura”. Il risultato dice di non volerlo commentare.

LO VOLEVA FARE FORMAN

Sonego aveva scritto Mogliamante su richiesta, insistenza, supplica di Franco Cristaldi che voleva fare lavorare Claudia Cardinale, in fase depressiva. E lei, in effetti, quando lo legge va in visibilio, lo adora, dice che la protagonista è lei, che sembra esserle stato scritto addosso. Intanto entrano ed escono i primi possibili registi: si comincia con Marco Bellocchio, poi Louis Malle, che si innamora dello script, lo vuole fare a tutti i costi, in Francia, ma si impunta a non volere la Cardinale la quale non c’entra proprio niente – dice –  con il ruolo. Incredibile a dirsi ma attorno al realizzando film scritto da Sonego è concentrato l’interesse della crema del cinema internazionale: dopo Malle si fa avanti, da Oltreoceano, addirittura Milos Forman, che ha già fatto il Cuculo e sta lassù nel nido delle aquile. Conosce Sonego per averne visto al festival di Karlovy Vary alcuni film, vorrebbe farlo lui, ma chiede del tempo che Cristaldi – vera o falsa che sia questa storia – non gli concede.

Siamo tra il 1974 e il 1975, nella fase in cui la Cardinale ha girato I guappi e sta per prendere il volo con Pasquale Squitieri mollando il contratto Vides e Cristaldi. Al quale dal quel momento in poi a parlare di Mogliamante si correva il rischio – raccontava Sonego – di vedersi lanciare il copione in testa. Eppure, tramite un paio di uomini di fiducia del produttore, dopo qualche mese la sceneggiatura torna a circolare e a un certo punto sembra cosa fatta che la debba dirigere Gillo Pontecorvo: si reca anche a fare i sopralluoghi in Veneto con lo scenografo. Senonché, scatta dalla Spagna l’operazione Ogro e Pontecorvo che stava inseguendo da anni il film sull’attentato a Carrero Blanco, evade dalla fabbrica di Mogliamante.

IL TEMPO CRITICO

Così, la scelta ultima e definitiva fu Marco Vicario “regista non di sinistra, considerato un reazionario volgare e retrivo, attaccato al denaro, alle chiappe e alle tette” spiega Sonego per giustificare la “consegna del silenzio” che la critica sembrò rispettare alla quasi unanimità all’uscita di Mogliamante. Soprattutto non parlare di Vicario “quello che aveva messo un culo come affisso pubblicitario di Paolo il caldo”; e infatti parlarono di Sonego, dell’Antonelli, della scenografia, dei costumi, parlarono di altro.

Che è vero e non è vero, perché, per esempio, Rondi sul Tempo scrisse del regista in rapporto al film che “la sua capacita di costruire congegni di qualche effetto è a tutti nota”. E che Vicario “arriva a immergere il ‘fumetto’ in plausibili cornici fine secolo, riscattando di rado i toni pedanti e quelli sospirosi, ma riuscendo almeno a proporli formalmente con tecniche gradevoli, non lontane […] dallo stile”. Il Tempo (stavolta nel senso di Cronos) critico non è stato troppo galantuomo con Vicario e con il suo film: “I tocchi femministi e pirandelliani – scrive il Mereghetti per mano di chi compila la scheda, verosimilmente Pezzotta – lasciano il tempo che trovano e Vicario – che gioca un po’ a fare Bolognini – finisce nella solita farsa di costume”.

IL REMAKE USA

Eppure il film piacque, soprattutto all’estero e in particolare in America, dove con il titolo Wifemistress fu visto un po’ da tutti e già da subito ci fu chi si mise in testa di rifarlo: stessa storia, stessi attori, stesso regista. Se non è una geniale invenzione di Tatti Sanguineti nel riportare le parole di Sonego, pare che la Antonelli, interpellata al proposito, rispondesse: «Ah, mi no, mi non me interesa!». I dati sensibili sono che fu distribuito bene, anche John Milius lo vide e lo apprezzò, perché agli americani piaceva questo intrigo in cui lei ripercorre le orme di lui, il suo cursus vitiorum. Cristaldi, all’inizio degli anni Ottanta, ne vendette i diritti alla Lorimar per un remake nella produzione del quale c’era di mezzo nientemeno che Michael Phillips, l’uomo di Spielberg (interpreti ideali Paul Newman e Jane Fonda). Figurarsi. Naufragò. Un’altra volta, alla fine del decennio ci si riprova e Sonego certifica di essere tornato sopra allo script per gli americani. Nulla di fatto anche stavolta, sebbene un remake, a furia di dare, sarebbe stato portato in porto dalla Nbc con il titolo Intimate Betrayed. Lo diceva Sonego, ma non se ne trova traccia da nessuna parte. Mistero…