Vermiglio
2024
Vermiglio è un film del 2024 scritto e diretto da Maura Delpero.
Un’evocativa fotografia con limpidissimi toni bianchi tipici di terse mattine montane ci porta nel 1944 tra i crinali trentini della località che dà il nome al film. Recentemente si è parlato molto del secondo lungometraggio dell’autrice bolzanina Maura Delpero in virtù del Gran Premio della Giuria vinto a Venezia 81 e della sua nomina come film italiano per la corsa verso il Miglior Film Straniero agli Oscar, battendo la concorrenza di ben più quotati registi come Sorrentino, Luchetti o Amelio. Viene, dunque, normale chiedersi che cosa abbia spinto l’ANICA a scegliere il film di questa regista al suo secondo lungometraggio, dopo Maternal del 2019 (film italo-argentino, la cui vena sudamericana ritroviamo anche in questo film con la migrazione di uno dei personaggi in Cile). La struttura narrativa è quella del racconto famigliare, come la Delpero stessa ha definito in una recente intervista, rifacendosi al romanzo della Ginzburg, della durata di un anno, con una netta scansione quasi episodica nelle quattro stagioni, a partire dall’autunno e dal momento chiave della celebrazione della festa di Santa Lucia. Al centro delle vicende troviamo un insegnante duro e autorevole, Cesare Graziadei (Tommaso Ragno) anche nei confronti della sua numerosa famiglia e la comunità in cui essa vive. A pagarne il prezzo sono soprattutto la figlia Ada (Rachele Potrich), per via della sua sessualità autorepressa a causa della forte educazione religiosa oltre che alla sua volontà di proseguire gli studi non assecondata da suo padre/insegnante, e il figlio maschio più grande Dino (Patrick Gardner). Il personaggio motore della storia è un disertore siciliano chiamato Pietro (Giuseppe De Domenico), che giunge in Trentino dopo la fuga dal fronte settentrionale, suscitando scalpore tra i montanari, e si innamora di Lucia (Martina Scrinzi), una delle figlie.
L’organizzazione della materia segue quella del tableau vivant fortemente realista, che molti critici hanno avvicinato al cinema di Ermanno Olmi, vista anche la scelta di adottare il dialetto e di mischiare attori professionisti con esordienti locali: coralità di personaggi, ognuno dei quali si muove secondo le proprie inclinazioni morali e passionali che però vengono fermate da forze superiori di natura storica e sociale. Il giudizio morale dei comportamenti è sospeso e nessuno di questi emerge come esemplare. Essi vengono inquadrati nel contesto storico che diventa unico carnefice e condannato del film. Proprio le forze storiche e sociali, in maniera verghiana, diventano centro tematico della pellicola. La guerra non è rappresentata in modo diretto, ma le conseguenze ben evidenziate sono oggetto di discussioni superficiali dei paesani in osteria (ormai diventato topos nel cinema italiano con film come Il Re Granchio di Rigo de Righi e Zoppis o Il Buco di Frammartino). Il solo personaggio in grado di cogliere con consapevolezza qualche vizio di forma del suo tempo è il pater familias Cesare, con un complesso pensiero a tratti antimilitarista, che gli impedisce di corroborare l’emarginazione del disertore siciliano e con un nobile riconoscimento della funzione spirituale e soprattutto pratica della cultura. Egli stesso rimane, tuttavia, vittima del suo contesto storico come emerge soprattutto nel suo marcato nazionalismo e nel violento autoritarismo che esprime nelle dinamiche famigliari. La storia viene, dunque, percepita come imprigionante macchina manipolatrice del destino senza la possibilità da parte del singolo individuo di contribuire al suo fluire. Il finale primaverile speranzoso sembra, però, mettere in discussione e problematizzare la riflessione sin qui fatta, proiettando verso un futuro di cambiamento i figli e le nuove generazioni nate dai peccati del presente.