Cagliostro
Luci e ombre dietro al film di Daniele Pettinari (e Pier Carpi), con protagonista Bekim Fehmiu
Occorre raccontare come originano le cose. Riferire quello che gli alessandrini chiamavano αἴτια (aitia), ossia le cause prime, quello che etimologicamente è passato nel termine italiano eziologia. Perché niente accade per caso. E se adesso siamo qui a riferire di un personaggio, sia pur nel contesto di un film, del quale ci era capitato di occuparci parecchi anni fa – quando, sentendo il suo nome, Cagliostro, ci veniva da pensare, prima di ogni altra cosa, alla porpora dei filosofi (ostrum) e al fuoco del loro atanor (calidus), secondo quanto avevamo letto in Fulcanelli -, non è per puro capriccio del caso. Uno degli avventori del vecchio forum di Nocturno, Buono Legnani, ebbe una volta a interpellarmi per sottopormi una questione relativa al film Cagliostro; una domanda non particolarmente complessa, cui avevo risposto così, all’impronta, sulla base dei ricordi che avevo, piuttosto precisi ma allo stesso un po’ evanescenti, di una pellicola che certamente da diverso tempo non mi era capitato di rivedere. Il dubbio verteva sulla doppia identità che, nel film, Bekim Fehmiu riveste: da un lato Alessandro Conte di Cagliostro e dall’altro Giuseppe Balsamo; sposo, nella prima incarnazione, della nobile e altera Ewelyn Stewart e compagno, nella seconda, della procace popolana Rosanna Schiaffino – un’opposizione esemplare delle due tipologie di Venere che gli antichi distinguevano, quella Urania e quella Pandemos. Dissi che rammentavo bene che la teoria alla base del film era che Cagliostro fosse, in realtà, persona differente da Giuseppe Balsamo, praticamente un suo doppio perfetto, un sosia a lui simile come una goccia d’acqua, un palermitano figlio di mercanti di stoffe che qualcuno aveva interesse a spacciare per il Conte, con il fine evidente di nuocergli, facendolo passare per un ciarlatano, bestemmiatore e venditore di fumo.
Questa tesi, che molti storici considererebbero aberrante, era stata sostenuta nel libro di Pier Carpi Cagliostro il Taumaturgo, apparso nel 1972 per le edizioni MEB e che fu poi la ragion d’essere primaria del film di cui stiamo parlando, Cagliostro. Il film, appunto. Fu tutt’uno pensarci e avere voglia di rivederlo… E l’avrei rivisto, più volte, in un dvd tedesco della StarMovie, dal titolo Die Halsband Affäre – “l’affare della collana della regina” – che fa riferimento a uno scandalo che coinvolse il Conte di Cagliostro – per chi voglia mettersi al corrente del quale, rimando alla consultazione di tomi adeguati. Un dvd mediocre, ma con il vantaggio della traccia in italiano. Devo confessare che molte cose le ricordavo benissimo, addirittura a memoria, per esempio le parole che Cagliostro rivolge a coloro che hanno cercato di metterlo alla berlina, fingendosi ciechi, storpi e sordi, per sbugiardare i suoi poteri taumaturgici, e che lui rende davvero tali, storpi, ciechi e sordi: «Qualcuno ha dimenticato, che se io posso dare, posso anche togliere!» scandisce stentoreo il primo piano degli occhi di Fehmiu, mentre i tre (che sono Andrea Scotti, Brunello Chiodetti e Alessandro Perrella) perdono il controllo, si graffiano le gote, si denudano e crollano in ginocchio. E non potevo non rammentare tutta la parte iniziale del film, quando Cagliostro va per le campagne ventose, durante il suo noviziato, con il buon monaco suo mentore che una notte scompare dopo avere preannunciato la propria fine al discepolo, lasciando al posto del proprio cadavere, nel letto, una spada. La stessa cosa che a fine film accadrà a Cagliostro. A Pier Carpi va riconosciuta una grande abilità nel rimestare tra i sottofondi delle leggende per trovarne le varianti più suggestive. Uno spadone rimasto
al posto di un corpo! Fa il paio con ciò che da qualche parte, nel bel romanzo da cui fu tratto un suo film maledetto e innominabile, viene detto a proposito della tomba di Carlo Magno dalla quale, quando fu aperta, uscì un enorme serpente nero. Ma non voglio divagare…
Sempre in questo incipit di Cagliostro – che avrei detto, nei ricordi, più lungo e più strutturato: ma la ragione c’è e la vedremo tra poco –, avevo chiaro il ricordo del viaggio iniziatico al seguito del maestro Altotas, il levantino che il Conte indica come proprio iniziatore ma del quale nessuno ha mai trovata traccia altrove che in un memoriale di Cagliostro del 1786, culminante nella scoperta, durante un’eclisse, della tomba di Christian Rosenkreuz, là dove, accanto al corpo del mistico, Cagliostro trova e legge i libri di T e di M (che per qualche oscura ragione, ricordavo chiamati con i nomi delle lettere greche, Tau ed Em). Rividi la scena – ben inquietante – in cui il piccolo ermafrodito emerge nudo, con una fiaccola in mano, dal mare al tramonto (che forse è un’alba) e si avvia al luogo, un’altra caverna, dove Cagliostro dorme sognando i suoi sogni alchemici. E non avrei mai potuto dimenticare la battuta di Bekim Fehmiu quando viene convocato dal cardinale Curd Jürgens – futuro Papa Pio VI – che è sofferente, in ambasce, a letto e ha chiesto il suo aiuto: Cagliostro celiando e
un po’ sbeffeggiandolo, gli offre dell’oro come soleva fare con i suoi pazienti, poi gli chiede: «Qual è il tuo male?»; «Non lo so…»; «Un male senza nome è il peggiore dei mali. Può essere curato solo da un medico senza nome…», sentenzia Fehmiu doppiato da Walter Mastosi – e non da Sergio Graziani come si legge in giro. Quando è Giuseppe Balsamo, invece, Bekim Fehmiu ha la voce di Gianni Musy Glory.
L’ultima volta in cui avevo parlato con qualcuno di Cagliostro, questo qualcuno era il compianto Rodolfo Putignani. Putignani era, diciamo “il produttore” del film – trovò i soldi, insomma – e interpretò anche il personaggio di Napoleone Bonaparte «perché Napoleone doveva farlo un attore di teatro che però morì d’infarto, una settimana prima che cominciasse il film. Io ero lì e qualcuno mi disse: “Ma Napoleone era alto come te: dai, cazzo, perché non lo fai tu, che ci divertiamo?”….», come mi disse Rodolfo. Per inciso: nel file ”avrebbe dovuto farlo”, di Cagliostro, c’è persino il nome di Salvador Dalì, che “avrebbe dovuto interpretare” Voltaire nel film. Talmente assurdo che poteva risultare anche vero. Pier Carpi lo annunciò alla stampa. La scusa ufficiale del perché Dalì non si vide, fu che era stato colto da malattia debilitante. Chiuso l’inciso. Putignani mi aveva confermato quel che già sapevo, cioè che a dirigere materialmente il film, non era stato Carpi ma Daniele Pettinari. Come, del resto, recita la dicitura sui titoli di testa: “regia di Daniele Pettinari” e poi “un film di Pier Carpi”. Certo, Carpi era stato la mente che aveva agitato la mole, la struttura ideologica e filosofica di Cagliostro l’aveva eretta lui con il libro testé citato. Ma qui stiamo parlando del film. Erano anni che sentivo parlare di questa dicotomia irrisolta. Pettinari e Carpi, Carpi e Pettinari. E siccome non ero mai riuscito a leggere da nessuna parte (e dove avrei potuto leggerlo, del resto, se non lo avessi scritto io?) qualcosa di sensato e di definitivo sulla faccenda cagliostresca, pensai che fosse giunto il momento di interpellare Daniele Pettinari. Che peraltro non si era limitato a firmare la regia del film, ma risultava cosceneggiatore, insieme a Pier Carpi, con l’allora sua – di Pettinari – consorte, Enrica Bonaccorti. Carpi e Pettinari: bisognava partire da lì. Ab Iove principium come suol dirsi…
«Io credo sia stato Enzo Boetani a chiamarmi – rifletteva, nei giorni di sua vita, Daniele Pettinari, fotografo, sceneggiatore, produttore e allora trentenne regista al debutto con Cagliostro. Insieme a Giuseppe Collura, erano i produttori esecutivi del film. Esisteva, più che una sceneggiatura, una presceneggiatura di Cagliostro scritta da Pier Carpi, molto lunga. E su questo “bloccone” ci rimettemmo le mani io e mia moglie, Enrica, con lo stesso Pier Carpi naturalmente, per stringere un pochino. Facemmo una revisione per renderla più cinematografica. Con i tempi giusti. Carpi era uno scrittore, un saggista, un romanziere. Ma lo sceneggiatore è un altro ruolo». Prendendo al balzo la partenza di Pettinari, gli chiesi se, per caso, questo “stringere” non fosse stato applicato anche alla parte iniziale, al noviziato ermetico di Cagliostro, coi frati e col maestro Altotas – l’impressione di cui più sopra. «È passato tanto tempo, ma sì, lavorammo certamente sulla figura di Altotas, lo ricordo. Anche se lì ci fu un altro problema. Avemmo un difetto nella fotografia e vedendo il materiale, ci rendemmo conto che era sovraesposto. Tant’è vero che lì, quando Bekim incontra la bambina – Pettinari alludeva all’ermafrodito – dovetti fare un piccolo cambiamento, facendolo passare come un sogno di Cagliostro. Mentre avrebbe dovuto incontrarla nella realtà, Pupilla, che era il nome del personaggio di questa bambina». Pupilla, la medium che Cagliostro usava nelle operazioni magiche di divinazione con gli specchi e i vasi d’acqua. «La scena dell’incontro con Christian Rosencreutz, all’inizio, la girai con gli occhi aperti e con gli occhi chiusi del personaggio, per trasmettere l’idea della sua immortalità. Dovetti molto ingegnarmi, su Cagliostro. Non era facile trasmettere queste idee ai non iniziati, ai non addetti ai lavori».
Spostando il discorso sulla confezione del film: essa è ricca, cesellata, per un prodotto di genere di quegli anni. Molto è ben risolto grazie alle trovate di regia e non lo dico per captare benevolenza. Pettinari inorgogliva per la scena della guarigione dello storpio, operata cristologicamente da Cagliostro su Alessandro Haber «la girammo al teatro Marcello. Secondo Haber è stata una delle scene più belle e più impegnative che abbia fatto. Ed è vero: alla fine partì un applauso generale da parte di tutti, ed erano molti, quelli che stavano lì. Lo scelsi senza nemmeno fargli il provino». Già: c’è anche la variabile assolutamente non irrilevante – non per questo film certo – degli interpreti. Cagliostro fu Bekim Fehmiu. Oggi è difficile pensare ad altri che non fosse lui. A quella faccia, che già era diventata per sempre, per tutti, quella di Odisseo: «Mi innamorai artisticamente di Bekim perché trovavo che nel suo sguardo ci fosse qualcosa di Marlon Brando. Lo incontrai la prima volta al Parco dei principi, qui a Roma: era sdraiato su un lettino a prendere il sole. Avemmo un intesa perfetta nel film. Mai uno screzio, tranne forse una volta: mangiava una coscetta di pollo e dovemmo ripetere la scena. Non voleva ascoltare la segretaria di edizione che gli dava indicazioni per la continuità. “Ma no – disse – chi se ne accorge?” Lì mi incazzai con lui. L’unica volta». Girarono Cagliostro nel 1974, dal 24 giugno. Pettinari ricordava che sua moglie era incinta della figlia che sarebbe poi nata con il bel nome Verdiana, e lo accompagnò in una buona parte dei viaggi durante la lavorazione. «A Torino – giravamo a Palazzo Madama che simulava benissimo gli ambienti vaticani – la sera uscivamo con Bekim e con Massimo Girotti, che nel film faceva Casanova, e andavamo a giocare a ping pong, pensi… E io avrei voluto impedire a mia moglie di giocare… nelle sue condizioni, sa… Girotti era uno strano: quando a cena ci portavano il vino, a lui non stava mai bene. Lo rimandava indietro di continuo. Allora intervenivo io, lo assaggiavo e dicevo “Buonissimo!”. Sì, personaggio decisamente strano. Nella scena che girai con lui, nel ristorante, mi inventai un carrello circolare, abbastanza complesso. Quando fu tutto pronto, mi chiamò: “Guarda che da ‘sta parte io vengo male…”. “E me lo dici adesso, Massimo?!”. Se lo ricorda quando Girotti e Rosanna Schiaffino si scambiano il chicco d’uva? Alla fine mi disse, orgogliosamente: “Hai visto quanto tempo l’abbiamo fatta durare?”. Era così, dopo 300 film fatti, ancora non capiva che al montaggio sarebbe stato poi tutto drasticamente ridotto».
La scena in cui il falso Cagliostro, Balsamo, e la sua donna arrivano nel paese deserto, pieno di corpi nudi di appestati, dischiude un ricordo saporoso sulla Schiaffino: «Avemmo un diverbio. Io stavo alla fine della stradina, lei dall’altra parte, era in carrozza con Bekim. Le dicevo di rispettare certi tempi, per scendere dalla carrozza e lei faceva tutto l’opposto. “Ma che cazzo fai?” le urlai. “Ma vaffanculo!”, mi rispose; “Ma vaffanculo te!”. Al che lei scappò nella roulotte. Pressione su di me dei produttori perché andassi a chiederle scusa. Ci andai. “Purtroppo, ti devo chiedere scusa!”; Mi rimandò a fare in culo… (ride). Poi però, alla fine, diventammo molto amici. Venne anche alla prima del film che fu fatta Saint Vincent». Pettinari sovrabbondava di aneddoti su tutti, anche su Curd Jürgens: «Doveva scendere delle scale e lo doveva fare da Pio VI, il personaggio del Papa che interpretava. Lui invece scendeva come se stesse facendo una passeggiata. Glielo dissi, tramite l’interprete. Rifacemmo la scena. Niente, scendeva sempre nello stesso modo. Dissi al direttore della fotografia, Giuseppe Pinori: “Pino, questo fa come cazzo gli pare a lui, se continuiamo così meglio andare a casa… Io questo non lo gestisco”. Rifacemmo la terza e il suo segretario mi disse che Jürgens aveva un peacemaker, di non esagerare. Gli spiegai con il mio inglese italianizzato che cosa volevo. Curd andò su e stavolta scese da Papa, talmente bene, ma talmente bene che quando fu di fronte a me mi inginocchiai e mi feci il segno della croce, nemmeno diedi lo stop. Lui poi mi disse che aveva capito benissimo che cosa volevo ma mi aveva voluto mettere alla prova. E concluse, ridendo: “You son of a bitch…!”. Poi io mi vendicai nella scena in cui lui è a letto, quando convoca Cagliostro perché lo liberi dal male. Anna Orso va in smanie e Bekim, quando sviene, raccoglie con la mano la bava della donna per metterla in bocca al cardinale. Girai senza stacchi e mentre Bekim si avvicinava a lui con in mano la schifezza vidi la faccia di Jurgens che impallidiva. Quindi la sua espressione di ribrezzo lì era vera…».
Perché a Pier Carpi rodeva che Cagliostro fosse uscito come è uscito? Perché a Saint Vincent, alla prima, non fu presente e spedì invece un telegramma in cui disconosceva il film “per le scene di nudo gratuto e le volgarità” che giudicava lesive del valore artistico? In una pellicola, peraltro, praticamente senza nudi, rara avis per quei tempi e in cui l’unico topless, visto in campo lunghissimo, è quello di Ewelyn Stewart seviziata dalle suore di Anna Orso in convento («Credo di essere stato l’unico che è riuscito a far mostrare il seno a Ewelyn Stewart», si gloriava giustamente Pettinari). Le risposte sono le cose che mi hanno detto molte persone che stavano su quel set: «Il problema è che Carpi avrebbe voluto firmare la regia del film – diceva Pettinari – quando non era in grado di farlo. perché Carpi non era un regista ma uno scrittore». Vero: nessuno dei film firmati da lui può dirsi, registicamente, suo: Povero Cristo lo fece Gianni Siragusa e quello dopo, l’innominabile, beh, se avete letto Nocturno la sapete la storia lì come andò. «Amava venire sul set, farsi fotografare con gli attori, amava figurare come regista. Ma non era regista. In Cagliostro, pensi, gli feci fare anche un cammeo. È lui l’ecclesiastico che va ad aprire la porta a Bekim quando è convocato nel palazzo di Curd Jurgens la prima volta, quello che gli apre è Pier Carpi… Quindi credo che il motivo per cui Carpi prese le distanze dal film e si dissociò fosse questo. La riduzione della sceneggiatura di partenza, come ho già spiegato, venne fatta da me e da mia moglie insieme a Carpi. Ma le scelte registiche furono mie e le rivendico. Fui io a decidere nel processo a Cagliostro, che girammo a Spoleto, di disporre gli inquisitori di spalle, nel sotterraneo, chiedendo al direttore della fotografia di annullare quasi il colore, dal momento che io le cose più crudeli le ho sempre viste in bianco e nero, non a colori. E rappresentai la vergogna della Chiesa nascondendo le facce dei giudici, facendoli voltare verso il muro. Aggiunsi l’idea di non farli parlare, di usare solo una voce fuori campo che leggesse l’atto di accusa. Quella per me era la voce della Chiesa…».